di Gaia Puliero
Gli piace sporcarsi le mani. A lui, come a tutti i volontari che da qualche anno animano le tre ciclofficine aperte a Parigi, e la quarta che da sabato prossimo si aggiungerà a due passi da Gambetta, a est della città: ex attivista della Snia Viscosa di Roma trapiantato a Parigi, Giuseppe “Ciclocuoco” Caprarelli racconta il movimento a due ruote che da qualche anno coinvolge Parigi. Da quando, quella volta a Roma, la ragazza lo piantò e gli rubò il vespino.
E a quel punto?
Era la prima volta che salivo su una bici. Mi piacque talmente che mi ero messo in testa di fondare una ciclofficina a Roma, ma mi ripetevano tutti che per la meccanica ero negato, che non ero capace. “Cucina che è meglio”. Allora mi son messo a fare il cuoco al centro autogestito ex Snia, ma l’idea era sempre lì: durante quegli anni (cinque) ci ho riprovato più volte, ma niente da fare. “Non sei capace”. La svolta è venuta nel 2003-2004, quando abbiamo iniziato a trovarci in cinque o sei con l’aiuto di Nunzio, un amico ex ciclista che di bici ne capiva e ci ha insegnato come lavorarci. Ci chiamavamo i ciclonegati! (ride) Fino a quando mi son ritrovato messo alla porta dalla società per cui lavoravo come webdesigner, e dall’appartamento dove vivevo. Un’amica mi disse “Vieni a Parigi”. Era l’ottobre 2008. Non avevo nulla da perdere: partii, e con un gruppo di amici abbiamo progettato una rete di ciclofficine per sviluppare ateliers pratici nei quartieri popolari. Siamo riusciti ad aprire la prima nel 2012. Sabato inauguriamo la quarta.
Cosa fate esattamente?
Recupero e riparazione di biciclette, ateliers di meccanica (Per conoscere bene una bici la devi smontare!) e serigrafia, animazioni di strada, aste e vendita. Ci siamo costituiti come tre associazioni distinte e collegate: le ciclofficine di Pantin, Ivry-sur-Seine e Parigi, tutte parte – come la quarta, basata anch’essa nel 20simo arrondissement – della rete nazionale dell’Heureux Cyclage (un bel gioco di parole fra felicità e riciclaggio ndr.), presente in Francia dal 2008.
Con loro abbiamo ottenuto un finanziamento dalla Fondazione di Francia, i primi 45.000 euro che hanno permesso di lanciarci dopo la costituzione della rete cittadina. Oggi siamo 15.000 aderenti, 15 “cicloattivi” (i membri più presenti) e 5 stipendiati (forse quest’anno se ne aggiungerà un sesto), ognuno con funzioni precise (animatori di atelier, responsabile amministrativo, capo progetto) e un planning settimanale di 45 ore lavorative.
Ma riuscite a viverci?
Le sovvenzioni per l’affitto (pari al 10%) e la quota associativa di almeno 15 euro l’anno – 10 servono solo a coprire l’assicurazione del locale, in Francia obbligatoria e a persona – ci permettono di portare avanti un progetto collettivo che mira ad andare oltre il volontariato, a creare lavoro. L’equilibrio è delicato – a Pantin manca ancora un locale, i costi possono crescere – ma forte della dimensione di scambio che lega nel quotidiano le ciclofficine parigine (materiale, stipendiati: siamo intercambiabili). Per farci conoscere ogni primo sabato del mese organizziamo la Vélorution (la ciclorivoluzione ndr.), una biciclettata generale per le strade di Parigi. È questa dimensione collettiva che mi piace più di tutto, più del cercare o rimontare biciclette: le due ruote sono il mezzo della nostra felicità.
In Italia esistono diverse ciclofficine: sarebbe possibile ricreare il modello francese?
Si, è una cosa che ho proposto più volte nella sfiducia generale. Si potrebbe organizzare un transfert di bici da Parigi a Roma e cominciare così. Qui noi recuperiamo fra le 40 e le 200 biciclette a settimana, un tir andata e ritorno costa 2.500 euro. Mi rispondono sempre che non è possibile.
E invece perché in Francia funziona?
La forza della rete francese è di aver fatto sistema. In Italia ogni ciclofficina è a sé, manca una rete nazionale e l’attenzione al sociale non ha il supporto statale di qui: con tutti i difetti che si possono trovare ai francesi, episodi come la privatizzazione della Magliana qui non sarebbero tollerati, la costruzione e distribuzione di logements sociaux ha le sue difficoltà ma continua. Si può agire in modo sociale ed economico. L’autogestione come la intendiamo noi non ha niente a che vedere con una spartizione dei profitti, non è un guadagno alla giornata ma un investimento a lungo termine. Per questo collaboriamo regolarmente con altre realtà che a Parigi lavorano sulla condivisione e il collettivo. Come La Petite Rockette, una ressourcerie (da risorsa ndr.) dove ci procuriamo soprattutto elettrodomestici, o Les petits vélos de Maurice, un progetto sociale e professionale che forma persone con handicap al mestiere (riconosciuto) di riparatore di biciclette. Da loro recuperiamo soprattutto i cerchioni e uno sconto del 15% a tutti i nostri soci sul materiale nuovo. Li amiamo!
Sei emozionato per questa nuova apertura?
Tantissimo. Ogni ciclofficina assorbe l’atmosfera del quartiere e a noi piacciono i contesti popolari: Gambetta – dove si trova la ciclofficina di rue Bonnard- si sta velocemente imborghesendo, volevamo rimetterci in gioco. In questi giorni gli abitanti del quartiere hanno visto cambiare questo locale, che prima ospitava un asilo. Abbiamo appeso le biciclette, posizionato i pezzi, messo in moto la macchina nella sorpresa generale. Ora siamo alla ricerca di attrezzi, quindi se avete chiavi inglesi o qualunque altro arnese che possa trovare una seconda vita da noi, portatecelo! Si puo’ sempre imparare tutto.
(Le foto sono di Silvia Cher)
Articolo tratto da uncomag.com
Davide Portinari dice
Proprio belli, li ho visti dal vivo in quel di Paris, un progetto reale, invidiabile e… migliorabile, forse, certo.
Probabile che se in Italia ci fosse un minimo di sostegno dell’autorità pubblica nei confronti di questi progetti, gli stessi avrebbero dato ali verdi ad un’Italia stanca di lottare contro i mulini a vento della lobby del veicolo privato a motore. Necessaria transizione dei modi di spostamento urbano e non. Bravi, continuate così, grazie dell’articolo. Davide, ex-ciclomeccanico ciclofficina di Vicenza.