Il corpo di Celestino Córdova non avrebbe potuto reggere oltre. Due scioperi della fame, di oltre cento giorni ciascuno, in soli due anni (sei, complessivamente, nei sette anni e mezzo della sua detenzione) non sono sopportabili per nessuna vita e la vita – per i Mapuche, che non hanno alcuna intenzione di suicidarsi ma praticano una forma di lotta estrema per la giustizia – resta sacra. No, non c’è alcuna vocazione al martirio per la cultura di un popolo abituato a repressioni e lotte estreme, seppur di diversa natura, fin dal tempo dei conquistadores spagnoli. Infatti, ci sono altri 27 prigionieri politici nelle carceri di Temuco, Angol e di altri centri della Patagonia cilena, che – malgrado le parziali conquiste ottenute nell’accordo che riguarda Córdova – continuano quella lotta rinunciando ancora a nutrirsi. Il machi Celestino, certo il “caso” più noto a livello internazionale, ha ottenuto solo parte degli obiettivi per cui si batte da tanto tempo. Non la possibilità di scontare ogni anno sei mesi della pena (18 anni) cui è stato condannato (in un processo farsa per omicidio) nel suo territorio, come prevede per casi come il suo la Convenzione internazionale sottoscritta dallo stesso stato cileno, ma solo 30 ore. Potrà intanto richiedere, anche grazie alla lotta dei suoi compagni e alla mobilitazione internazionale, il trasferimento a uno dei centri di educazione e lavoro previsti dall’ordinamento penitenziario per il reinserimento sociale dei detenuti. Un granello di sabbia, come dice lui, che si aggiunge alla lotta durissima e interminabile di un popolo che, più che mai in questi anni, subisce una repressione vergognosa quanto violenta da un governo che sembra sempre più deciso a percorrere la via degli orrori del passato
La vita del machi Celestino Córdova è salva. Dopo un lungo negoziato con un governo che ha giocato fino all’ultimo con la sua vita e con quella degli altri detenuti mapuche, l’autorità spirituale ha annunciato martedì di aver messo fine a 107 giorni di sciopero della fame.
Una bella notizia appena offuscata dal contenuto dell’accordo raggiunto, molto distante dalle rivendicazioni iniziali: il machi potrà sì recarsi al suo rewe (l’altare mapuche che simboleggia la connessione con il cosmo), ma solamente per 30 ore, anziché per i sei mesi richiesti. E potrà anche richiedere il trasferimento a uno dei centri di educazione e lavoro previsti dall’ordinamento penitenziario per il reinserimento sociale dei detenuti.
Riguardo agli altri prigionieri politici in sciopero della fame, l’accordo stabilisce che non potranno essere oggetto di sanzioni disciplinari e prevede facilitazioni per il loro ingresso nei programmi di studio e lavoro, la creazione di «moduli speciali» nelle carceri per i rappresentanti dei popoli originari, la possibile revisione delle misure cautelari (con gli arresti domiciliari in sostituzione della carcerazione preventiva), la continuità dei «Dialoghi interculturali» mirati a una modifica dei regolamenti carcerari per i popoli indigeni.
«Ho apportato il mio umile granello di sabbia alla lotta del popolo mapuche», ha dichiarato Celestino Córdova in un comunicato letto dalle sue portavoce Cristina Romo e Giovanna Tafilo. L’autorità spirituale riconosce che i risultati ottenuti «non sono soddisfacenti nella loro totalità», ma, prosegue, «ho assunto lo sciopero della fame con dignità, ponendo la mia vita a disposizione della nostra lotta, allo scopo di avanzare un passo alla volta». Con ciò, conclude, «la lotta non è terminata, né quella dei prigionieri politici, mapuche e non mapuche, né quella del nostro popolo, né quella di tutti i popoli oppressi del mondo».
Soddisfazione per l’accordo raggiunto è stata espressa dal presidente Piñera, il quale ha persino rivendicato il rispetto della sempre calpestata Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni. E ciò benché il suo articolo 10, che raccomanda sanzioni penali alternative per i rappresentanti dei popoli originari, in considerazione delle loro caratteristiche economiche, sociali e culturali, non sia mai stato applicato dai tribunali nei 12 anni passati dalla sua ratifica.
Fonte: il manifesto
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