Quando hanno visto passare i camion con i materiali necessari alla costruzione di opere utili solo al business delle imprese e a chi ne tutela i profitti, le comunità si sono organizzate e hanno fermato l’avvelenamento del fiume. Quell’acqua è la fonte della vita, serve agli animali, a lavarsi e al gioco dei bambini. Non permetteranno che ne venga insudiciato neanche un litro, anche se nei rapporti delle autorità le dighe e sistemi di depurazione appaiono come contributi per lo “sviluppo” dei popoli indigeni. La resistenza delle comunità delle montagne di Chinantla, stato di Oaxaca – raccontata in un incontro sulla “Difesa dei territori contadini e indigeni nel nuovo caos” (in un Messico che ora deve vedersela pure con la piaga Trump) -, porta alla luce una buona fotografia del sistema capitalista, dove l’occultamento delle conseguenze e dei rifiuti di ciò che si produce serve a mantenere il sistema, a far credere che non ci siano danni ambientali, a far pagare alla società i costi della contaminazione e a far soffrire le conseguenze dell’inquinamento senza sapere da dove arriva. Quando invece si mantengono la prospettiva collettiva e il rapporto con il territorio, la dimensione della comunità che non perde il rapporto con il ciclo degli esseri viventi, con le generazioni passate e future, con l’acqua, il bosco e la natura, allora diventano evidenti la perversione e i costi occulti di ciò che chiamano progresso
di Silvia Ribeiro
Santiago Tlatepusco è una comunità protetta dalle montagne della Chinantla, nello stato (messicano, ndt) di Oaxaca. Gli abitanti raccontano con orgoglio di come, nel municipio di San Felipe Usila, hanno fermato una diga idroelettrica che nel 2011 gli volevano imporre. Era una mini-centrale della Enerci SA de CV, un’impresa privata, ma loro avevano già esperienza di quello che era successo nel 1989 con la diga Miguel de la Madrid “Cerro de Oro”, che aveva lasciato isolate 9 comunità. Si trattava di un investimento pubblico ma non si era tenuto conto dell’opinione e delle necessità delle comunità. Con un’impresa privata, aggiungono, sarebbe stato ancora peggio. Loro si sono organizzati, hanno resistito e l’hanno fermata.
Adesso resistono contro un progetto di rete fognaria, non nella loro comunità, ma in una comunità a monte del fiume, San Pedro Tlatepusco. La comunità aveva sollecitato un supporto per costruire degli impianti sanitari, ma le autorità ne hanno approfittato per ingaggiare un’impresa che ha fatto un progetto completo di rete fognaria a suo esclusivo vantaggio. Quando hanno visto passare i camion con i materiali, le comunità a monte del fiume hanno reagito: si erano rese conto che con questo progetto avrebbero contaminato tutto il fiume e le 12 comunità con seimila persone lungo il fiume. Quando lo descrivono, si sente come il fiume fluisce intrecciato con le loro vite, “Da lì prendiamo l’acqua, giochiamo, gli animali bevono, i bambini crescono giocando nel fiume, le donne lavano i loro be huipil [1] e ci adorniamo nel fiume. Non permetteremo che neanche un litro di acqua venga insudiciato”. Che differenza con il concetto di “progresso” che gli vogliono imporre! Sicuramente nei rapporti delle autorità, le dighe e sistemi di depurazione appariranno come contributi per lo “sviluppo” dei popoli indigeni, omettendo di informare che i guadagni sono affari privati. Però tutto questo non passerà.
È una buona fotografia del sistema capitalista, dove l’occultamento delle conseguenze e dei rifiuti di ciò che si produce è fondamentale per mantenere il sistema, per farci credere che non ci sono impatti, per far pagare alla società i costi della contaminazione e farci soffrire le conseguenze dell’inquinamento senza sapere da dove arriva, affinché crediamo che tirando l’acqua dello sciacquone, tutto scompare e non è più un nostro problema. Ma quando si mantiene la prospettiva collettiva e il rapporto con il territorio, la dimensione della comunità che non perde il rapporto con tutto il ciclo degli esseri viventi, con le generazioni passate e future, con l’acqua, il bosco e i componenti della natura, diventa evidente la perversione e i costi occulti di ciò che chiamano progresso.
La stessa comunità ha anche rifiutato il PROCEDE/PROCECOM, un progetto scritto dalla Banca Mondiale per certificare la terra dell’ejido [collettiva] e comunale. La Banca Mondiale e il governo hanno pensato che ci sarebbe stata una corsa da parte di ejidatarios e di comuneros per ottenere il proprio titolo individuale al fine di affittare o vendere la terra. Alcuni lo hanno fatto, ma la maggioranza è tornata a “certificare” la terra come proprietà collettiva. Santiago Tlatepusco lo spiega: “Se la dividiamo, la terra non ci basta”. Però se la lavorano e ne hanno cura come comunità, sì”.
È una delle storie e testimonianze di lotta e costruzione condivise nell’incontro “La difesa dei territori contadini e indigeni nel nuovo caos”, convocato dal Centro de Estudios para el Campo Mexicano (Ceccam), dalla Asamblea Nacional de Afectados Ambientales e da varie altre organizzazioni, dall’ 8 al 10 marzo 2017, dove si sono riuniti membri dei popoli indigeni rarámuri, nahua, purhépecha, totonaco, me’phaa, na savi, zapoteca, mixe, mixteco, chinanteco, chocholteco, ikjoot, ñañú, chontal, tzeltal, lacandón, chol, chuj, maya, di 87 comunità, così come una ventina di organizzazioni, di 14 stati.
Hanno partecipato comuneras e comuneros di Santa María Ostula, Cherán, Nochixtlán, Yalalag, Paso de la Reina, San Dionisio del Mar, Zacualpan, Huayacocotla, Hopelchén, Bacalar, Bachajón, La Parota, Tepoztlán, Atlapulco, Huitosachi, tra le molte altre comunità che conducono lotte di resistenza contro megaprogetti minerari, stradali, forestali, idroelettrici, petroliferi, fracking, transgenici, agrotossici e altri. Contro i progetti del governo che con la storia del “pago per servizi ambientali”, REDD [2] e altri, vogliono imporre nuove forme di espropriazione di diritti e di territori. E contro le nuove e non tanto nuove leggi che continuano ad aumentare la legalizzazione del saccheggio e della devastazione, e sempre di più l’aperta repressione contro la protesta. Contro le “consultazioni”, la nuova carta bianca di imprese e governo, per dire che le popolazioni sono state ascoltate. Anche se la consultazione è stata comprata o è stato detto che anche se si oppongono ai progetti, in ogni caso la consultazione non è vincolante.
All’incontro hanno partecipato anche organizzazioni e ricercatori che hanno apportato dati e analisi sulla nuova congiuntura a partire dall’amministrazione Trump: tra di loro Andrés Barreda, Luis Hernández Navarro, Magda Gómez. È chiaro che i progetti di spoliazione non si fermano e con l’aumento di espulsioni di migranti – molti dei quali indigeni – si creano nuove sfide. Si aprono scenari diversi a molti livelli ed è bene conoscerli. Sebbene siano scontri intra-capitalistici, cercheranno di sfogare le loro “perdite” contro i popoli indigeni. Però anche il nuovo caos apre crepe che sono opportunità. E la tormenta era già qui, come le storie delle resistenze ne danno conto.
All’incontro è stata anche invitata una delegazione del Congreso Nacional Indígena, per presentare e discutere sulla proposta della formazione di un Concejo Indígena de Gobierno e di una candidata indigena alle elezioni del 2018: un compito che il CNI sta moltiplicando in molte regioni, per informare, spiegare, ascoltare e arricchire il dibattito su quello si sta facendo per la realizzazione.
Nel vero stile dei popoli indigeni, tanto lontano e opposto alle favole dei partiti, le domande sono molte, non sono formali e le risposte non sono ricette, perché anch’esse sono vere e non cercano voti, ma compagne e compagni. Nel contesto della devastazione e degli attacchi che stanno vivendo, la proposta di coordinarsi, organizzarsi, autogovernarsi in forma nuova, rimane nella mente e nel cuore dei presenti. Non si cerca e non c’è una risposta immediata, perché la necessaria risposta è proprio la riflessione collettiva e l’organizzazione, e questa cammina con il suo ritmo, nelle sue regioni, con i suoi popoli.
Nonostante l’ascolto di tante testimonianze di devastazione e attacchi, l’incontro rafforza la fiducia e la serenità, per sentirsi parte di un tessuto collettivo, perché gli sguardi sono diversi e complessi, ma c’è un sotterraneo riconoscimento di essere parte dello stesso grande territorio. E come annuncia il pronunciamento che chiude l’incontro “È l’ora dei popoli indigeni”.
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