Non c’è molto spazio in questo tempo per ragionare di cambiare il mondo. Eppure quel desiderio non smette mai di essere alimentato in tanti modi diversi. Oggi sembrano prevalere tre approcci: è velleitario pensare di cambiare il mondo, pensa a sopravvivere; il cambiamento è nella lotta dei subalterni; costruiamo piccole realtà alternative più o meno autosufficienti, basate sulla condivisione. Nessuno di questi approcci è soddisfacente dentro l’ordine delle cose contemporaneo, scrive Massimo De Angelis, forse occorra meticciare il secondo e il terzo, ma è possibile farlo solo se i luoghi “altri” non sono separati dal mondo ma sono dentro il mondo – nei quartieri, nelle fabbriche, nelle campagne, negli ospedali, nelle scuole… – e se la creazione di questi luoghi “altri” (commons) è anche inevitabilmente conflitto
Vi sono oggi tre approcci generali alla questione “cambiare il mondo”. Il primo: pensa a sopravvivere, non c’è speranza, il mondo non si può cambiare ed è velleitario pensarlo. Il secondo: la speranza del cambiamento è nella lotta dei subalterni, mobilita e fatti mobilitare. Il terzo: la speranza è nella costruzione di piccole realtà alternative più o meno autosufficienti, basate sulla condivisione, sulle buone maniere e sui buoni rapporti di vicinato…. se solo tutti facessero così. Nessuno di questi approcci è soddisfacente dentro l’ordine delle cose contemporaneo, eppure ognuno ha un suo nocciolo razionale, comprensibile e condivisibile.
Approccio numero 1. Pensare alla propria sopravvivenza a fronte di guerre competitive economiche o armate che siano, di fronte ai disastri climatici, di fronte alla persistenza del razzismo e del patriarcato è imperativo comprensibile nel qui e ora. Ognuno tenta di sopravvivere come può. Tuttavia se si lascia correre il mondo la sua corsa così come è, cioè dentro i meccanismi che lo riproducono, le tendenze in atto rendono la sopravvivenza dei corpi, della salute mentale e del pianeta come abitabile sempre più difficile, e quasi impossibile da immaginare, e ciò ci conduce alla proiezione distopica di un futuro immanente alla mad max, cioè della guerra di tutti contro tutti, o di una società di controllo totale come quella di Orwelliana memoria (o della coesistenza di entrambi). L’estinzione della specie umana, a parte i pochi miliardari scappati nello spazio, sta poi sullo sfondo di queste tendenze. Pensare alla propria sopravvivenza allora va bene, ma non basta.
Approccio numero 2. La lotta collettiva è la grande fonte di cambiamento, la lotta che al minimo punta alla riforma, e al limite punta al rivoluzionamento del modo di operare del mondo. In effetti, senza lotta dei subalterni, non c’è alcuna possibilità di cambiamento. Il dominio non affranca i subalterni di sua volontà, senza che questi ultimi abbiano innalzato sostanzialmente, attraverso la lotta, i costi dell’inazione per i dominanti. Ma la storia ci ha insegnato non solo che in questo mondo le lotte si reprimono con la galera e con il sangue, e che prima di cambiare qualcosa di sostanziale il sangue da versare non è poco. È la storia di tutte le rivoluzioni. Ci ha anche insegnato che i cambiamenti concessi dentro l’ordine delle cose di questo mondo, non ne modificano sostanzialmente il suo operare, al massimo ne ridistribuiscono i costi dentro la gerarchia salariale dei subalterni che popolano il mondo. Cos’è una delocalizzazione produttiva, se non un sottrarre ai diritti conquistati di chi ha una storia industriale di lotta, per dare lavoro (più intenso) e reddito (inferiore) a chi, da un’altra parte del mondo, ha lottato per gli stessi diritti ma in condizioni diverse? Cos’è la politica ambientale perseguita al fine della crescita economica, se non il tentativo di una parte del mondo di rispondere alle lotte ambientali, a discapito di quella parte del mondo che vedrà aumentare l’estrattivismo distruttivo di ecologie e di modi di vita necessari a produrre sempre più materiali necessari alla rivoluzione verde e alla fine aumentare i gas climalteranti per tutti? Inoltre, la storia del capitalismo in generale ci mostra come questo ordine delle cose sia stato allo stesso tempo sempre in cambiamento (anche a fronte dei numerosi movimenti che lo hanno attraversato) ma senza cambiare nulla di sostanziale, cioè un ordine delle cose basato sulla crescita infinita in un pianeta limitato, e sulla riproduzione allargata di gerarchie di condizioni di vita, reddito e potere. La lotta allora va bene, ma non basta.
Approccio numero 3. A fronte del caos del mondo, costruiamo commons, cioè luoghi di cooperazione pacifica e non competitiva, conviviali, di condivisione, di ricerca di nuove relazioni sociali e produttive tra i membri della comunità che li abitano, e di nuova sensibilità verso la natura non-umana. Luoghi dove si cerca di elevare sempre più il livello di autosufficienza dal grande mercato, dove le comunità che li abitano elaborano insieme le regole a seconda di un etica in contrasto con quella dell’ordine delle cose dominanti. E in effetti, per costruire un nuovo mondo è proprio necessario mettere delle teste e dei corpi insieme a cooperare dove si può organizzare la propria sopravvivenza in comune con altri su altri valori. Se tutti facessero così… Il problema nasce dal fatto che non tutti possono fare così: mancano l’accesso alla terra, agli edifici, al denaro, non per carenza di queste ma per la distribuzione iniqua della ricchezza sociale e per le svariate forme di esclusione. Ma anche quando la possibilità di mettere insieme le risorse ci sarebbe, mancano spesso forme di immaginario e di coscienza che riescano a intravedere la plasticità del reale e l’allargamento degli orizzonti delle possibilità dei soggetti: d’altra parte cresce la disperazione nel mondo, e il senso di impotenza ad esso collegato. Inoltre, la prospettiva del piccolo luogo di pace e di comunità si scontra col fatto che parte dei suoi bisogni – a meno di una completa regressione tecnologica e di un totale isolamento dal resto del mondo – è espletato dal suo collegamento col mondo e i suoi prodotti (infrastrutture comunicative, medicine, materiali, macchine, prodotti culturali) e alle corrispondenti reti di sfruttamento umano e naturale. Anche il piccolo enclave virtuoso dunque partecipa alla riproduzione dei vizi del mondo, e se tutti seguissero il suo esempio, non vi sarebbero più infrastrutture comuni: niente sanità e ospedali, strade e internet, penne a sfera e libri. Ora, c’è chi desidera un mondo così, ma non sono tra quelli. Infine, tale approccio dimentica che nel mondo opera una forza espansiva che si chiama capitale, e che la sua “civiltà” , ha raggiunto anche le ultime popolazioni sconosciute dell’Amazzonia, e non esiterà, datagli l’occasione e la motivazione, a depredare delle sue risorse anche l’ultima enclave comunitaria dei virtuosi.
Allora che dire, ha forse ragione il primo approccio che non c’è speranza? No, credo invece che occorra meticciare i due ultimi approcci. Per esempio i commons dell’approccio 3 non possono sopravvivere senza esercitare nel mondo la propria influenza e cercare di espandersi e viceversa, senza che le soggettività moltitudinarie del mondo esercitino la loro influenza sui commons. Questi ultimi dunque non si possono considerare come enclavi, ma sistemi sociali dai confini porosi, aperti sul mondo per favorire la nascita di nuove congiunzioni con altri soggetti, che permette l’espansione, l’evoluzione e la crescita dei commons stessi. Considerati in questo modo, i commons non sono più solo luoghi-altri separati dal mondo, ma luoghi-altri che da dentro il mondo operano nel mondo trasformandolo attraverso la loro espansione. Dentro il mondo significa dentro le fabbriche, dentro gli ospedali e i sistemi sanitari, dentro le scuole e le università, i quartieri e le città, e trasversalmente a tutto ciò. Ma la crescita dei commons si basa sul fatto che sempre più soggetti partecipino nei commons e sempre più commons si relazionino tra loro per dar forma a ecologie di commons con cui sostenere sempre i bisogni collettivi della riproduzione sociale, riducendo così la dipendenza materiale e dell’immaginario dall’ordine delle cose dominante. Per far questo, in un mondo dove la ricchezza sociale è accentrata in poche mani, e le regole degli stati sono sempre più orientate a dare mano libera ai processi competitivi e di accentramento della ricchezza prodotta ad essa collegata, nonché a fagocitare la guerra e la distruzione ambientale, i commons non possono neanche sopravvivere senza la lotta, così come le ragioni della lotta non troveranno mai attuazione senza commons. Cos’è la lotta infatti, se non una forma di fare e agire in comune? E i fautori del primo approccio si mettano il cuore in pace: non ci sarà sopravvivenza di nessuno, senza sopravvivenza collettiva.
Tommy dice
Cambiare il mondo… Qualcosa che in fondo non si è mai smesso di fare purtroppo ad un certo punto lo abbiamo lasciato fare al peggiore degli autori : il capitalismo. Questi ormai ha contaminato e si è appoderato di qualsiasi angolo della terra ed è penetrato nell’anima ognuno di noi, anche quando rifiutato, combattuto. Quando si parla di cambiare il mondo io ho chiaro che bisogna partire da un punto iniziale :distruggere il capitalismo. Nell’articolo si dice che una rivoluzione comporta versamento di sangue, evidentemente, ma rimanere fermi e lasciare che tutto proceda come ora quanto sangue e distruzione comporta e comporterà? Credo che il sacrificio che dovremmo pagare in questi termini oggi bisognerebbe misurarlo con la speranza per un futuro altro per umanità e Madre Terra. Si parla di Commons, termine molto usato da anni e che mi riporta alla Ada Colau, nel 1°mandato di sindaco, e che ho trovato sempre interessante, le contraddizioni, o i limiti, di questo concetto di autorganizzazione sono ne espressi nell’articolo ma c’è un altro aspetto che tocca anche realtà rurali di piccole comunità autosufficienti dal punto di vista alimentare e energetico, comunità a grandezza variabile, magari anche in rete, cioè gli effetti negativi del capitalismo colpiscono anche loro nonostante tutto:2 anni fa stavo conoscendo alcune di queste comunità in Catalogna, Comarca del Bages, 2 distinte e distanti realtà, ma di colpo in ambedue era successo qualcosa di impensabile : si erano prosciugate le sorgenti, e quindi avrebbero dovuto abbandonare i loro progetti di cambiamento e di vita. In conclusione, per me il cammino è una rivoluzione per annientare il capitalismo, questi anche è cambiato, evoluzionato rispetto a ieri, io lo vedo come se fosse una entità a se stante, capace ormai di controllare, dominare ed imporre le sue leggi su tutto e tutti, anche su coloro che denominiamo capitalisti questi sono solo esecutori, braccia, hanno smarrito completamente i valori che li rendevano umani.
Dino Gerardi dice
Dai un’occhiatina al sito http://www.worldlabnetwork.org