Chi siede nella giunta non è retribuito ed è tenuto a seguire un criterio di rotazione per brevi periodi. Non è una bizzarra proposta della campagna elettorale ma quanto accade da tempo nei caracoles delle comunità zapatiste. Tuttavia, lo spirito dell’autogestione è andato molto oltre le giunte del buon governo, e mostra oggi in maniera sorprendente e importante la sua forza nel creare comunità prima di tutto negli ambiti della vita di tutti i giorni, nell’educazione, nella salute, nel lavoro nei campi. La capacità di prendere il destino nelle proprie mani e il protagonismo delle donne sono per altro tratti che accomunano il Chiapas, in Messico, con la regione del Rojava, nel nord della Siria
di Antonio Senta e Guido Candela
In Chiapas da più di vent’anni si sta sviluppando una rivoluzione sociale e culturale dagli evidenti tratti autogestionari. Lo zapatismo ha avuto il merito di indicare un metodo di rivendicazione, difesa e pratica di un’autonomia che ha alla base l’esercizio continuo del diritto decisionale negli ambiti cruciali della vita comunitaria da parte della popolazione indigena. Autonomia è qui un altro modo di dire autogoverno: governarsi secondo usi e costumi propri, cioè innanzitutto attraverso una continua pratica assembleare.
L’autogestione è praticata attraverso la ricerca della massima diffusione, o diluizione, del potere. Le cinque zone in cui dal 2003 è diviso il territorio zapatista (caracoles) sono gestite da Giunte di Buon Governo. Le massime autorità decisionali sono l’assemblea generale e le assemblee dei villaggi. La giunta, che rimane in carica tre anni, è chiamata a rispettare il mandato dell’assemblea generale, pena la revoca. Chi siede nella giunta non è retribuito ed è tenuto a seguire un criterio di rotazione: ricopre un ruolo di responsabilità solo per un breve lasso di tempo, così da evitare meccanismi di accumulazione di potere e di corruzione. All’entrata dei caracoles si legge: «Qui il popolo comanda e il governo ubbidisce».
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La pratica dell’autogestione zapatista coinvolge anche, in misura crescente, le donne, sottoposte da sempre a una triplice oppressione (di genere, di razza in quanto indigene, di classe in quanto povere) e caratterizza molteplici ambiti della vita sociale: la produzione e la distribuzione, l’educazione, la salute, il lavoro, la legislazione, l’ordine pubblico, l’alimentazione, i media, il tempo libero. Solidarietà e reciprocità ammantano le relazioni umane nei territori liberati del Chiapas. Obiettivo di questa «nuova» forma di vita in comune è il buen vivir, una vita degna (lekil kuxlejal nelle lingue tzeltal e tzotzil), cioè la garanzia che sia rispettato il diritto di tutti alla salute, all’alloggio, all’educazione, alla cultura, all’interno di un rapporto di equilibrio con la natura. In questo senso l’impegno degli zapatisti negli ultimi anni è stato rivolto a garantirsi una base economica autonoma attraverso il lavoro comune sulle terre e il maturare del rifiuto nei confronti di elargizioni – tra l’altro in costante diminuzione – da parte dello Stato o di aiuti da parte di organizzazioni non governative.
Accanto a ciò gli zapatisti si sono impegnati nella creazione di scuole, cliniche, laboratori di comunicazione. Non è un «vezzo» quello dell’autogoverno, ma questione di sopravvivenza a fronte di un sistema distruttivo. Non è, va da sé, tutto facile, ma l’autogoverno esiste e dimostra una certa efficienza e la capacità di essere, se adeguatamente organizzato, un’opzione davvero alternativa al potere capitalista. Quest’ultimo nelle riflessioni degli zapatisti è considerato nella sua essenza e prende così il nome di «malgoverno»: un sistema, endemicamente corrotto, che mira a trasformare tutto in merce e che vive di depredazione e guerra. L’autogestione praticata nei municipi autonomi del Chiapas dimostra inoltre di essere «flessibile», cioè in continua costruzione, passibile di modifiche e tentativi di miglioramento in corso d’opera, come è proprio delle sperimentazioni, e consapevole che tale dinamica è necessaria per trovare soluzioni ed evitare la ricomparsa di meccanismi burocratici tipici delle istituzioni governative (ezln, 2015; Bellani, 2016).
Nella regione del Rojava, nel nord della Siria, è in corso una simile sperimentazione di vita comunitaria dal carattere democratico, federalista ed ecologista. Questa regione dal 2011 si è configurata come una confederazione che riunisce tre cantoni abitati da curdi, assiri, turcomanni, siriani, arabi, armeni, ciascuno con un’autonomia amministrativa. Anche qui le assemblee popolari, che rispettano un attento equilibrio etnico e di genere, costituiscono il più alto organo decisionale e accanto a esse ci sono consigli delle donne e dei giovani. In sostanziale analogia con l’ezln (Ejército zapatista de liberación nacional), anche il pkk (Partîya Karkerén Kurdistan) ha riconsiderato criticamente l’impostazione classica dei movimenti di liberazione nazionale (cioè la lotta per la costruzione di uno Stato indipendente), individuando nella forma Stato un potere che rende succube la società e la espropria delle facoltà decisionali:
Non ha senso sostituire le vecchie catene con catene nuove o persino potenziare la repressione. Questo è quello che la fondazione di uno Stato nazione significherebbe nel contesto della modernità capitalista (Öcalan, 2013).
A ciò va opposto l’autogoverno. Esso prende il nome di Confederalismo democratico, una «amministrazione politica non-statuale o democrazia senza Stato» (Öcalan, 2013), che deve molto alle teorizzazioni anarchiche, in particolare a quelle di Murray Bookchin. È un sistema di autonomia democratica che ha il compito di affrontare le problematiche della vita sociale; una rete di gruppi e comitati il cui nucleo di base è la Comune, assemblea territoriale in cui gli abitanti dell’isolato, o gruppo di case, o borgata (con un numero di partecipanti non superiore alle poche decine), discutono i problemi che li riguardano, individuano le soluzioni ed eleggono i delegati che porteranno le decisioni prese dall’assemblea al comitato più ampio (di quartiere, villaggio, città, provincia) deputato a implementarle (Pepino, 2014). Tra i delegati ci sono sempre delle donne, in osservanza al principio della co-rappresentanza, cioè parità dei sessi, che vige in tutti i ruoli. Effettivamente una delle colonne del cambiamento sociale in Rojava, in analogia con quanto avviene nelle comunità zapatiste, è l’inedito ruolo assunto dalle donne, protagoniste di una rapida emancipazione rispetto alla condizione tradizionale di discriminazione in cui vivevano.
Nella premessa alla Carta del Rojava si legge:
Le aree di democrazia autogestita non accettano il concetto di nazionalismo di Stato, militare o religioso, né una gestione centralizzata o le regole provenienti da un’autorità centrale; sono, al contrario, aperte a forme compatibili con le tradizioni di democrazia e di pluralismo e sono disponibili nei confronti di tutti i gruppi sociali e le identità culturali.
Il ripudio della forma statale in favore di una forma di autogestione della società va in parallelo, nel caso curdo come in quello zapatista, con un’inedita critica al ruolo dell’esercito e alla funzione della guerra. La ribellione zapatista del 1994 è stata, certamente, armata; allo stesso tempo l’insurrezione si è liberata fin da subito e quanto più possibile dei caratteri militareschi tipici delle lotte di liberazione nazionale e l’ezln ha reso chiaro che un obiettivo fondamentale del processo di trasformazione è la propria scomparsa come organizzazione militare. Nell’ambito militare, scrive l’ezln, gli ordini si eseguono, in quello dell’autogoverno si discutono per giungere a un accordo (ezln, 2015).
Analogamente il movimento di liberazione curdo ha espresso ripetute critiche sulle dinamiche autoritarie innescate dallo scontro militare e già prima dell’inizio dell’esperimento di Confederalismo democratico, il pkk ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale con il governo turco. Ha deciso così di sottrarsi allo scontro frontale con lo Stato, pur senza rinunciare a una necessaria autodifesa armata, provando a trasformare il militare da ambito autonomo a funzione sociale necessaria a difendere l’autogestione.
Tratto dal libro La pratica dell’autogestione (eleuthera). Il testo mostra come una società cooperativa gestita dal basso sia possibile perché ovunque – dalle scuole libertarie alle reti di produzione e consumo, dai fautori dei beni comuni ai movimenti per la decrescita… – si moltiplicano le forme dell’autogestione.
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