Liberarsi di una Costituzione ancora profondamente impregnata dei valori della dittatura sanguinaria di Pinochet è certamente un passaggio storico per la popolazione cilena. Però il risultato del plebiscito, acquisito con il voto del 51 per cento degli aventi diritto, va letto in filigrana. Sul doppio binario del processo di elaborazione della Costituzione formale, da una parte, e di quella materiale, dall’autunno scorso scritta ed agita nelle piazze e nella carne viva del paese, dall’altra. Pensare di poterlo fare solo all’interno di una assemblea costituente, che attualmente esclude, per fare solo un esempio, la partecipazione dei popoli indigeni, rischia di far perdere di vista la grandezza della sfida
Finalmente il Cile volta pagina. Una maggioranza schiacciante ha votato per l’abolizione della vecchia costituzione e per la convocazione di una Assemblea Costituente. Non sarebbe stato possibile senza la mobilitazione di migliaia e migliaia di cileni, donne e uomini, studenti e lavoratori che nell’ottobre sorso si presero le strade e le piazze di Santiago e delle altre città del paese, per chiedere dignità, schiacciati dal peso insostenibile di una crisi economica e sociale senza precedenti.
Una crisi che quell’1 percento della popolazione che detiene il 26,5% della ricchezza non ha certamente intenzione di pagare, mentre il 50% dei lavoratori guadagna meno di 380mila pesos al mese (circa 500 dollari USA) ed il 94% delle donne lavoratrici va in pensione con metà del salario minimo.
Dopo settimane di manifestazioni, e di violenta repressione da parte dei Carabineros e delle forze di sicurezza, il governo del presidente Sebastián Piñera dovette proporre, assieme ai partiti politici ormai screditati e delegittimati , una soluzione che fino ad allora e per un decennio pareva solo relegata ad essere cavallo di battaglia delle sinistre non-istituzionali: un accordo per la pace sociale ed una nuova costituzione.
La richiesta di una nuova Costituzione era anche stata avanzata dalle Assemblee popolari autoconvocate nel corso della rivolta (“estallido social” una vera e propria esplosione sociale, come si definì) dell’ottobre scorso. I cileni sono stati pertanto chiamati a scegliere su due quesiti: mantenere la costituzione attuale o abrogarla e chiedere l’istituzione di un organo preposto alla redazione di una nuova Carta.
Il risultato mostra con evidenza il desiderio della maggioranza del paese di lasciarsi alle spalle l’eredità del passato e di non affidare tale compito ai partiti politici, screditati ed ormai incapaci di rappresentare ed intercettare, da destra o da sinistra le istanze ed i bisogni della popolazione. Il 78,2 percento dei cileni ha optato per una nuova costituzione ed il 78,9 per una “Convenzione costituzionale” composta da 155 eletti, e non per una mista, che avrebbe visto la partecipazione di 86 parlamentari e 86 membri eletti.
I voti contrati provengono principalmente dai tre territori dove si concentra la maggior parte della ricchezza e che sono tradizionalmente baluardo della destra estrema: Vitacura, Providencia, e La Barnechea.
Per la prima volta al mondo l’organo delegato alla redazione di una Costituzione sarà composto per metà da uomini e metà da donne. La attuale Costituente non prevede ancora la partecipazione dei popoli indigeni ed in particolare dei Mapuche che rappresentano il 12% del paese e nonostante ciò sempre rimasti al margine della vita pubblica, bollati come terroristi o semplicemente ignorati dai governanti di turno.
A riprova della persistenza di una sorta di colonialità del potere dura da scalfire in Cile e nel resto del continente. Una situazione che potrebbe cambiare qualora passasse alla Camera la legge approvata in Senato che aggiungerebbe altri 23 seggi ai 155 della Convenzione Costituente al fine di permettere la partecipazione dei popoli indigeni.
La partecipazione al voto è stata del 51% un risultato importante nonostante i tentativi del governo di criminalizzare la protesta, le campagne sui social media intese a disincentivare la partecipazione popolare, e gli effetti della pandemia.
Si volta pagina allora, o meglio si prova a farlo. Pensare di poterlo fare solo all’interno di una assemblea costituente però rischia di far perdere di vista la grandezza della sfida. Giacché quelle sono pagine sporche di sangue, di dolore, repressione. Pagine marcate dal peso insostenibile dell’ingiustizia e dell’emarginazione, della diseguaglianza e dell’esclusione.
Questa l’eredità lasciata ai cileni da anni di dittatura spietata di Augusto Pinochet che con un colpo di mano mise fine all’esperienza innovativa e straordinaria di Unidad Popular del Presidente Salvador Allende, l’11 settembre del 1973. Poi venne l’esilio, la tortura, il pugno di ferro.
Un sistema ferreo di controllo e di governo della politica, subordinato agli imperativi del modello neoliberista. Questa fu la Costituzione scritta a tavolino negli anni della dittatura, ed ispirata si dice dall’ideologo e fondatore del partito Union Democrata Independiente, Jaime Guzman.
Varata non a caso l’11 settembre del 1980 era intesa come una sorta di “camicia di forza” che avrebbe imbrigliato qualsiasi possibilità di cambiamento istituzionale, consolidato il potere dei militari (che grazie a quella costituzione vedevano riconosciuto tra l’altro il diritto ad una importante fetta delle rendite derivanti dall’estrazione di rame), e blindato l’impianto liberista.
Nessuna possibilità era prevista per apportare modifiche in settori importanti quali le forze armate, le concessioni minerarie, l’educazione o la Banca Centrale. Il Cile divenne così il laboratorio delle teorie dei Chicago Boys e di Milton Friedman, un intreccio tragico tra necropolitica di stato e di mercato la cui continuità era appunto garantita dalla costituzione vigente anche dopo la caduta di Pinochet.
Anche il progetto di riforma costituente elaborato dalla presidente socialista Michelle Bachelet nel corso della sua presidenza venne prontamente archiviato dal suo successore, certamente restìo a aprire la strada per una trasformazione radicale del paese e ad aggredire gli interessi ed i privilegi delle élite che lo hanno portato al potere.
Solo la forza dirompente della rivolta ha reso possibile un risultato come quello di oggi. Questo elemento va tenuto in debita considerazione per provare a comprendere cosa accadrà ora.
Anzitutto, chi potrà accedere alla Convenzione costituente? Le votazioni sono previste per l’11 aprile del prossimo anno e i settori più oltranzisti delle destre già si stanno organizzando per evitare che i loro avversari possano ottenere la maggioranza dei 2/3 dei seggi necessaria per l’approvazione degli articoli.
Sussiste così il rischio che i partiti politici, grazie alle maggiori risorse a disposizione possano influenzare e determinare la composizione della Convenzione, di fatto vanificando la spinta delle piazze.
Per questo le assemblee autoconvocate che nei mesi della pandemia si erano convertite anche in spazi di mutualismo e soccorso popolare, si stanno organizzando in assemblee popolari costituenti per portare i loro candidati alla Convenzione.
Più in generale, al di là dell’importante risultato conseguito dai movimenti femministi nell’ottenere che la metà dei seggi della Convenzione costituente sia rappresentata da donne, come affrontare e sradicare patriarcato e femminicidio?
E come uscire dalla trappola di un sistema economico e produttivo ancora fortemente ancorato all’estrattivismo in uno scenario che prevede un aumento della domanda di rame a livello mondiale minerale di cui i Cile è tra i principali produttori ed esportatori?
E poi, che deciderà di fare Piñera del suo governo? Saranno i suoi ministri legittimati a governare da oggi a quando nel 2022 si arriverà alla stesura finale della nuova Costituzione?
Saranno mesi lunghi, (almeno nove per stilare la Costituzione con possibile proroga di altri tre) per un paese che soffre come non mai il peso della crisi economica e chiede misure immediate per restituire un livello di vita decente alla maggior parte della sua popolazione.
Piñera decise di non schierare il suo partito Renovacion nacional nella campagna referendaria e dopo il referendum ha mandato segnali ambigui ed ambivalenti da una parte riconoscendone il risultato e dall’altra impegnandosi per la continuità.
Il suo governo si è spaccato in due nel corso della campagna referendaria, da una parte chi voleva abolire la vecchia costituzione chi voleva semplicemente emendarla, con il ministro degli esteri Andres Allamand schierato frontalmente contro la nuova costituzione.
Il popolo chiede di voltare pagina ma chiede anche dignità, e chiede giustizia per le 2820 vittime della brutale repressione di ottobre. Non ci si facciano illusioni: la rivolta popolare continuerà fin quando non verrà restituita dignità e lo stato non finirà di violare i diritti umani, e si porrà fine all’impunità.
Si calcola infatti che delle 8500 denunce contro le forze di sicurezza per i fatti di ottobre 2019 solo l’1 percento delle accuse è stato formalizzato. Alla luce di queste considerazioni, il risultato del plebiscito va letto in filigrana. Sul doppio binario del processo di elaborazione della costituzione formale da una parte e di quella materiale, scritta ed agita nelle piazze e nella carne viva del paese dall’altra.
Va letta nel quadro di quella che la sociologa argentina Maristella Svampa nell’ottobre del 2019 definì un diffuso spostamento di placche tettoniche all’indomani delle rivolte quasi contemporanee in Ecuador, Bolivia e Cile. Rivolte nelle quali chi scendeva in piazza si trovava in un vero corpo a corpo con il lato più violento e brutale del potere. E che oggi non intende assistere inerte.
Un comunicato del Comitato delle Assemblee Popolari diffuso a suo tempo ne è la dimostrazione evidente: “difendere la democrazia diretta, senza gerarchie,(…) destituire la classe politica, il potere, e le militanze tradizionali, e (difendere) l’idea di vivere in comunità e tessere vincoli di fiducia nei territori. Questo è il nucleo della ribellione e il patrimonio politico-culturale più importante per le prossime generazioni di ribelli”.
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