Uno dei geografi più influenti del mondo, David Harvey, ragiona di cambiamento sociale e movimenti, come Occupy e gli indignados. E lo fa, in un bar di Buenos Aires (foto) – dove è stato invitato da un movimento che si ostina a non scomparire, le Madri di Plaza de Mayo -, partendo dal territorio urbano, spazio privilegiato per la ribellione.
David Harvey è stato classificato nel 2007 come uno dei venti più citati autori di libri in campo umanistico dalla società di informazioni commerciali Thomson Reuters, ma potrebbe essere più orgoglioso di avere introdotto nel mondo accademico e in quello degli attivisti il suo concetto di «accumulazione mediante spoliazione». L’accumulazione mediante spoliazione è uno strumento concettuale per capire la messa in atto delle politiche neoliberali contemporanee. Anche se il Library Journal, pubblicato a livello internazionale, lo ha definito «uno dei geografi più influenti della fine del ventesimo secolo», seduto al bar El Revolucionario, di fronte alla Piazza del Congresso argentino, sembra uno dei molti bohemien di Buenos Aires. E’ professore distinto di Antropologia e Geografia al Centro di Laurea dell’Università della Città di New York ed è stato invitato in Argentina per partecipare all’Incontro internazionale sull’economia politica organizzato dalle Madri di Plaza de Mayo. Nel suo ultimo libro ‘Il capitalismo contro il diritto alla città: Neoliberalismo, urbanizzazione, resistenze’, l’autore di ‘La crisi della modernità’, ‘The New Imperialism’ [Il neoimperialismo] e Paris, Capital of Modernity [Parigi, capitale della modernità] propone di riconsiderare la città come un campo di tensioni in cui sviluppare alternative a un capitalismo autodistruttivo.
Lucas Palero: In «Il capitalismo contro il diritto alla città’ affermi che “il partito di Wall Street ha un principio universale di dominio: che non ci siano seri contrasti al potere assoluto del denaro di dominare assolutamente». Le elezioni sono in arrivo [evidentemente l’intervista ha avuto luogo prima delle elezioni Usa]. Qual è l’interazione tra questo Partito di Wall Street e i partiti tradizionali, Repubblicano e Democratico?
Il Partito di Wall Street possiede una grossa fetta di entrambi i partiti politici. Normalmente distribuisce il proprio denaro tra i due partiti in modo da mantenere un controllo politico totale, indipendentemente da quale sia il partito che sale al potere. Questa volta [il Partito di Wall Street] è nervoso per la prospettiva che Obama possa restare al potere, così appoggia i Repubblicani più del solito. Ma io penso che sia per un motivo molto specifico: sa di essersi comportato male stavolta e che propri membri legalmente potrebbero essere mandati in galera. E anche se Obama non lo farà, se dovesse montare un movimento sociale, come Occupy Wall Street, che lo spingesse a farlo, sarebbe più facile che lo facesse lui piuttosto che Romney. Questo spiega anche perché c’è stata una reazione politica così feroce a Occupy Wall Street, che è un movimento molto piccolo e per molti versi innocente.
Come può il movimento Occupy realizzare le tue idee contenute in Città Ribelli [Titolo originale di ‘Il capitalismo contro il diritto alla città’ – n.d.t.]?
Può contribuire, ma una delle debolezze del movimento Occupy è stata che soltanto in determinate circostanze ha creato buoni collegamenti con le organizzazioni esistenti, le organizzazioni dei senzatetto, i vari movimenti sociali cittadini. In un certo modo, unendosi a questi movimenti, Occupy ora ne è diventato parte, piuttosto che essere un tipo diverso di movimento. Penso siano in corso molte più cose nelle città statunitensi, e nelle città in generale, di quante se ne sia interessato Occupy. E per esempio, diciamo, l’Alleanza per il Diritto alla Città, di Los Angeles, è molto vigorosa e ha collegamenti con gruppi quali il Sindacato degli Autisti d’Autobus, ha associazioni con gruppi di lavoratori, come quelli domestici, e cosi via … sta cominciando a emergere in molte città una configurazione di movimenti sociali che forse potrebbe cominciare a esercitare un potere sulle intere città, ma è in una fase molto iniziale al riguardo.
Ma come possono questi movimenti avere tanta influenza da cambiare la dinamica generale di una città? Se si guarda a Buenos Aires, ad esempio, nella stessa città in cui hanno operato le assemblee popolari la maggior parte della gente ha poi eletto un sindaco di destra. A Madrid, del movimento degli indignados, il Partido Popular ha vinto le elezioni …
Beh, si deve prendere atto che molti degli indignados e molti dei membri dei movimenti sociali nei quartieri sono per lo più ispirati da una visione anarchica e non votano. Non partecipano al processo elettorale. Quello che penso si sia visto in Grecia è che la minaccia del fascismo è diventata così forte che un mucchio di persone dei movimenti di quartiere che normalmente non votano, sono andate a votare ed è questo il motivo per cui abbiamo visto il voto alla Syriza passare dal 4% al 27%. Parte del problema è la misura in cui i movimenti sociali ritengono che la politica elettorale abbia qualche significato. Un buon numero di essi, penso che sia così anche qui a Buenos Aires, sono gruppi di ispirazione anarchica o autonomista, e quasi certamente non parteciperebbero alle elezioni, il che significa che la vittoria elettorale della destra non rappresenta un mandato popolare perché buona parte della popolazione non vota. Se votasse, allora la destra sarebbe sconfitta. Ma allora al potere ci sarebbero i socialdemocratici e naturalmente i movimenti sociali hanno un’esperienza molto amara di quel che accade quando vanno al potere i socialdemocratici. Non cambia nulla. Così il problema è questo.
Questa risposta vale anche per la tua tradizione, più vicina al marxismo?
Sì, io lavoro naturalmente con l’economia politica marxista ma, da geografo, ho molta simpatia per la tradizione anarchica. Kropotkin era un geografo. Molti dei geografi radicali del diciannovesimo secolo erano anarchici e penso per un buon motivo, cioè che prendevano le idee di localismo, le idee di cultura e le idee di ambiente molto più seriamente dei marxisti tradizionali. Io ho cercato di influenzare il marxismo tradizionale e prendere questi temi più sul serio, ma continuo ad apprezzare molto di ciò di cui si occupano gli anarchici. Discuto con loro, beh, del fatto che se si permette che lo stato sia completamente controllato dalle forze della reazione, allora, sai, se ne subiranno le conseguenze. Ho delle discussioni con loro, ma non sono per nulla totalmente critico dell’anarchismo.
Tu colleghi la lotta di Occupy Wall Street con le lotte di piazza Tahrir, Puerta del Sol, Piazza Syntagma e della Cattedrale di San Paolo [a Londra – n.d.t.] come un movimento internazionale che contesta il potere del denaro. Come può questo movimento costruire un’organizzazione internazionale senza cadere negli stessi errori che l’anarchismo e il cosiddetto “comunismo reale” hanno commesso in passato?
Se avessi una risposta semplice a questo, naturalmente non me ne starei qui seduto a parlare con te. Voglio dire, avremmo una rivoluzione e tutto sarebbe in movimento. C’è sempre un rischio nell’adottare certe forme di organizzazione. Ho parlato, nel libro ‘Città ribelli’, di quello che chiamo feticismo della forma organizzativa: molti gruppi hanno definizioni restrittive di quale dovrebbe essere una forma ottimale di organizzazione, indipendentemente dalla natura del problema che stanno affrontando. Se si pensa di poter organizzare il mondo intero su un modello assembleare, beh è una follia. Perciò si deve pensare a gerarchie di qualche genere, o di strutture «nidificate» di decisione. Si deve pensare a forme di organizzazione di scale diverse. Alcuni a sinistra si auto-indebolisce restando soltanto a livello locale e non cercando affatto di muoversi, e la sinistra comunista internazionale si crea dei problemi nel modo contrario, immaginando che funzionerebbe una strategia calata dall’alto.
Sembra, in un modo o nell’altro, che dobbiamo costruire forme di organizzazione che abbiano un rapporto fluido tra specifiche basi popolari con desideri, bisogni e aspirazioni culturali diverse. Ma c’è una relazione tra tutto ciò e forme intermedie di organizzazione e, alla fine, un insieme globale di strategie. Uno dei motivi per cui affronto la questione di come organizzare l’intera città è che, a me pare, non è così enorme e inafferrabile come «Il Mondo». Non è nemmeno così enorme e inafferrabile come, diciamo, gli interi Stati uniti, ma è organizzare qualcosa che ha un tipo territoriale di area che è possibile immaginare: una forza politica che domina la vita urbana e nel nome dei cittadini piuttosto che nel nome del capitale. Perciò la ragione per cui penso che il territorio urbano sia un obiettivo e uno spazio di lotta molto significativo è che non è totalmente locale e anche che i collegamenti e i rapporti tra città hanno una lunga storia di importanza e significatività. E così io penso che la sinistra dovrebbe pensare a organizzare a quel livello, ma ciò non è stato realmente tentato molto.
Come una rete di città ribelli?
Una rete di città ribelli, sì.
L’autore dell’intervista a David Harvey (altri articoli di Harvey sono qui) è Lucas Palero: il pezzo è stato scelto e tradotto da Giuseppe Volpe per essere pubblicato il 9 novembre 2012 da znetitaly.org: la fonte originaria è Toward Freedom.
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