Una volta di più, anche nel nuovissimo mondo digitale, il tema della proprietà individua un «campo di battaglia», come ebbe a definirlo nel 1847 Alexis de Tocqueville. Quella battaglia continua senza sostemuta ed è stata affidata a parole rivelatrici, che dovrebbero liberare la rete dalle stimmate obbliganti della proprietà — software libero, no copyright, economia del dono, accesso libero alla conoscenza come bene comune. L’opposto della proprietà, dunque. Ma dietro quelle parole vi è la consapevolezza che la proprietà è ancora lì, non si è dissolta, come frettolosamente s’era detto parlando dell’avvento di una «età dell’accesso», nella quale il godimento di un bene non avrebbe più avuto bisogno di passare attraverso la sua proprietà. Solo che l’accesso funziona bene in alcuni casi, anche importanti, ma in altri non cancella affatto la rilevanza della proprietà, il «terribile diritto», che è sempre lì, pronto a far valere le sue prerogative.
Di questo si è accorta in questi giorni l’opinione pubblica grazie ad una notizia, poi smentita, secondo la quale l’attore Bruce Willis era intenzionato a portare in giudizio Apple, per il disappunto determinato dall’apprendere di non poter lasciare in eredità alle figlie la sua collezione di brani musicali costruita tramite iTunes, l’applicazione di Apple che consente di acquistare e organizzare file multimediali. La ragione? Bruce Willis, e con lui milioni di altre persone, non sono diventati proprietari di quei brani, né degli e-book o dei film di cui si sono provvisti, ma hanno più semplicemente acquistato il diritto di accedere ad essi e di utilizzarli per tutta la loro vita, rispettando però le condizioni indicate nella licenza che mette a loro disposizione quei contenuti digitali. Queste dettagliatissime e imperiose condizioni escludono appunto una serie di poteri, primo tra tutti quello di trasmettere ad altri il materiale raccolto. Si consuma così un divorzio tra disponibilità di un bene e la sua proprietà, che rimane nelle mani di altri. (…)
Bruce Willis, come me e infiniti altri, viene dal mondo dei libri, dei dischi di vinile, delle cassette, e poi dei Cd e Dvd, che includevano nella loro fisicità, in questa loro «natura», l’attitudine a poter circolare, ad essere regalati, prestati, venduti. Non è così per musica, film, libri ai quali accediamo attraverso la rete, che non ci vengono consegnati fisicamente. Disponiamo di un account che ci identifica e che, associati ad altri segni identificativi, ci dà il diritto di ascoltare quando vogliamo la musica che ci piace. Ma qui si arresta il mio diritto. (…) Si obietta che questi vincoli sono giustificati dalla necessità di proteggere il diritto d’autore, dal fatto che io acquisto piuttosto un servizio, dal prezzo assai più basso di quello che avrei pagato comprando un cd o un dvd o un libro. Queste considerazioni, tuttavia, sono ingannevoli, perché prospettano una alternativa che progressivamente svanisce. Non si dice forse che il poter ricorrere all’ebook ci libera dai costi legati alla necessità di avere ambienti destinati ai libri, all’acquisto di librerie? Ma, soprattutto, è l’intera società che si costituisce progressivamente intorno all’immateriale. Si annuncia la scomparsa dei giornali, del libro di carta. Le alternative scompaiono.
Non è una forzatura polemica l’invito a riflettere su una organizzazione sociale in cui la conoscenza si struttura attraverso una distribuzione di poteri che vede, da una parte, una sterminata platea di «fruitori» che rimane in una situazione precaria rispetto agli strumenti di cui si serve; e, dall’altra, soggetti che mantengono la proprietà della conoscenza e si riservano, com’è scritto nelle licenze, un potere sostanzialmente arbitrario di mutare a loro piacimento le condizioni di utilizzazione. (…). Ma un mondo tutto nuovo non può rimanere prigioniero di regole e categorie nate in un mondo diverso. È indispensabile ripensare, come già si sta facendo, un diritto d’autore che negli ultimi tempi è stato esteso addirittura ad aree alle quali era stato estraneo. La conoscenza si configura sempre più chiaramente e largamente come un «bene pubblico globale», che non può essere chiuso in angusti recinti proprietari.
Stralci di un articolo pubblicato da la repubblica il 30 settembre 2012.
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