Se vogliamo lo sguardo verso altri tempi e altre culture, ci avvediamo senza particolare fatica di quanto intenso sia sempre stato il richiamo alla solidarietà, quale che fosse la parola adoperata per designarla. Per lungo tempio di essa si è parlato come appartenente all’ordine naturale delle cose, come di un dovere (…). Ma questa idea morale si sarebbe sempre più mostrata incapace di reggere da sola il peso delle diseguaglianze, sì che poi si è scelta la strada che affidava all’artificialità del diritto, piuttosto che alla natura, i principi di libertà, eguaglianza, fraternità. Di questa triade rivoluzionaria proprio la fraternità si rivelò precocemente la componente più debole, tanto che Napoleone, nel suo proclama del 18 brumaio, si sarebbe presentato ai francesi come il difensore di «libertà, eguaglianza, proprietà». La fraternità scompare, sopraffatta dal primato della proprietà, diritto a escludere gli altri dal godimento di un bene, dunque destinato a spezzare quel legame tra gli uomini che attraverso la fraternità si era voluto stabilire. (…) Una studiosa di storia, Mona Ozouf lo ha spiegato osservando che «tra la liberté e l’égalité da una parte e la fraternità dall’altra» non vi è «uno statuto equivalente. Le prime due sono dei diritti, la terza é un obbligo morale» (…).Questa sbrigativa conclusione è stata poi ridimensionata dalla stessa Ozouf che, tornando sul tema, ha inteso «la fraternità meno come una comunione mistica e religiosa e piuttosto come quella esigenza di solidarietà senza la quale non hanno senso né la libertà, nè l’eguagianza». La prospettiva è completamente capovolta. Non solo la fraternità/solidarietà non ha uno statuto più debole, ma si pone addirittura come precondizione perché si possa attribuire significato a libertà e eguaglianza.
Lo slittamento semantico è rivelatore. Per recuperarne la forza, la fraternità è descritta come «solidarietà». Due parole diverse si congiungono e, usate in molte occasioni come se fossero intercambiabili, accrescono l’ambiguità già rimproverata alla categoria della fraternità. Innescano anche un rifiuto culturale, soprattutto quando si teme che la solidarietà altro non sia che un travestimento di carità, beneficienza, compassione, tutte parole che non appartengono al lessico della dignità e dei diritti, ma rinviano piuttosto alla benevolenza altrui, sottolineando la minorità di chi si trova a esserne oggetto. (…)
Nella Costituzione italiana troviamo un altro tragitto, di cui si è voluta cogliere l’origine nella ricostruzione operata dal pensiero cattolico, e che è approdato alla formula che chiude l’articolo 2, dov’è scritto, subito dopo il riconoscimento dei diritti fondamentali che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ma questa attribuzione al solo pensiero cattolico della solidarietà contrasta con la sua storia politica e culturale che, per gran parte dell’Ottocento, l’identifica piuttosto con l’internazionalismo operaio e con gli sforzi di ridimensionare la portata dell’individualismo liberale. (…) La solidarietà diventa così emblema e componente di una lotta politica, assume pure un significato conflittuale, e si allontana definitivamente da una appartenenza all’ordine naturale. Da qui prenderà le mosse una idea di solidarietà che, trovando significative consonanze con la riflessione cristiana, sarà alla base della costruzione dello Stato sociale. Da “obbligo della ricchezza” la solidarietà si fa dovere civico.
Nella Costituzione italiana questo segno è forte, congiunge diritti e doveri, individua il criterio in base al quale la persona si muove nella vita sociale. Non a caso la Corte costituzionale ha parlato della solidarietà come di uno dei «valori fondanti dell’ordinamento giuridico», di cui dunque deve tenersi conto nel definire la portata anche degli strumenti dell’agire privato come la stessa proprietà, il contratto, la responsabilità civile. (…)
La solidarietà, comunque, riemerge sempre nel manifestarsi di una crisi. Non solo economica, ma anche politica, come ricorda la vicenda italiana della «solidarietà nazionale». Dobbiamo concludere che essa è virtù dei tempi difficili e non un «sentimento repubblicano» che deve accompagnarci in ogni momento? Vi sono rischi nell’intendere la solidarietà come un rimedio, e non come un principio. Il primo è quello di chiudersi in comunità autoreferenziali, mentre il passaggio dalla fraternità alla solidarietà significava mettere la società al posto della comunità. Un altro riguarda l’abbandono della solidarietà «generale», quella che lega le persone, permettendo ad esempio la garanzia pubblica della salute, e quella che lega le generazioni, che rende possibili i sistemi pensionistici. Infine, si rafforza la solidarietà «verticale» che produce piuttosto elargizioni, e non quella «orizzontale», che intreccia agire pubblico e privato e mobilita la società.
Nel gran cantiere della solidarietà oggi l’attenzione non si concentra sullo Stato «protettore», ma mette l’accento sui diritti sociali, come precondizione della stessa democrazia; si sposta, anzi, fuori del perimetro dello Stato, e dello Stato nazionale, per operare una redistribuzione sociale del potere e per rendere possibili forme di controllo dei poteri economici globali che evocano un nuovo internazionalismo; indica forme di gestione di beni della vita sottratti alle logiche proprietarie. Una solidarietà, allora, non costruita tutta all’esterno delle persone, ma che recupera forza e legittimità intorno all’ipotesi dell’uomo solidale, non per natura, ma come effetto dell’azione politica e della riflessione culturale.
Ampi stralci di un articolo pubblicato da la repubblica il 25 settembre 2012.
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