Il 12 aprile saranno individuate da governo, Regione, Provincia e Comune di Roma le nuove discariche del Lazio. Intanto prosegue la protesta dei movimenti, anche se le indicazioni del ministro Clini sembrerebbero seguire la direzione, non certo gli obiettivi, proposti da tempo dalla Rete Zero Waste Lazio. La rete chiede infatti un piano rifiuti zero e non un piano integrato con un pò di differenziata e un pò di inceneritori e discariche. Insomma, Roma e il Lazio oggi sono davvero a un bivio.
Qui di seguito un’analisi dettagliata sulla situazione e le proposte dei comitati antidiscarica.
Credo che mai come oggi il tema della gestione dei rifiuti possa essere anche un problema di democrazia, sia rispetto alle manifestazioni di interesse pubblico sulle politiche industriali che incidono pesantemente sull’inquinamento dell’ambiente e sul diritto alla salute sia rispetto alla richiesta di controllo pubblico sulle modalità di gestione e sui costi relativi sia al ciclo di trattamento che al ciclo ambientale post-consumo.
L’attualità di questo aspetto deriva ovviamente non solo dalla situazione preemergenziale del Lazio, situazione creata ad arte da una fallimentare gestione commissariale decennale (un dato di fatto comune alle giunte anche di segno opposto succedutesi) ma soprattutto in vista del prossimo esito referendario sulla abrogazione delle norme di privatizzazione già approvate in materia di servizi pubblici essenziali.
La possibile abrogazione dell’articolo 23 bis del decreto legislativo 133 può comportare infatti un terremoto politico-culturale in particolare nel ciclo dei rifiuti, un settore in cui il servizio pubblico locale è sempre stato a Roma connotato dal prevalente e costante affidamento alla filiera Ama- Cerroni: produzione massiccia di “mondezza” a fronte di basso costo di discarica e insieme elevato livello di copertura politica sulle scelte industriali del settore. Per quanto riguarda il ciclo di trattamento dei rifiuti si è infatti consolidata nel Lazio una catena monopolistica di fatto che ha visto intrecciarsi la quasi totale proprietà privata degli impianti di smaltimento con la costituzione di società e consorzi tra questi stessi soggetti e le aziende municipali di raccolta come Ama Roma una Spa al 100% Comune di Roma.
L’intreccio pubblico/privato ha generato ovviamente il soccombere dell’interesse pubblico a percorrere nuove strade in materia di ciclo di trattamento sia per il progressivo indebitamento dei Comuni nei confronti di questi stessi gestori che per la mancata volontà politica di rompere il patto con Cerroni e avviare una gestione trasparente dei rifiuti basata sul famoso rapporto costo/benefici.
Intreccio che ha visto anche la progressiva costituzione di società esternalizzate in cui i servizi remunerativi sono stati trasferiti a CdA autonomi dal controllo pubblico, espropriando di fatto il consiglio comunale dalla possibilità di esercitare il potere di indirizzo e lasciando l’Azienda madre nella condizione di gestire i servizi “ad alto costo” accumulando un indebitamento progressivo che ha visto la solita politica di privatizzazione dei profitti insieme alla socializzazione dei costi.
Le aziende pubbliche che operano nel settore inoltre sono state preda del clientelismo e del saccheggio delle risorse economiche, come il Consorzio Gaia di Colleferro, o nel migliore dei casi utilizzate come bacino di impiego “politico”, come l’Ama Roma, con il risultato in entrambi i casi di trasformarle in “carrozzoni” costosissimi quanto inefficienti.
Il risultato finale del deliberato affidamento alla filiera Ama-Cerroni di cassonetto/discarica ha prodotto un mostro ambientale come la discarica di Malagrotta, un “quartiere” di Roma con 240 ettari di colline di rifiuti ammassate in 40 anni, che non si riuscirà a chiudere se non passando dall’invertire l’attuale tendenza a seppellire e incenerire con quella di recuperare e riciclare a monte cioè nelle case e nei luoghi di produzione stessa.
Oggi i cittadini di Roma e del Lazio pagano una cifra altissima se si tiene conto non solo della tassa/tariffa di raccolta e smaltimento in discarica ma anche dal prossimo raddoppiamento del costo per gli impianti previsti per la messa in esercizio di impianti di produzione di CdR (Combustibile derivato da Rifiuti) e impianti di gassificazione/incenerimento, del mancato recupero di incentivi per i materiali prezioni non riciclati, dei costi stratosferici che comporterà la bonifica ambientale e la chiusura di Malagrotta e simili, dei costi ambientali derivati dalla contaminazione di falde idriche e terreni circostanti ed in ultimo dei costi sanitari per patologie indotte da queste contaminazioni stesse.
Una scelta perseguita scientificamente da Alemanno/Panzironi come nel caso di Ama Roma in cui, nonostante gli ottimi risultati del progetto pilota di raccolta porta a porta in tre quartieri romani, non solo non si estende tale pratica in tutti i Municipi ma si acquistano centinaia di autocompattatori e migliaia di cassonetti stradali per contrastarla di fatto. A fronte inoltre di una raccolta differenziata con cassonetti stradali per carta e multimateriale per plastica-vetro-metallo pari a circa 340.000 ton/anno (visto che i cittadini si ostinano ancora a differenziare….) sono stati predisposti a Roma due soli impianti di separazione multimateriale (Rocca Cengia e Pomezia) per un totale di circa 60.000 tonnelate l’anno mentre il resto non si sa bene che fine fa….
Un sistema di raccolta primitivo ma funzionale alla volontà di tenere basso il tasso di differenziazione, con svuotamenti poco efficienti e contenitori spesso insufficienti, e di avere un alto tasso di rifiuto indifferenziato da poter conferire in discarica o prossimamente da selezionare per produrre CdR (combustibile da rifiuti) da incenerire sporco e spesso contaminato come si è accertato negli impianti di Colleferro. L’anonimato garantito dal sistema dei cassonetti stradali favorisce inoltre il fenomeno dell’abbandono di rifiuti speciali non pericolosi (come gli inerti o gli imballaggi/scarti di lavorazione di negozi e aziende), di rifiuti speciali pericolosi (come l’amianto contenuto nell’eternit, farmaci scaduti, vernici tossiche) e di rifiuti ingombranti “appoggiati” a ridosso: in pratica una piccola discarica a cielo aperto.
Il cassonetto del resto è ormai assodato che consegue un risultato che non supera infatti mai il 20% di R.D. e costituisce l’anello di partenza di un ciclo di trattamento e che è dimostrato essere comunque più costoso, se teniamo conto dell’intera filiera “indifferenziata” rispetto a quella “differenziata”, e consegna la delega totale al Comune/azienda alla gestione dei dati e delle scelte operative scaricandone poi i costi delle stesse sui cittadini.
Una gestione quindi autocratica oltre che illegale, dal momento che spesso le amministrazioni pubbliche non rispettano la normativa vigente in merito alla gerarchia di trattamento ed agli obiettivi di R.D. previsti, in cui i cittadini non sono informati della attuale gestione fallimentare né delle alternative industriali esistenti e dei costi evitati né tanto meno delle opportunità occupazionali legate ad un ciclo di trattamento diverso.
Una gestione in cui prevale la difesa degli interessi di pochissimi imprenditori senza scrupoli e il perpetuarsi di una disastrosa catena di impianti oggi al collasso, in cui il trattamento dei rifiuti urbani può essere inquinato da rifiuti speciali pericolosi in mano spesso alle organizzazioni criminali come il caso Campania insegna.
A tale proposito il deposito della nostra proposta di legge regionale di iniziativa popolare, che ha passato il vaglio degli uffici regionali, prevede alcune norme drastiche tra cui la separazione netta tra le aziende che si occupano di raccolta e recupero da quelle che si occupano di smaltimento, al fine di rompere questo monopolio di fatto nel Lazio e avviare una sana competizione basata sul principio dell’economicità e dell’efficienza del servizio stesso.
La gestione “democratica” dei rifiuti rappresenta quindi l’opposta capacità di avviare un nuovo ciclo di gestione basato sulla partecipazione attiva dei cittadini già nella fase di produzione e di separazione dei rifiuti domestici, in cui l’attività sia premiata in rapporto alla capacità di selezionare e soprattutto di ridurre la produzione di rifiuti, seguita poi da quella successiva di recupero e riciclo sia dei materiali secchi che di quelli organici per la produzione di materiali riciclati e di compost organico.
La raccolta porta a porta rappresenta infatti ancora oggi la migliore tecnologia esistente per ridurre il conferimento in discarica ed i relativi costi sia di trasporto che di costo impianto, essendo una metodica e quotidiana azione di recupero a monte, sviluppando la responsabilizzazione diretta e la consapevolezza che tutto quanto di recupera e ricicla non solo non costa ma produce un ritorno economico nella riduzione della tassa/tariffa dovuto agli incentiv e ai contributi di legge che il Conai riconosce e ritorna ai Comuni stessi.
La raccolta porta a porta si qualifica inoltre come il sistema con la massima trasparenza possibile, sia in conseguenza della certezza dell’origine dei rifiuti conferiti e quindi dell’identità del produttore (essendo questi ritirati a domicilio o presso centri di raccolta) oltre che della stessa quantità immessa nel circuito pubblico, essendo stata applicata in vari Comuni italiani la tariffa puntuale che prevede la fornitura di sacchetti e contenitori forniti di transponder personale e la registrazione del peso contenuto nel contenitore.
La gestione “democratica” dei rifiuti rappresenta anche lo sviluppo di una filiera tra la raccolta porta a porta, le piattaforme di riciclo Conai, gli impianti di compostaggio per l’organico che prevede una risorsa occupazionale che è stata misurata in ventitre volte maggiore a quella oggi impiegata con il sistema attuale, che consente l’utilizzo delle scarse risorse comunali per produrre reddito da lavoro e non rendita privata per pochi.
Ma quello che maggiormente preoccupa è l’ignoranza e l’insipienza della classe politica e insieme la subordinazione di quella imprenditoriale rispetto alle potenzialità offerte dallo sviluppo dell’industria del riciclo. L’Italia in quanto nazione importatrice della quasi totalità delle materie prime non ha bisogno di grandi valutazioni per capire che la spesa di ingenti risorse economiche destinate oggi al ciclo dei rifiuti possa essere vantaggiosamente convertita in ricavo se gli stessi rifiuti diventano invece materia prima recuperata per l’industria.
Tenendo conto che una valutazione economica del rapporto prezzo tra materie prime vergini e materie prime riciclate è attualmente stimata in 12:1 si capisce bene che questo margine economico può effettivamente rappresentare il vero motore economico di un’ altra economia reale basata su impianti e tecnologie di selezione/recupero/produzione per esempio di “plasmix” un granulato a base di una miscela di plastiche riciclate usata per lo stampaggio di componentistica e oggettistica, le stesse plastiche per cui oggi paghiamo per sotterrarle o incenerirle oltre il costo di importazione e di lavorazione del petrolio da cui hanno origine.
Sono oggi in fase di apertura nuovi stabilimenti con linee di produzione di semilavorati e componentistica e che rappresentano l’anello mancante per la chiusura del ciclo della materia prima secondaria che rappresenta l’attività più interessante della catena. Infatti alla produzione industriale del riciclo si affiancherà con ogni evidenza la attuale fase mancante della riprogettazione di beni di consumo con possibilità di smontaggio e di recupero totale, anche per l’interesse specifico di questa nuova attività industriale di unire ai bassi costi di produzione anche gli elevati tassi di riciclabilità del bene stesso.
Lo sviluppo di una reale filiera industriale può oggi partire dalle piattaforme di raccolta Conai e dai primi impianti di selezione e riciclo che sono il terminale di consegna della raccolta porta a porta effettuata nei Comuni e che si vedono riconosciuta una entrata extratributaria con un contributo economico di circa 70 euro per tonnellata per l’operazione di raccolta/trasporto dei rifiuti differenziati.
La creazione di una rete adeguata di piattaforme e di impianti di selezione e riciclo è quindi il primo passo per valorizzare veramente questi materiali e l’azione positiva dei cittadini e dei Comuni virtuosi nella raccolta differenziata: immaginiamo che i circa trenta milioni di tonnelate di rifiuti urbani prodotte ogni anno in Italia possono generare solo per questi impianti una occupazione pari a oltre ventimila posti di lavoro, oltre quella generata dal passaggio dalla raccolta stradale a quella domiciliare. Infatti il rapporto indicativo dell’incremento di occupazione totale in caso di avvio generalizzato della filiera differenziata è stata valutato intorno al valore di 1:20: quindi tenendo conto che la rilevazione degli addetti totali del settore al 2004 è pari a circa sessantamila occupati (fonte Greenbook/Federambiente 2011) si presume che a regime possono essere realizzati oltre un milione di posti di lavoro.
Questa nuova strategia “democratica” dei rifiuti inoltre permetterà un risparmio sui costi impiantistici enorme valutato in un rapporto 1:100, passando da megaimpianti come discariche e inceneritori a impianti medio-piccoli di selezione e di riciclo e ad impianti di compostaggio.
Infatti mentre nel primo caso i costi sono sempre scaricati sulla fiscalità generale (Cip6 o certificati verdi) o su quella comunale (tassa o tariffa rifiuti) e quindi sui cittadini, nel secondo caso questi impianti producono ricavi e quindi sono spesso realizzati da imprenditori privati che traggono reddito da queste attività di recupero realizzando un immediato beneficio sul bilancio pubblico ma soprattutto sulla pressione fiscale dei cittadini, oltre al beneficio ambientale e sanitario di cui si può facilmente immaginare la portata storica.
Guarda il video della Rete Zero Waste Lazio, breve cronistoria dell'”emergenza rifiuti” nel Lazio.
Massimo Piras, associazione Nbf (Non bruciamoci il futuro)
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