Uno più uno non fa due (editpress) è il rapporto sul Community Matching, il progetto che mette in relazione persone rifugiate e volontarie in diverse città italiane incoraggiando la conoscenza, l’aiuto reciproco, lo scambio di esperienze anche di semplice quotidianità, insomma creando relazioni. Coordinato da Chiara Marchetti – docente di Sociologia delle relazioni interculturali presso a Milano responsabile dell’area progettazione ricerca e comunicazione di Ciac Parma – e creato da UNHCR Italia in collaborazione con il Ciac e Refugees Welcome Italia (con il sostegno dell’istituto Buddista Italiano Soka Gakkai), il Community Matching ad oggi ha coinvolto oltre 2.300 persone – rifugiati e volontari (buddy) – e dieci città italiane di medie e grandi dimensioni: Bari, Bergamo, Bologna, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Roma, Torino ma potrebbe estendersi e proseguire nel tempo.
Di certo le relazioni che i rifugiati intessono sono complesse e complicate, tanti sono gli ostacoli che si incontrano lungo il percorso di inclusione e non tutti sono evidenti. Bisogna non solo mettersi in ascolto ma anche in discussione e per questo è fondamentale il ruolo dei buddy, una forma di amicizia volontaria, che svolgono una forma più personalizzata di supporto sociale informale a lungo termine con gli individui di cui si prendono cura, ascoltando i bisogni reciproci al di fuori delle strutture pubbliche organizzate all’interno della sfera privata. Attraverso un processo di “matching” tra rifugiati e cittadini, il programma facilita percorsi di inserimento nella società e rafforza i legami tra le persone.
Scrive, tra l’altro, Chiara Marchetti:
“…. Siamo relazioni, non possiamo esistere né tanto meno stare bene senza stare in relazione con gli altri e le altre. Alcuni legami li ereditiamo, altri ci vengono naturalmente proposti, altri ancora ci arrivano in modo inatteso e talvolta non gradito. Alcuni li scegliamo per convinzione, vocazione o passione. Altri ci stravolgono, ci sorprendono, ci fanno arrabbiare. Altri ancora ci fanno sentire forti, potenti, importanti, e un attimo dopo ci rendono insignificanti, dipendenti, zoppicanti. Ma questa è la trama delle nostre vite e delle nostre comunità. Non possiamo farne a meno, anche se tutto nella contemporaneità sembra spingerci nella direzione opposta: paura, sfiducia, rabbia, distacco, isolamento, estraneità. Se questo vale per i rapporti tra tutti e tutte noi, non può non valere anche nel caso in cui all’altro polo della relazione ci sia un rifugiato o una rifugiata…”.
Questa ricerca svela anche i vari aspetti del razzismo, quelli più nascosti e inconsapevoli: gesti involontari, tipologie di sguardi e di atteggiamenti a cui gli autoctoni non fanno caso ma che solo attraverso il confronto e l’ascolto delle sensazioni che trasmettono ai rifugiati, diventano evidenti. Un “matching” formativo che aiuta anche noi a capire l’altro e a superare il gap.
“È una buona cosa se siete voi a vedere. Essere visti, tuttavia, può farvi sentire come se veniste consumati. Non è facile essere guardati. Le donne e le persone razzializzate lo capiscono perfettamente. Riconosciamo l’invasività degli occhi prima di sentire espressioni come lo sguardo maschile e scopofilia o di imbatterci nel panopticon di Foucault. Gli uomini bianchi guardano, tutti gli altri sono guardati […]. Come faccio a evitare l’inevitabilità di essere guardato quando ogni volta sono l’unico dei miei simili? E quando proprio devo essere considerato, come faccio a essere considerato nel modo in cui viene considerato chiunque altro? “(Williams 2024, p. 177).
Noi e loro. Ancora una dicotomia difficile da superare. Il progetto mira a focalizzare le difficoltà di trasformare le comunità in luoghi veramente accoglienti e inclusivi e fornisce interessanti chiavi di lettura. È perciò un’esperienza interessante sotto diversi aspetti: innanzitutto per l’impatto che produce sulle vite delle persone rifugiate coinvolte; per gli effetti sui buddy volontari e le comunità in senso più ampio in cui queste relazioni prendono corpo; infine, per lo sforzo di elevare tale pratica a vera e propria politica di integrazione.
L’esperienza del Community Matching è già stata riconosciuta come una buona pratica a livello internazionale, presentata nel 2023 alle Consultazioni Regionali dell’UNHCR e successivamente nel 2024 in occasione delle Consultazioni Globali, rimarcando il ruolo centrale della società civile e delle autorità locali nell’affrontare il fenomeno migratorio.
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