La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture, ha devastato ovunque il paesaggio. E il paesaggio non torna in vita. La questione è nota, eppure non ci fermiamo mai abbastanza a ragionare di quanto la velocità sia la vera ossessione del capitalismo e della sua invenzione, il consumismo, che non sembra conoscere congiunture. Intanto apprendiamo che il consumo di suolo aumenta – in Italia ne mangiamo ormai 2,4 metri quadrati al secondo – e ci sembra impossibile pensare che ci siano persone che hanno imparato a nuotare nel Po… Scrive Daniele Ferro, mentre osserva dal treno la costa ligure: “Chi è cresciuto prima o agli albori del consumismo, chi vive in luoghi ancora non stuprati, chi possiede meravigliosi ricordi di quotidianità con la natura; ve ne prego: scrivete, scrivete tutto…”
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«Un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su […] facevano a chi monta sulle spalle dell’altro». Da anni, quando vado in Liguria, sul treno e in acqua mi chiedo quale beatitudine agli occhi fosse un tempo la costa, e mi addoloro, stupido, per il paesaggio perduto; mi appare Capo di Noli di Signac, e immagino il viaggio in barca del pittore dalla Costa azzurra, i suoi sguardi che non possono più essere i nostri. E poi ho letto per caso: il sanremese Calvino, in treno per il ponente ligure, non riconosceva più la sua terra. Così all’apparizione del pittore in mare mi s’è aggiunto lo scrittore sul vagone, e mi sento meno stupido, e comparo la mia malinconia al dolore di chi, in quella riviera, vi crebbe. Calvino lo affrontò – insieme al «fastidio» – con La speculazione edilizia; l’ho scoperto solo in una recente, inquieta visita a Sanremo.
Lo scempio ligure, nelle fondamenta della febbrona edilizia che coinvolse l’intero Paese, è il medesimo del nostro attuale e ubiquo stile di vita.
La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture – sospinta dal sistema mediatico e tecnologico – ha ucciso nel secondo Novecento un paesaggio naturale e culturale. E il paesaggio non resuscita: stop, finito. In un lampo di Storia.
Su tale aspetto mi sento molto meno ricco di chi ha vissuto infanzie bucoliche prima e dopo la seconda guerra mondiale.
Sul giornale locale della mia cittadina di provincia, un novantenne ha raccontato ciò che si faceva nel Dopoguerra per la festa di Pietro e Paolo del 29 giugno: si mettevano in cammino accarezzando la rugiada all’alba, dalla città su per le colline, rinfrescandosi a sorgenti oggi abbandonate. La merenda stesi sui prati diveniva un cibarsi e un sentire ampio, in origine legato alle celebrazioni del solstizio.
Ateo, credo nei guai in cui ci caccia il potere delle religioni, ma sono certo di uno tra i danni causati dal capital-consumismo: ha crocifisso i riti “cristiani”, coi quali la Chiesa s’impadronì di quelli pagani connessi ai cicli naturali, e ci ha lasciato orfani.
Non abbiamo più riti popolari in cui accomunarci a chinare il capo dinanzi alla bellezza e malignità incommensurabili della natura e dell’esistenza.
Uno dei più cari ricordi da adolescente scout Agesci, era il ritrovarsi a cantare in cerchio intorno al fuoco, prima di infilarci in tenda: «Scende la sera e distende il suo mantello di vel, ed il campo calmo e silente si raccoglie nel mister…». Già allora in un dio non ci credevo, ma un riferimento mariano che c’era in quel canto non mi dava alcun “fastidio”, perché quello stare insieme sotto le stelle sovrane, dei boschi e di noi, m’infondeva l’animo di fiducia, gratitudine e rispetto per il cosmo e l’umanità: la «vergine di luce» diventava per me Madrenatura.
Il capitalismo non ha depurato la civiltà contadina dalla creduleria timorosa di cui era millenaria vittima: l’ha uccisa e punto, quella civiltà, e con essa ha spianato i riti che ci legavano ai cicli della Terra. Siano lodati Slow Food e i contadini resistenti.
Mi sento per certi aspetti molto meno ricco delle mie nonne novantenni; pesco tra loro ricordi fanciulli: l’una, nella campagna sicula, immergeva la sete nei ruscelli, per l’altra – nata al Nord – era festa quando un paesano regalava i gamberetti del vicino torrente. Mai visti, io. Poi, con gli occhi ancora tremanti delle mie nonne – entrambe, dalle estremità italiane, a vedere allora le bombe sulle grandi città «che però sganciate da lassù sembravano cadere addosso a noi» – osservo che per certi aspetti sono molto più povero, ma almeno non ho incubi d’una infanzia di guerra.
Siamo meno ricchi anche dei nostri genitori, noi figli del compromesso giustiziato e dello spumeggiante debito pubblico. Mi si commuove il cuore a immaginare mia madre che imparò a nuotare in Po, ad ascoltare la voce di mio padre ancora zufolante d’entusiasmo sulle vongole che da ragazzini scoprivano sotto i sassi del torrente della mia cittadina.
Fra trent’anni la mia generazione racconterà che «a ferragosto ci tuffavamo nelle acque del nostro Appennino»? Questo svago estivo sarà un privilegio della Storia, insozzato dall’inquinamento che si spingerà sempre più in alto?
Guardo alla perdita naturale e culturale che il consumismo ci ha donato, con l’occhio su bambini e ragazzi: per certi aspetti saranno molto più poveri di noi, anche se magari abitano nelle nuove ville che fanno a chi monta sulle spalle dell’altra, sbranando la terra delle nostre campagne di provincia; anche se adesso possiamo ordinare online qualsiasi tipo di paccottiglia e riceverla entro poche ore, al costo di innalzare nuovi capannoni che fanno a chi monta sulle spalle dell’altro lungo gli snodi autostradali.
E così aumenta sempre più il consumo di suolo: in Italia ne mangiamo 2,4 metri quadri al secondo (dati Ispra).
Chi è cresciuto prima o agli albori del consumismo, chi vive in luoghi ancora non stuprati, chi possiede meravigliosi ricordi di quotidianità con la natura; ve ne prego: scrivete, scrivete tutto.
Adesso qui a Padula teramana, tra le montagne boscose. Paese spopolato dopo il terremoto. Nessun servizio essenziale, nessun supermercato, nessun negozio, né bar né bancomat, né edicole, né rete mobili. Il fiume è ai suoi piedi a rendergli omaggio con la sua frescura che il vento prende per restituircela a folate alternate. Arrivare qui da Acquasanta terme con l’auto è come fare un cammino sul sentiero dei briganti tra buche e carrarecce attraversando la parte montana aspra della Laga. Quando arrivi qui senti di avere tutto.
Purtroppo stiamo andando velocemente verso il disastro ambientale. Li spreco di suolo non si ferma così come continuano ad aumentare l’anidride carbonica nell’atmosfera e la temperatura media! Nessuno fa nulla e sarà un dramma perché future generazioni!