Ascoltare resta un’arte che pratichiamo raramente presi come siamo dalla voglia di interpretare e di dire la nostra. L’ascolto è prima di tutto un modo in grado di cogliere l’unicità di ogni istante, un primo passo per conoscere e prendersi cura dell’altro e di se stessi nello stare insieme. Ascoltare vuol dire anche percepire ciò che non viene detto, ma non bisogna aver fretta di capire né di essere capito: ascoltare è conoscere la pazienza, la lentezza, imparare a convivere col silenzio che è esso stesso linguaggio, può essere un silenzio teso a tener fuori l’altro, di difesa, oppure un silenzio di attesa, quando non si trovano le parole ed è il corpo che parla. Ascoltare è un’arte che dovremmo imparare noi adulti, noi insegnanti, noi educatori per saperla proporre a bambini e bambine, ragazzi e ragazze
Ho parlato negli articoli precedenti di “pazienza”, della pazienza che non si arrende di fronte alle difficoltà e che esplora senza fretta la possibilità. La pazienza che è attesa perché abbia inizio un cammino insieme. La pazienza che nell’etimo ha a che fare con il patire a cui sa dar voce e con la compassione che apre alla condivisione e alla prossimità dell’altro.
L’ascolto si intreccia saldamente con la pazienza ed è intessuto di silenzio. Il silenzio come momento di raccoglimento, come apertura alla riflessione, come capacità quindi di sapersi fermare per ascoltarsi e ascoltare. Un’arte che pochi, pochissimi conoscono, che non è quasi più praticata nel senso più profondo della parola, presi come siamo dalla voglia di “interpretare”, di dire la nostra, di far prevalere più la nostra opinione che ascoltare quella dell’altro.
Pazienza e silenzio, al contrario, possono diventare un particolare modo di stare nel mondo, un modo lento di sentirlo e, quindi, di sentirsi. Un modo in grado di cogliere l’unicità di ogni istante e l’importanza di ogni momento, di tutto ciò che accade, del particolare, dell’inatteso.
Pazienza e silenzio aprono, dunque, all’ascolto. L’ascolto come primo passo per conoscere e prendersi cura dell’altro e di se stessi nello stare insieme, sapendo che le proprie vite sono interdipendenti e intrecciate fra di loro.
Se vogliamo davvero entrare in relazione con i nostri allievi, dobbiamo, come ho già detto, imparare con umiltà a pronunciare: “non so”, quelle due piccole paroline, “piccole, ma alate” di cui parlava la poetessa Wisława Szymborska e che aprono porte, allargano orizzonti, insegnano a farsi domande prima di darsi risposte. Da questo atteggiamento parte l’ascolto, quello che dobbiamo imparare noi, quello che dobbiamo insegnare ai nostri alunni.
Ascolto, infatti, è sospensione e abitare una certa distanza o “estraneità”, è spazio. Ascoltare non è negare di essere estranei, è accettare la diversità dell’altro, elaborarla senza negarla, farla lavorare in noi, dandosi tempo.
Prima di tutto l’ascolto è attenzione a come l’altro è, non ha la presunzione che sia quello che noi vorremmo che fosse. L’ascolto è aprire uno spazio in cui la parola dell’altro possa trovare un luogo dove manifestarsi in libertà. Se si vuole che l’altro percepisca il nostro riconoscimento, si ascolta la sua parola come unica, irriducibile, come nuova, ancora sconosciuta. Si ascolta la parola dell’altro come manifestazione di qualcosa che appartiene solo a lui/lei e che non si conosce ancora. Si aspetta che sia l’altro ad esprimersi, che pian piano dica qualcosa di sé. Gli si offre la propria disponibilità e soprattutto la propria attenzione. Ciò che dice di sé, piccolo o grande che sia, è sempre qualcosa che è in divenire, verso una crescita, talvolta una vera e propria rinascita.
Scrive Luce Irigaray:
“Ti ascolto per dare un luogo in cui tu possa sentire sostegno al tuo divenire… Ti do del silenzio, in cui il futuro di te – e forse di me, ma con te e non come te e senza di te – può emergere e fondarsi … questo silenzio è spazio-tempo che ti è offerto senza riti né verità stabilite, a priori…”.
L’altro deve sentire che non tutto è già deciso o precluso, ma che l’orizzonte è ancora aperto e il futuro non è determinato dal passato né sarà deciso da altri, è un futuro ancora in fieri, da costruire insieme, qualsiasi sia la condizione in cui uno si trova in quel momento. Attraverso l’ascolto dell’insegnante in primis e poi dei compagni ognuno potrà dire di “esistere”, si sentirà riconosciuto per quello che è e vorrà o cercherà di essere.
Parlarsi e ascoltarsi per costruire ponti, incontri, relazioni nella propria vita quotidiana. Parlarsi e ascoltarsi per abbattere quel senso di solitudine che ci fa sentire impotenti, per condividere la nostra fragilità e vulnerabilità.
L’ascolto ha luogo, quindi, in uno spazio inter-soggettivo, dove qualcuno chiede di essere ascoltato e si aspetta l’attenzione dell’altro. Si rivolge all’altro non in modo casuale, ma perché si aspetta qualcosa da lui. Sente che proprio quella persona e non un’altra possa aprirsi alle sue parole. Ma può voler essere ascoltato anche all’interno di una classe, dove giorno dopo giorno bisogna tessere una tela, dove si deve favorire la costruzione di legami, di una comunità.
Ma desiderare di essere ascoltato, non significa necessariamente riuscire a comunicare quello che si vuole esprimere con le parole. Più un bambino/a ha sofferto, meno saprà raccontarsi. Come può esprimersi un bambino/a piccolo/a, un bambino chiuso, un bambino sofferente? O un ragazzo fortemente ferito dalla vita? Certo non con le parole, non è quello il linguaggio che ci dobbiamo aspettare.
Dice Simone Weil che, in generale, il pensiero della sofferenza non è discorsivo, non si costituisce in unità logiche e rigorose, ma si smarrisce «come una mosca che corre sempre contro un vetro» che vuole uscire ma che non trova il modo.
Prima ancora di metterci in ascolto, quindi, dobbiamo saper fare silenzio dentro di noi, far tacere le tante parole che giudicano, che stigmatizzano, che interpretano, che a tutti i costi vogliono trovare soluzioni veloci. Le parole che presumono di aver già capito senza prima aver affiancato, condiviso, amato. Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto, un silenzio che è spazio, apertura all’altro. Un silenzio, per dirla con la Weil, che ci «permette di cogliere verità che altrimenti resterebbero celate per sempre». Solo allora capiremo che ascoltare non è solo porgere l’orecchio ma aprirci al mondo che ci circonda.
Pierre Sansot parla di «interiorità creativa» e con questo termine indica «quello spazio di accoglienza in cui le parole dell’altro potranno trovare rifugio» .
Capita a chi ascolta veramente di essere più preso dalla voce che dalle parole. La voce è espressiva di per sé, a prescindere dalle parole che articola: indica la gioia, la tristezza, la malinconia, ogni emozione passa attraverso la sua vibrazione. E ci si sorprende spesso ascoltando di essere catturati dalla sua modulazione, dalle sue oscillazioni.
Ascoltare solo le parole significa cogliere una parte dell’altro, quella che appare in superficie e che poco può dire di quello che si muove più nel profondo. Ascoltare vuol dire percepire anche ciò che non viene detto, che è ancora nascosto nelle pieghe dell’anima e fa fatica ad emergere.
Ascoltando si esplorano terreni sconosciuti, può quindi voler dire imparare a legger dietro il significato letterale delle parole.
Non sempre si riesce ad entrare nel mondo dell’altro, a volte ne rimaniamo ai margini in attesa di qualche apertura. A volte qualche apertura c’è, ma possiamo subito dopo ritrovare la porta chiusa.
Non bisogna aver fretta di capire, né di essere capito. Ascoltare è conoscere la pazienza, la lentezza, imparare a convivere anche col silenzio che è esso stesso linguaggio. Può essere un silenzio teso a tener fuori l’altro, di difesa; un silenzio dove la parola non ha la possibilità di sorgere e rimane condannata a restare nascosta. Si dice spesso: mi è rimasta la parola in gola, non sono riuscita a dire nulla.
Può essere, invece, un silenzio di attesa: non si trovano le parole, ma si vuole entrare in contatto. Allora è il corpo che parla: gli sguardi, i movimenti delle mani, la postura, la rigidità o la rilassatezza dei muscoli. I gesti non hanno bisogno di parole e a volte sono più determinanti nello stabilire una relazione. La parola non è quindi sempre necessaria. Non sempre si vogliono comunicare contenuti, ma emozioni. La parola potrà trovare spazio per spiegare, per portare alla luce il sommerso, per chiarire a se stessi e all’altro che cosa si sta vivendo.
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Chi sa relazionarsi nel silenzio può dare significato alle parole, altrimenti la parola può riempire solo i vuoti, può nasconderci all’altro.
Io penso che la comunicazione cominci proprio dalla capacità di accogliere la parola balbettata, quello che ancora non si è in grado di dire, ma che vorrebbe trovare una strada. Comincia dove c’è attenzione, interesse, disponibilità, apertura. In questa dimensione nasce il vero dialogo, quello in cui le parole si riappropriano dei loro significati, quelle parole che rimangono dentro, e dialogano con noi nel nostro spazio interiore anche in assenza di chi ce l’ha dette.
Ricordo Francesco di tredici anni. Era un ragazzo ribelle, veniva spesso mandato in presidenza, faceva con me un laboratorio di teatro, spesso chiacchieravamo insieme di lui, della sua vita, del suo futuro. All’ennesima volta in cui aveva trasgredito qualche regola, gli ho detto che forse era meglio che io tacessi, che le mie parole non gli erano utili e forse lo annoiavano soltanto. Lui si era fatto serio, mi aveva guardato negli occhi (cosa abbastanza insolita per lui), poi mi aveva detto: “No per piacere, lei continui a parlarmi, adesso non sono pronto, ma forse un giorno ripenserò alle sue parole e mi saranno molto utili”.
Forse i ragazzi sanno insegnarci più di quello che crediamo. Con un po’ di umiltà e un po’ di amore, perché no? Saper ascoltare è un’arte non facile da imparare.
Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO: