È Hamas che è caduta nella trappola di Israele, non il contrario, sostiene Chantal Meloni, docente di Diritto Penale Internazionale all’Università Statale di Milano, in questa bella intervista di Pasquale Liguori. A pagarne il prezzo, come sempre, è l’intera popolazione di Gaza, assediata e richiusa in condizioni disumane nella più grande prigione a cielo aperto del pianeta e oggi costretta a un esodo che rischia di essere perfino peggiore di quello della Nakba del 1948. Chantal Meloni condanna senza esistazioni l’offensiva segnata da una violenza in nessun modo giustificabile – né in termini umani e men che mai in termini politici – delle milizie islamiste palestinesi ma, diversamente da quanto viene affermato in modo sostanzialmente unanime, spiega di non esserne sorpresa. Chi conosce davvero la situazione di Gaza e la segue da anni ogni giorno – e anche solo in Italia si tratta di migliaia e migliaia di persone – non può avere lo stesso metro di ragionamento e le stesse reazioni che ha chi precipita nel gorgo mediatico di questi giorni finendo per cancellare una storia sanguinosa – anche la più recente – segnata da occupazione militare, espulsioni, tortura, aggressione coloniale e discriminazioni di ogni genere contro i palestinesi. Una storia su cui sono state scritte milioni di pagine in tutto il mondo e che oggi, nell’ennesimo capolavoro della manipolazione mediatica, viene descritta come se nell’ottobre del 2023 fosse cominciata una “nuova guerra”
Il mattino del 7 ottobre, siamo stati raggiunti dalle notizie dello sfondamento del recinto che fa da perimetro carcerario al territorio di Gaza, con l’attacco di Hamas in territorio israeliano. Una profonda conoscitrice delle problematiche di quel territorio come lei che riflessioni ha fatto?
Mi è parso immediatamente evidente che si trattava di una tragedia di dimensioni epocali e che questo attacco che dobbiamo e possiamo definire terroristico da parte di Hamas avrebbe costituito il pretesto per Israele per portare a termine quello che è un progetto di lungo periodo rispetto alla Striscia di Gaza. Ho avvertito una netta discrasia tra ciò che nella mia testa, nel mio cuore andava maturandosi: da un lato la popolazione civile di Gaza che avrebbe pagato un prezzo altissimo, dall’altro le reazioni di colleghi e conoscenti, molti dei quali palestinesi, coi quali mi trovavo a un evento pubblico, che celebravano l’accaduto come un gesto di portata enorme per la resistenza palestinese che non si immaginava potesse essere realizzato. Ecco, condivisi subito con tutti il mio pensiero su un atteggiamento purtroppo molto ingenuo, illusorio, come non di rado è accaduto per i palestinesi negli anni, immaginando la ferocia di quella che sarebbe stata la reazione di Israele.
Non crede che valga la pena riferirsi per una valutazione fenomenologica dell’accaduto a un antropologo come Fanon che spiegava come, attraverso la violenza della decolonizzazione, il decolonizzato riacquisti la propria umanità in un processo formativo e creativo teso a eliminare il complesso di inferiorità verso il colonizzatore?
Ci tengo a sottolineare che quando prima parlavo di ingenuità non intendevo affatto sminuire quello che il popolo palestinese ha provato in quelle fasi. Non v’è dubbio che ho potuto osservare quel sentimento umano di non sentirsi più predestinate vittime sterminate in silenzio. Come afferma Raji Sourani, direttore del Palestinian Centre for Human Rights di Gaza «non chiedeteci di essere buone vittime». Con questo lui non vuole giustificare l’estremismo, ma fa ben comprendere chi sia la vera vittima in tutta questa situazione e che non si può escludere a priori un ricorso alla forza.
Quali sono state dunque le ragioni alla base della sua preoccupata reazione alle notizie provenienti da Gaza?
Da cittadina europea in Italia, che vive gran parte della sua vita professionale a Berlino, in una Germania dove notoriamente la discussione sulla Palestina è parecchio sbilanciata, ho subito consolidato il pensiero per cui non ci sarebbe stata alcuna comprensione di questo atto e che tutto sarebbe scivolato, come infatti è accaduto, in una deriva pericolosissima che contrasto nel modo più assoluto e cioè quel posizionare in analogia gli accadimenti di questi giorni con l’Isis, con il terrorismo islamista. Questo rischio distorsivo mi è apparso subito chiaro. Un po’ figlio dell’esperienza per quanto accaduto dopo l’11 Settembre: immaginavo cosa ci aspettasse. Parliamo di eventi spartiacque nella storia.
Quali sviluppi prevede possano verificarsi?
Molte persone in questi giorni hanno parlato di un Israele caduto in una trappola tesa da Hamas. Mi permetto di pensare esattamente il contrario: Hamas è caduta nella trappola di Israele trascinando dentro tutti. È stato compiuto quel qualcosa che Israele attendeva da tempo e che prima o poi avrebbe attuato. Ora, avviene davanti ai nostri occhi ed è il portare a compimento il progetto di pulizia etnica, espellendo dalla striscia di Gaza oltre 2 milioni di persone che sarebbero solo d’intralcio rispetto ai suoi propositi. Insomma, il 7 ottobre è stata la “scusa” per attivare la feroce e strategica reazione israeliana. Oltretutto, appoggiata dalla comunità internazionale. Nessun capo di Stato occidentale, ma neanche di Paesi non occidentali o non allineati con l’eccezione della Cina, si è sentito prendere le difese dei palestinesi e chiedere limiti all’uso della forza da parte di Israele: questo è gravissimo.
In tanti sostengono che l’attacco sia stato sorprendente. È davvero stato così sorprendente? Il bicchiere troppo pieno si è alla fine rovesciato…
Per chi conosce la situazione di Gaza e la segue da anni quotidianamente, non è stato affatto sorprendente. Era oggettivamente impossibile attendersi che 2 milioni e quattrocentomila persone chiuse in un piccolo lembo di terra come la Striscia di Gaza potessero continuare a vivere in quel modo. Di segnali in tal senso, negli anni, ce ne sono stati tanti e sempre con sproporzionate reazioni da parte di Israele. Basti ricordare le varie operazioni militari come “Piombo fuso” del 2009 o quelle del 2012 e “Margine protettivo” del 2014, ogni volta raggiungendo un’intensità di distruzione, di attacchi indiscriminati, se non addirittura intenzionali, contro i civili, con la distruzione delle infrastrutture e di tutto il substrato socio-culturale di Gaza su una scala sempre più sconvolgente. Ma potremmo continuare, con altre aggressioni più recenti come i bombardamenti del 2021 e quelli di pochi mesi fa con “Scudo e freccia”. Non vanno dimenticati gli eventi del 2018 quando, in occasione dei 70 anni della nascita dello Stato di Israele, coincidente con la Nakba dei palestinesi, marce di pacifica protesta al confine da parte di civili palestinesi, non di Hamas, sono state represse con la forza armata, con i cecchini israeliani che uccidevano o miravano alle ginocchia dei manifestanti. Io stessa ho potuto verificare ciò, avendo potuto conoscere di persona le vittime, raccogliendone numerose e dolorose testimonianze. Quelle marce furono il tentativo di attirare l’attenzione del mondo indifferente sulla questione di Gaza.
Proteste pacifiche peraltro sistematicamente represse da Israele anche in Cisgiordania, nel resto dei Territori Occupati.
Sì, dove da tanti anni si effettuano manifestazioni di pacifico dissenso. Va ricordato che in Cisgiordania l’operato dell’Autorità Palestinese assurge a una sorta di longa manus dell’occupazione israeliana soffocando ogni possibilità di vibrante resistenza. La stragrande maggioranza delle manifestazioni sono assolutamente pacifiche e vengono comunque represse con un uso sproporzionato della forza, non di rado anche letale.
Insomma, il 7 ottobre non è un’inattesa, sconvolgente sorpresa.
Per chi segue da sempre questi eventi, no. Il mondo resta scosso solo dal clamore improvviso di media solitamente dormienti e indifferenti a violenze che, in realtà, sono perpetrate quotidianamente da Israele. A Gaza, la violenza è insita nel blocco assoluto imposto da Israele sin dal 2007 da quando cioè Hamas ha preso il controllo della Striscia. Le persone di quel territorio vengono ammazzate non solo dalle bombe o dai cecchini. I Gazawi sono uccisi anche non permettendo ai malati di andare a curarsi in ospedali idonei collocati al di fuori della Striscia, non permettendo alle famiglie di ricongiungersi, non permettendo ai giovani di studiare e di avere un futuro, non permettendo più alla comunità internazionale di entrare in Gaza quindi lasciando che questo piccolo territorio sovrappopolato sia forzatamente abbandonato anche da operatori di pace. Ho sempre pensato che dopo Hamas ci sarebbe stato qualcosa di peggio di Hamas e in qualche modo credo che non siamo stati capaci di capire che Hamas stessa stava trasformandosi in qualcosa di peggio. Tuttavia, ci sono molti aspetti che saranno analizzati e forse chiariti col tempo: onestamente, desta stupore che Israele fosse all’oscuro di piani e preparativi per il 7 ottobre. Ma sono congetture e staremo a vedere più avanti quando sarà valutata approfonditamente la genesi di questo attacco. Ma per chiudere il pensiero sulla domanda che poneva, non è sorprendente che qualcosa sia avvenuto, forse ciò che è sorprendente è l’entità, la gravità dell’operazione messa in atto da Hamas. Probabilmente, neanche i palestinesi se lo aspettavano.
Sono tante le violazioni di Israele ma è l’occupazione stessa, illegale, dei Territori il fattore chiave da rimuovere per una prospettiva geopolitica differente in Palestina. Molti si riferiscono al diritto di Israele di difendersi dimenticando l’illecita espansione degli insediamenti coloniali, il regime di apartheid imposto ai palestinesi, la repressione militare e l’umiliazione di diritti civili e politici, senza contare un sistema carcerario asfissiante. Di nuovo, è d’accordo sul fatto che debba perentoriamente essere smantellata l’occupazione?
Certo, è il punto fondamentale. Proprio di recente, in una trasmissione televisiva a cui ho partecipato mi è stata rivolta una domanda in proposito e torno a ribadire che non si può obliterare il contesto generale che è quello di un’occupazione belligerante. Come giurista penalista sono, però, molto attenta al linguaggio. L’occupazione in sé non è vietata, non detenendo un’accezione di legittimità o illegittimità: è un qualcosa previsto dal diritto internazionale umanitario come tecnica militare di cui uno Stato può avvalersi in caso di necessità militari. Il motivo per cui tanti giuristi affermano che l’occupazione di Israele è di per sé illegale risiede nelle caratteristiche di questa occupazione che avrebbe dovuto essere temporanea, circoscritta alle strette necessità militari, per essere poi smantellata. Invece, per le caratteristiche di tale occupazione che si è prolungata nel tempo, in una maniera che non ha precedenti storici comparabili per la modalità con cui essa stessa si attua col massiccio trasferimento di popolazione israeliana ebrea nel territorio palestinese insediandosi poi stabilmente nelle colonie, il quadro diventa palesemente illegale. Bisogna esser consapevoli del fatto che le colonie non hanno la conformazione di piccoli villaggi: alcune di esse hanno dimensioni da vere e proprie città, dotate di complete infrastrutture comprese persino le università. Intorno alle colonie c’è un sistema militare a protezione dei coloni stessi che lì vivono in violazione del diritto internazionale. E tale sistema si riversa in tutta la sua oppressione sulla vita palestinese con centinaia di checkpoint e un complesso e diffuso sistema di divieti di ogni sorta. Il famigerato muro è stato dichiarato illegale nel 2004 in base al parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia e da allora Israele avrebbe dovuto conformarsi a tale parere cosa che non è avvenuta, aggravando ulteriormente la situazione. E il muro è solo una delle tantissime forme con cui Israele ha diviso e parcellizzato il territorio palestinese, annettendo a sé un’ampia porzione delle terre più redditizie in termini di risorse e determinando l’instaurarsi di una miriade di ghetti. Gaza è quello più grosso ma esiste una miriade di ghetti nella Cisgiordania occupata. È tale il motivo per cui si arriva a definire illegale un’occupazione.
In una recente trasmissione televisiva, Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, influente rivista di geopolitica, ha affermato riferendosi al diritto internazionale che «A proposito di fatti, c’è qualcuno che veramente pensa che il diritto internazionale sia un fatto? O non è invece un insieme di regole variamente interpretate? Non c’è qualcuno che possa imporre questo diritto. Quindi un diritto che non può essere applicato, per definizione non può essere un diritto». Crede che sia corretto?
Queste parole sono sbagliate perché negano che il diritto internazionale possa essere applicato. Ci sono organi deputati all’applicazione del diritto internazionale che hanno anche il potere di farlo. Parliamo di corti come la Corte Internazionale di Giustizia, organo supremo giudiziario dell’ONU, che può applicare il diritto internazionale a livello di Stati, o la Corte Penale Internazionale, che può accertare e condannare le responsabilità penali individuali in caso di crimini internazionali e cioè di violazioni del diritto internazionale. Esistono anche moltissimi altri meccanismi. Il problema sta nel rendere esecutive decisioni e sentenze emesse o risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che hanno delineato chiaramente il principio di diritto che debba valere ed essere applicato e che in tantissimi casi Israele, in questi decenni, ha violato. Dunque, il problema è politico non giuridico, pertanto non è rappresentato dal diritto internazionale i cui principi sono ben chiari e che sarebbero operativi se gli Stati vi si attenessero.
Desideravo ottenere un suo commento sul comunicato stampa ufficiale Onu da poco diramato da Francesca Albanese, Relatrice Speciale per i Territori Occupati, in cui si paventa con perentorietà il rischio di pulizia etnica dovuto alla reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre e si chiede accoratamente l’immediato cessate il fuoco.
L’ho letto e ho subito pensato che si tratta di uno statement molto importante e molto coraggioso. Ci sono poche persone, non solo in Italia ma nel mondo, che ricoprono posizioni ufficiali, autorevoli che hanno il coraggio di dire le cose come stanno e Francesca Albanese lo sta facendo. C’è un passaggio fondamentale nella dichiarazione della Special Rapporteur che ricorda il contesto generale della situazione che i media di tutto il pianeta trascurano o cancellano a danno di un’opinione pubblica ben informata. Operazione attuata anche dal mondo politico che ha enormi responsabilità per le dichiarazioni che si stanno facendo di incondizionato supporto alla reazione israeliana: da una parte v’è la legittima condanna dei gravissimi attacchi di Hamas ma, dall’altra, la condanna si trasforma in carta bianca all’uso della violenza indiscriminata. Da questo deriva un quadro che conduce alla possibilità di pulizia etnica, addirittura si parla di genocidio nei confronti dei palestinesi a Gaza. Ecco, tutto ciò potrebbe configurarsi come complicità fino agli estremi di responsabilità negli atti a cui stiamo assistendo. La dichiarazione della Special Rapporteur fa uno specifico collegamento con il 1948. Ciò non significa in alcun modo, lo ribadisco, giustificare quello che Hamas ha fatto il 7 ottobre e in seguito. Non si vuole assolutamente minimizzare la gravità degli attacchi contro i civili israeliani e la loro uccisione di massa che sono chiaramente da condannare senza se e senza ma e non c’è spazio per ambiguità a riguardo. Detto questo, bisogna avere chiaro che la pulizia etnica della Palestina, e questo non lo dico io ma è supportato dagli studi di storici anche israeliani a partire da Ilan Pappé, è iniziata nel 1947-48. La striscia di Gaza è stata creata allora: Gaza city è una delle città più antiche al mondo, crocevia strategico nei collegamenti con altre capitali del Medio Oriente e culla di numerosi influssi culturali derivanti dalle varie epoche storiche. Gaza è una città che è lì da molto tempo ma la Striscia è un’invenzione del 1948 quando i palestinesi sono stati espulsi dalle loro case e dalle loro terre situate sui luoghi costieri più a nord. In massa, sono stati spinti a migrare verso sud in quella che è poi divenuta la Striscia urbana di Gaza. Bisogna sapere che l’80% dell’attuale popolazione di Gaza possiede lo status di rifugiato dal 1948 e che Gaza nasce quindi come un enorme campo rifugiati. Quella che i palestinesi chiamano Nakba, la catastrofe del 1948, è un qualcosa che in qualche modo è andata avanti e non si è conclusa nel ‘48. Molti, anche in ambiente accademico, parlano di ongoing Nakba cioè un qualcosa che continua e che non “è stata” ma è tuttora in corso. Quello a cui stiamo assistendo oggi e che la Special Rapporteur individua come «pulizia etnica» è di importanza straordinaria perché si ricollega ai fatti del 1948 e in qualche modo, purtroppo, temo possa costituire il compimento di quel criminale progetto originario.
Miriam Silvestri dice
Chiaro, preciso, obiettivo. Grazie
Andrea Guerrizio dice
Grazie
Cristina Civale dice
Chiaro e vero. Scrivo da Buenos Aires, Argentina.
Scusati i miei errori di tutto tipo.
Mi sembra molto utile ed importante che una donna della Universitá di Milano possa dire questo che sostiene. Da noi, per questa posizione -che comparto- io sono stata cancelata comme antisemita che chiaramente diverso ad essere antisionista. Grazie.
Elvira Nidoli dice
Approfondimento pienamente condivisibile, grazie