Se c’è un luogo nel quale la ricerca di risposte su cos’è una città educante può aprire prospettive importanti, quel luogo è la biblioteca. Non quella tradizionale, ma la biblioteca che sa rivolgersi anche ai non lettori, che ripensa il suo compito di struttura culturale di intermediazione tra cittadini e documenti attraverso la partecipazione degli abitanti del territorio, che si propone come luogo di relazioni dove si trova sempre qualcosa da fare o qualcuno con cui parlare. Da tempo e in tanti modi diversi, Antonella Agnoli dedica le sue attenzioni a questi temi. In La casa di tutti. Città e biblioteche (Ed. Laterza) ha raccolto punti di vista ed esperienze che mostrano come è possibile creare queste nuove piazze del sapere nel momento in cui la biblioteca diventa un bene comune attraente, aperto in qualsiasi momento della giornata per garantire la libertà di accesso allo spazio pubblico, all’informazione, alla memoria collettiva. “Un posto dove ti senti accolto, protetto, dove ti senti come a casa a volte meglio che a casa – si legge nel capitolo Infrastrutture culturali (di cui pubblichiamo ampi stralci) – Uno spazio pubblico sorprendente capace di suscitare meraviglia e stimolare l’immaginazione e la creatività…”
Questo articolo da parte dell’inchiesta Il rammendo dei quartieri
“È un posto che mi calma subito. Quel silenzio, quell’aria
solenne… Lì non può accaderti niente di brutto”
(Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany)[1]
Sono a Oslo nella nuova biblioteca Deichman, fuori vento e pioggia, decido di passarci l’intera giornata: colazione, pranzo e cena sono assicurati dall’ottimo caffè ristorante, un po’ caro ma siamo in Norvegia. La biblioteca è grande, una città nella città, non sono l’unica a passarci la giornata. Una nonna inizia la mattina a cucire una tuta per il nipote, quando ripasso la sera il lavoro è compiuto e lei guarda con soddisfazione la sua opera. È pieno di bambini ovunque […].
Le biblioteche sono quei posti dove sai che “non può accaderti niente di brutto”: fortunatamente non occorre andare fino a Oslo per trovarne. Una recente indagine dell’ISTAT ci aiuta a comprendere meglio le dimensioni del patrimonio italiano. Gli autori hanno censito 7459 biblioteche pubbliche e private aperte al pubblico nel 2020, che diventano 12.647 se includiamo le biblioteche scolastiche e quelle universitarie. Sono numeri molto rilevanti se confrontati a quelli delle librerie (circa 4400, però negli ultimi anni il canale di vendita di libri attraverso le edicole è diventato piuttosto importante) e a quelli di musei, siti archeologici e altri monumenti: in tutto 4265. Gli accessi fisici totali registrati dalle biblioteche nel 2019 sono quasi 50 milioni: gli utenti iscritti in biblioteca che hanno usufruito di almeno un servizio sono 7,8 milioni[2].
Siamo di fronte a un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Abbiamo una biblioteca ogni 8000 abitanti: “non poco” scrivono Fabrizio Arosio e Alessandra Federici “se si considera che in proporzione le librerie sono una ogni 13.000 abitanti, i cinema e i teatri sono uno ogni 11.000 e gli uffici postali uno ogni 5000”[3]. Certo, le biblioteche sono di gran lunga l’infrastruttura culturale più diffusa in Italia, e che l’80% di loro sono aperte tutto l’anno ma resta il fatto che esiste una biblioteca solo in tre comuni italiani su cinque (58,3% del totale).
Nei 2869 comuni dove una biblioteca non esiste (nel Mezzogiorno ma anche in alcune aree montane, in particolare nel Nord-Ovest) spesso non è presente nemmeno una libreria, né un museo, né un cinema. Per la precisione, in una porzione della penisola in cui vivono oltre 1,3 milioni di italiani “non è stato mai allestito, nel corso di tutto il 2020, nemmeno uno spettacolo, sia esso cinematografico, teatrale, danzante o musicale, né una manifestazione sportiva, fieristica o di qualunque altro genere, incluse mostre, attrazioni itineranti o parchi divertimento o manifestazioni all’aperto in occasione di sagre o ricorrenze religiose”. Siamo quindi di fronte a un crollo non solo delle infrastrutture bibliotecarie in senso stretto ma anche a un’assenza di infrastrutture culturali che porta con sé un forte pericolo di esclusione politico-sociale. Sono quasi sempre piccoli centri in via di spopolamento, dove prima ha chiuso la cartolibreria (quando c’era), poi la scuola per mancanza di alunni, poi la posta, un processo che naturalmente incentiva uno spopolamento ulteriore. […]
Un aspetto positivo è il fatto che i comuni piccoli e medi (meno di 30.000 abitanti) forniscono il servizio bibliotecario a oltre la metà dei 4 milioni di cittadini che nel 2020 avevano frequentato una biblioteca lasciando traccia di sé, cioè hanno preso a prestito un libro o un film, si sono prenotati per un concerto o iscritti a un laboratorio. Questo sottostima il numero di utenti perché non include i molti frequentatori del luogo che si limitano a leggere giornali e riviste, assistere a un evento che non richiede prenotazione, o studiare con libri propri. Ciò significa che in questi comuni le biblioteche sono un’infrastruttura non solo apprezzata dai cittadini ma anche assolutamente vitale: “La percentuale dei cittadini italiani che non ha familiarità con la biblioteca è molto alta, ma – in compenso – chi conosce la biblioteca la frequenta in media almeno ogni due mesi; sappiamo che il 15% circa della popolazione italiana prima della pandemia le utilizzava, e che il cuore dell’utenza è rappresentato da donne e da ragazzi” scrivono Paola Dubini e Alberto Monti[4]. […]
La biblioteca dovrebbe essere un luogo e un servizio che si rivolge ai non lettori ancora prima che ai lettori. Il compito della biblioteca è di funzionare “come struttura di intermediazione fra utenti e documenti (utenti troppo spesso disorientati dalla sovrapproduzione di informazioni disponibili in Rete, ma anche dalla mancanza di strumenti critici e perciò esposti alla ricezione passiva di inesattezze, verità parziali, falsità, comunicazioni distorte) è stato sviluppato [a Trento] con una particolare attenzione per il tema della ‘post-verità’, senza attivare comportamenti censori, ma inaugurando collaborazioni con l’Università, centri di ricerca, Ordine dei medici”[5].
Una struttura di intermediazione, però, dev’essere adeguata ai tempi, deve essere coerente con l’ecosistema informativo in cui siamo immersi. Il tradizionale assetto televisione-radio-giornali è stato sconvolto già parecchi anni fa dalla disponibilità di siti, blog e altri strumenti di comunicazione on line e, dal 2007 in poi, dall’emergere di piattaforme di condivisione come Facebook, Twitter e le altre. In questo nuovo ecosistema la comunicazione viaggia in tutte le direzioni e rimbalza da un supporto all’altro in modi imprevedibili. Possiamo quindi ricollocare la biblioteca in questo contesto solo se concepiamo per lei un ruolo attraente e utile, quello di un luogo in cui si ritrovano le cose migliori della vita, dove puoi sempre trovare qualcosa da fare o qualcuno con cui parlare. Un posto dove ti senti accolto, protetto, dove ti senti come a casa a volte meglio che a casa. Uno spazio pubblico sorprendente capace di suscitare meraviglia e stimolare l’immaginazione e la creatività. […]
In Francia da qualche anno si parla molto di biblioteca come “terzo luogo” e molti articoli sono usciti sulla stampa professionale, italiana e internazionale. A guardare più da vicino, però questo sembra più che altro un modo per dire che la biblioteca deve cambiare, deve concentrarsi meno sui libri e più sulla dimensione sociale, sulla gradevolezza dello spazio, dell’accoglienza, dell’atmosfera. […]
Il concetto di third place è stato coniato quarant’anni fa dal sociologo americano Ray Oldenburg per descrivere luoghi dove la gente passa del tempo e fa conoscenze, al di fuori della casa e del posto di lavoro. Parliamo quindi di posti che non sono né casa né lavoro ma che vengono visitati con una certa frequenza per incontrare persone, parlare, fare cose insieme. Potrebbero essere un caffè, una chiesa, un pub, un negozio di barbiere. Oldenburg basava le sue riflessioni sul modello di città americana con i suoi sobborghi residenziali e la carenza di luoghi capaci di favorire i legami sociali. […] I terzi luoghi non nascono dall’alto, per decisione di qualche istituzione: una biblioteca può e deve essere accogliente ma saranno gruppi di utenti a sceglierla come posto di incontro oppure no. […]
In realtà, nuovi luoghi di incontro e di servizio nascono in molte città: a Parigi e a Torino troviamo dei “portierati di quartiere”, cioè dei punti di informazione e aiuto che offrono dei piccoli servizi come ricevere un pacco, fare le pulizie, montare una mensola in casa. La biblioteca accogliente può includere anche questi, ma deve soprattutto diventare una nuova università popolare. Partendo da tutti gli argomenti che riempiono la vita quotidiana e le preoccupazioni degli utenti ma con idee nuove e forme di presentazione originali. Se la bolletta del gas aumenta una mostra sui gasdotti, un documentario sui combustibili fossili, un laboratorio con la scuola più vicina sulla geopolitica dell’energia saranno iniziative che stimoleranno l’interesse dei cittadini senza inseguire i video oggi disponibili su ogni telefonino. La biblioteca di Heerhugowaard (Paesi Bassi) ha avuto un’idea eccellente: una giornata sul tatuaggio in cui un tatuatore illustrava la sua professione e un relatore spiegava il significato dei segni che le persone si fanno incidere sul corpo, discutendone anche le origini millenarie in culture diverse dalla nostra. […]
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Una delle biblioteche più belle costruite negli ultimi anni è la biblioteca Oodi di Helsinki, di cui molto si è scritto sulle riviste di architettura di tutto il mondo. È veramente uno spazio sorprendente, dove si potrebbero passare giornate intere senza sentire il bisogno di uscire, tante sono le attività, gli scorci sulla città, gli angoli in cui stare. Un ottimo ristorante a piano terra, un caffè vicino alla grande terrazza, al terzo livello il “paradiso dei libri”, una sorta di grande salotto sospeso sulla città, un cinema, un livello intermedio dedicato al fare, agli hobby, con macchine da cucire, plotter stampanti di tutti i tipi, salette dove giocare ma anche realizzare videogiochi, dove creare musica o video, uffici, sale per riunioni, il laboratorio urbano e molto altro. Un edificio che è diventato il vero orgoglio di Helsinki, una città in cui le biblioteche rappresentano la seconda voce di investimento pubblico in servizi: ogni quartiere ne ha una, sono tutte accoglienti, curate, molto frequentate, non scordiamoci che i finlandesi leggono in media 40 libri l’anno ciascuno e vanno in biblioteca almeno una volta al mese. […]
A Oodi i bagni sono stati progettati con la scuola di design della città e durante l’inaugurazione hanno suscitato molto interesse, anche qualche critica. Sono bagni unisex, cioè neutri, le porte sono traslucide ma non vedi nemmeno la sagoma di chi c’è dentro, capisci se sono in funzione perché quando entri si illuminano. Grandi lavandini progettati per persone
di varia altezza con ripiani azzurri, rosa, gialli. Un esempio spiazzante che può dirci molto anche su come affrontare il tema dell’accessibilità e delle differenze.
Come dimostra anche questo progetto, è necessario avere tante e differenti competenze per rendere accogliente una biblioteca ma soprattutto è necessario cambiare la conversazione tra chi realizza e chi poi questi posti li vive o li dovrebbe vivere. […] In altre parole, non può esserci davvero una struttura culturale accogliente e attraente senza un lavoro con gli abitanti. […] Fare una biblioteca non è quindi solo costruire o riadattare un edificio in modo ecosostenibile, non è solo progettare gli interni, perché siano accoglienti: occorre fare in modo che gli abitanti lo sentano come proprio. […]
In Italia, purtroppo, mi è accaduto raramente di leggere progetti in cui le biblioteche erano parte di un processo di rigenerazione urbana: ancora oggi da noi se ne parla poco, quasi mai sono considerate parte di un percorso condiviso di ripensamento della città. […] Dobbiamo rafforzare l’idea che la biblioteca è uno spazio pubblico, dobbiamo farla uscire dagli stereotipi che ancora la avvolgono. Ma perché ciò accada è necessario che il progetto sia condiviso con i cittadini, i soli che possono dirci perché ne hanno bisogno e come lo vorrebbero. Spazi pubblici nel senso di “beni comuni” dove i cittadini si impegnano nel definire identità, diritti, regole, cambiamenti. Luoghi che diventano pubblici perché garantiscono la libertà di accesso allo spazio, all’informazione (oggi più che mai capiamo che è un requisito fondamentale per la democrazia), alla nostra memoria storica e collettiva. […]
Possiamo (dobbiamo) reinventare le biblioteche come cuore della comunità. Come luoghi di connessione tra le persone, capaci di avviare un processo positivo di crescita culturale e civile attraverso il nostro servizio. Un servizio di qualità che contribuisce al benessere delle persone. Per fortuna alcuni esempi positivi li abbiamo.
Note
[1] Naturalmente nel film la battuta si riferiva alla gioielleria Tiffany di New York ma avrebbe potuto benissimo essere riferita alla grande Public Library sulla 42a strada: la sensazione è assolutamente la stessa. Tra l’altro, è proprio in biblioteca che George Peppard
[2] Faggiolani (2022)
[3] Arosio e Federici, in Faggiolani (2022)
[4] Dubini e Monti (2022) in Faggiolani (2022), p. 93
[5] Antoniacomi (2019), p. 76
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