Tempi e spazi non si possono separare, la storia non può divorziare dalla geografia. Il progresso senza limiti – l’ultimo modo con cui in ogni angolo del mondo si esercita il potere attraverso ruspe, acciaio e cemento – è il principale promotore di quella separazione. Un intervento fondamentale di Jean Robert – architetto amico e grande collaboratore di Ivan Illich – per riflettere sul concetto di territorio. “Per me – scrive Robert -, lo zapatismo si potrebbe definire come la generazione o la rigenerazione di un territorio operata da un popolo…”
Per me, lo zapatismo si potrebbe definire come la generazione o la rigenerazione di un territorio operata da un popolo. Per questo ritengo che sia importante riflettere sul concetto di territorio o di territorialità. Ma mi chiedo immediatamente se queste parole sono ancora adeguate. Dato che per il momento non ho parole migliori, comincerò a ragionare partendo da queste.
Una costante di questo seminario, o meglio semenzaio (semenzaio di idee), è l’aver continuato a sollevare sospetti su parole che sembravano assolutamente sicure. Una partecipante ha persino posto come metodo ciò che ha chiamato l’«ermeneutica del sospetto». Un altro ha riconosciuto più modestamente di non avere – o di non avere ancora – le parole per indicare quello che vuole dire. È il mio caso. Per me, il sospetto cade sulla parola “territorio”. Ma lo ripeto: per il momento non ho una parola migliore.
Ormai non è l’ora di esplorare orizzonti nuovi. Avevo preparato alcuni appunti nel caso in cui mi fosse toccato di parlare all’inizio. Il mio tema sarebbe stato il seguente: in che misura la gente senza storia, in cui ci siamo lasciati trasformare dall’idra capitalista, può tornare a mettere radici in una geografia che è anche una storia, in altre parole in un territorio storico? Il testo preparatorio che avevamo ricevuto dal subcomandante Galeano richiamava l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, strappato via da ogni presente e da ogni passato e scagliato verso il futuro da una tempesta. Questo essere senza qui ed ora, spinto verso un futuro che non arriverà mai a diventare presente, è un’immagine dell’uomo moderno senza territorio. Il ciclone che lo porta sempre più lontano è il “Progresso”. Il progresso senza limiti è il nemico di ogni territorio e di ogni storia. È la carota che convince molti uomini moderni a lasciare tutto il buono che hanno a favore di un illusorio meglio. I francesi hanno ragione quando dicono che le mieux est l’ennemi du bien («il meglio è nemico del bene»).
Un altro nome del progresso è obsolescenza programmata. L’obsolescenza è l’atto di far diventare obsoleto, cioè inservibile, quello che potrebbe ancora servire. Le lampadine, i ferri da stiro e certi veicoli, ad esempio, hanno un meccanismo nascosto che li rende inservibili dopo un certo tempo di utilizzo. I computer dal canto loro diventano obsoleti per il semplice aumento delle prestazioni dei nuovi modelli. Per gli abiti, è la moda a fare da meccanismo di obsolescenza programmata: questo modello era di moda l’anno scorso, aggiornati! Nel suo intervento di mercoledì 6 maggio, la compagna Selena1 ci ha descritto le sue tattiche di resistenza alla moda come parte della difesa del suo territorio.
Dal momento che parlo alla fine, non è più il caso di leggere quello che avevo preparato*. Farò invece due cose: riassumerò la riflessione che avevo preparato; cercherò di riprendere l’essenziale delle conferenze che hanno affrontato il tema del territorio, della territorialità, o come lo si vuole chiamare (per mancanza di tempo, mi limiterò a tre relazioni che hanno affrontato esplicitamente questo tema, anche se è un tema che ha attraversato la maggior parte degli interventi).
I. La territorialità zapatista
In questi giorni, gente di città, come me, ha condiviso idee e progetti con gente non di città. La mia prima osservazione è che ci sono almeno due modi di vivere la città. Come dice David Harvey, ci sono i pochi che si rendono padroni dello spazio urbano e ci sono i molti che sono schiavizzati da esso.
La seconda osservazione è che non avrei dovuto dire “lo spazio urbano”, ma “lo spazio-tempo urbano”. Il subcomandante Marcos parlava di geografie e di calendari che non si possono separare le une dagli altri, cioè di geografie che definiscono calendari e viceversa. Gli spazi urbani generano dimensioni temporali, e a loro volta i tempi urbani definiscono forme di organizzazione dello spazio. Tempi e spazi non si possono separare, la storia non può divorziare dalla geografia. Una delle imprese della filosofia naturale del XVII secolo fu l’aver fatto dello spazio e del tempo due cose differenti. Non sarebbe stato così grave se questa separazione si fosse limitata alla fisica, ma poiché i fisici decretarono che la loro scienza era la regina delle scienze, questa divisione si estese a tutti gli ambiti della conoscenza e persino della vita quotidiana: in tutti i campi, lo spazio divorziò dal tempo. Una volta divorziati, il tempo e lo spazio diventano astratti, estranei ai sensi, disincarnati. Questo è il motivo per cui mi è diventato difficile parlare del territorio, dal momento che questa parola è stata recuperata da geografi che osservano il mondo da satelliti artificiali. Contro di loro, ho la tentazione di evocare quella forma molto carnale di percezione del territorio a cui il maestro Andrés Aubry alludeva quando parlava del terruño.2 Il terruño è geografia e storia molto profondamente legate, inseparabili. Per parlarne con le parole erudite che piacciono agli accademici, dovrei parlare di crono-geografia o di geo-storia.
Stiamo celebrano, qui ed ora, un incontro fra rappresentanti di due culture. La prima, a cui appartengo ancora marginalmente, ha imparato fin dai primi anni di scuola che il tempo è una cosa e lo spazio è un’altra, che la storia è una scienza e la geografia è un’altra scienza. Questa convinzione, nel corso dei secoli, è penetrata nei recessi più intimi della coscienza moderna. La seconda cultura, quella di chi ci ha ospitato in questa settimana come aveva fatto nell’escuelita due anni or sono, parla ancora lingue che non hanno dovuto subire la separazione radicale fra spazio e tempo. Ciò che risulta centrale nelle lingue americane o amerindie è la nozione di evento, la capacità di parlare di ciò che avviene, in tutte le sue dimensioni, qui e ora, come nella festa che, per la gente di città, è forse l’ultimo esempio di un evento completo.
Non voglio dire che coloro che ci hanno ospitato, quando costruiscono una casa o misurano un campo, non usano un metro e non guardano l’orologio che alcuni portano al polso. Voglio dire che non hanno permesso che i metri e i secondi dissocino la loro percezione del terruño, che è sempre geografie e calendari che si intrecciano così intimamente da non poter essere dissociati. Uso intenzionalmente questa parola, il terruño, che può sembrare romantica. Lo faccio ribellandomi a certi programmi di università statunitensi e messicane che cercano di rendere inservibile la parola territorio nel senso in cui vorrei poter continuare a utilizzarla.
L’obsolescenza programmata del concetto di territorio per opera di geografi militari
Mi riferisco esplicitamente al progetto México Indígena, che fa parte delle cosiddette «Spedizioni Bowman». Bowman è il cognome di un vecchio geografo americano noto in vari paesi dell’America Latina per aver posto la sua scienza al servizio di imposizioni politiche ed economiche nordamericane. Oggi, le «Spedizioni Bowman»3 sono il nome generico di un progetto finanziato dal Foreign Military Study Office, cioè l’ufficio di studi militari all’estero dell’Università del Kansas, che dipende dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Il direttore di questo progetto geografico-militare è il colonnello Geoffrey Demarets, assistito dal geografo Jerome Dobson. Le loro operazioni in Messico iniziarono nell’Huasteca Potosina e si estesero allo Stato di Oaxaca ai tempi dell’APPO. Sotto il termine geoproperty (geo-proprietà) studiano le forme di possesso della terra nelle regioni indigene, per cui il progetto è noto in Messico col nome di México Indígena. Riconoscono una sola forma di possesso della terra, la proprietà privata. Le altre forme di possesso, come ad esempio la posesión4, sono qualificate come «informali» e di conseguenza come «problema di sicurezza nazionale», in quanto con la loro propensione a promuovere l’auto-organizzazione costituiscono un pericolo per gli Stati Uniti. In alcuni documenti, ora ritirati dalla circolazione, l’attività principale del progetto México Indígena veniva definita come «gestione civile dell’informazione a sostegno di operazioni anti-insurrezionali».
Sul terreno, i promotori di questo progetto praticano quella che chiamano cartografia partecipativa. Con i loro informatori locali prevalentemente indigeni fanno rilevazioni dei terreni cercando di mettere in evidenza in colore rosso «i progressi della proprietà privata della terra». A livello superficiale, la vogliono imporre mentalmente ai loro collaboratori come l’unica forma legittima di possesso. A un livello più profondo, ciò che vogliono imporre è il divorzio fra il territorio e la storia, la geografia e i calendari. Pensiamo invece alla posesión come alla forma storica di possesso della terra. L’organo della posesión è la parte del corpo che serve per sedersi. Possedere è sedersi in un luogo, mettere radici e rispondere, cioè essere presenti, farsi conoscere dai vicini, avviare trattative con loro. La posesión è un atto che intreccia profondamente l’aspetto geografico e quello storico. Sotto il regime della sola proprietà privata, invece, il territorio si riduce a qualcosa che si misura in metri quadrati e si valuta in dollari. La storia diventa allora un ostacolo all’aumento dei prezzi della terra, per cui bisogna dimenticare la storia del territorio e cancellare le sue memorie cominciando dai cippi di confine.
In sintesi: per i dirigenti nordamericani del progetto México Indígena, in Messico ci sono zone che costituiscono un pericolo per la sicurezza del loro paese. Sono le regioni dove ancora prevalgono forme storiche di possesso della terra diverse dalla proprietà privata. Queste forme sono, ad esempio:
- la posesión, che è concreta come l’atto di sedersi (insediarsi) e che è assunzione di responsabilità nei confronti dei vicini;
- l’occupazione, inizialmente illegale, che dopo un certo periodo di tempo può essere ratificata;
- senza dimenticare la renta, una relazione in cui gli inquilini, di generazione in generazione, a volte dimenticano chi sono i proprietari, perché questi a loro volta hanno dimenticato la loro proprietà, come è avvenuto in una parte del quartiere di Tepito.
Un progetto geografico-militare avviato in almeno due stati del Messico, e ora con ramificazioni nell’America Centrale, minaccia di rendere obsoleto, inservibile, il concetto di territorio come l’avremmo voluto applicare, cioè nel senso di un’unione indissociabile fra tempo e spazio, fra calendari e geografie, tra l’ora e il qui, e come luogo di eventi di festa. Il capitalismo distorce le nostre parole e invade progressivamente le nostre lingue. Per creare un punto di paragone con le culture assoggettate da secoli al capitalismo, ho insistito su una caratteristica delle lingue amerindie che non è posseduta dalle lingue europee. Avrei dovuto dire: che non è più posseduta, perché fino all’epoca delle conquiste o invasioni europee, nemmeno nelle lingue europee si era realizzato il divorzio fra lo spazio e il tempo. Nel latino medievale, ad esempio, la parola spatium (spazio) si riferiva sia a un lasso di tempo che a una distanza. Gli appunti preparatori molto significativi che il subcomandante Galeano aveva mandato ai relatori di questo evento parlano, a mio avviso, della necessità di ricuperare l’intima unione del territorio e del divenire storico.
Si può dire che il concetto occidentale del tempo si è ‘spazializzato’, o che si è ucciso il tempo per trasformarlo in una caricatura dello spazio, dove si presume che tutto sia conosciuto in anticipo. È ciò che fanno i pianificatori: uccidono il tempo, e con esso la sorpresa del vero evento. Creano un’autostrada verso il futuro nella quale non lasciano nulla di imprevisto, ad eccezione della prevedibile catastrofe finale. Il nome di questa autostrada verso la catastrofe finale è Progresso. Il progresso è, oggi, l’ultimo modo di esercitare il potere. La politica, oggi, si pratica con ruspe, acciaio e cemento. Sull’orizzonte della scarsità creata, si profila oggi la sabbia. Non c’è nel mondo abbastanza sabbia per alimentare ancora per molto tempo la politica delle «grandi opere inutili e imposte».
II. Tre relazioni esemplificative
Fin qui la sintesi di quello che avrei potuto dire se la scaletta degli interventi fosse stata diversa. Per terminare, ho scelto tre relazioni che hanno affrontato esplicitamente la questione del territorio, o, come mi piacerebbe dire facendo un atto di ribellione alla geografia militare, del terruño. L’esperienza zapatista include una ri-generazione di un territorio che è nello stesso tempo un terruño, un territorio-storia. Le tre relazioni che ho scelto di commentare mi sembrano fare a loro volta da commento o da contrappunto alla territorialità zapatista.
La conquista di Città del Messico da parte delle imprese immobiliari
Jerónimo Díaz ha tratteggiato un panorama storico dei modelli di urbanesimo di ciò che viene impropriamente chiamato Valle de México. Perché “impropriamente”? Perché si tratta di una conca “endorreica”, cioè senza deflusso. Prima che venisse scavato il grande canale di scolo di Città del Messico, inaugurato da Porfirio Díaz nel 1900, le acque del lago si disperdevano per infiltrazione e per evaporazione in quattro diverse parti dell’Altopiano. Ciò significa che più che di lagune si trattava di un piccolo mare interno le cui acque, nelle parti a sud, erano salate. Già nel XIV secolo, gli aztechi avevano costruito un acquedotto che portava acqua dolce dalla foresta di Chapultepec a Città del Messico – Tenochtitlán. Costruirono anche una diga di giunchi, la diga di Netzahualcoyotl, nella parte meridionale del lago di Texcoco, in modo da dividerlo in una parte alta di acqua dolce e in una parte bassa di acqua salata; fra i diversi vantaggi, questa diga permetteva di evitare che la città venisse inondata: in caso di piogge violente, si aprivano alcune chiuse che lasciavano defluire le acque della parte alta verso la parte bassa del lago. Nemici dell’acqua, gli spagnoli non capirono nulla di questa raffinata ecologia idrica e la distrussero sistematicamente, riempiendo le lagune di macerie. Per questo la città coloniale fu soggetta a costanti inondazioni. Dopo la cosiddetta conquista o invasione, l’urbanizzazione coloniale si strutturò intorno ai centri urbani pre-ispanici.
Saltando al XX secolo, possiamo mettere in evidenza una caratteristica molto messicana dei modelli di urbanizzazione: più del 50 per cento (fino al 70 per cento) del coacervo di abitazioni esistenti nella zona metropolitana sono opera della gente stessa. Gli architetti professionisti parlano troppo facilmente di urbanizzazione selvaggia. In realtà siamo di fronte a un urbanesimo popolare estremamente in grado di adattarsi a condizioni mutevoli in situazioni di estrema precarietà. Ciudad Netzahualcoyotl è stata per molto tempo l’esempio di questa capacità e di questa precarietà. Si tratta ora di un’area “normalizzata” dove il prezzo della terra è cresciuto al punto da scacciare i più poveri.
Nel XX secolo, i modelli di “conquista” o di invasione hanno conosciuto un’altra mutazione. Si tratta della “conquista” del territorio da parte delle imprese immobiliari che occupano già 92 chilometri quadrati nell’area metropolitana, con una popolazione di 2,5 milioni di abitanti. Le case offerte da queste imprese sono così scadenti che molte restano vuote (in tutto il paese ci sono dai 4 ai 5 milioni di case non abitate). Bisogna ricordare la “riconquista del centro” di Città del Messico, specialmente a partire dal 2008. Si tratta di una riconquista del centro da parte di gente della classe media e di gente ricca che, “per ragioni di sicurezza”, non esige niente di meno della distruzione dell’economia popolare tradizionale.
Il cosiddetto «Macro-circuito di acqua potabile» dello Stato di Messico è un altro esempio di politiche governative che distruggono le capacità ataviche della gente. Nella zona est dello Stato (Texcoco-Atenco) ci sono comunità con secoli di esperienza nella gestione comunitaria dell’acqua. Il governo dello Stato proibisce loro di continuare ad attingere acqua dai loro pozzi e li vuole obbligare a collegarsi al sistema idrico di Cutzamala, dove l’acqua pompata da Michoacán e Valle de Bravo è l’acqua più cara del mondo in termini di consumo di elettricità.
Jerónimo Díaz ha concluso la sua relazione con un’acuta panoramica dei movimenti di resistenza.
Il mais: una meraviglia botanica che bisogna difendere
Caty Marielle ha riferito che il Messico fa parte dei dodici paesi del mondo che possiedono la maggiore biodiversità. È il luogo di origine del 15 per cento delle piante che nutrono il mondo. Fra queste piante ha un posto di rilievo il mais. Il mais è un’invenzione umana la cui importanza si può paragonare all’invenzione del focolare domestico, il fuoco intorno a cui divenne possibile l’hogar.5 La milpa6 è un prodigio agronomico. La combinazione di mais e fagioli nell’alimentazione (meglio ancora se associata al pulque)7 fornisce tutti gli amminoacidi necessari. La combinazione di queste due piante nella milpa non è meno stupefacente. I batteri nitrificanti del fagiolo concimano la milpa, e il mais giovane fa da sostegno alle piante di fagiolo. C’è una scienza contadina del mais che, a partire dai primi fito-miglioratori (i precursori degli agricoltori), per migliaia di anni ha continuato a migliorare e diversificare il mais originario, il mais nativo. Questa scienza popolare e i suoi frutti sono oggi minacciati con una violenza crescente.
Il Messico è il luogo d’origine del mais, ma le grandi compagnie vogliono negare questa origine. Vogliono invadere tutti i territori con i loro mais ibridi e, oggi, transgenici. Soltanto i territori in mano a contadini, e specialmente a indigeni, hanno potuto resistere a questa contaminazione. I popoli originari, creatori del mais, diventano i suoi ultimi custodi. Il Messico si trova oggi uno stato di massima allerta. Dobbiamo sostenere i custodi del mais nella loro lotta per: non lasciar entrare sementi sconosciute nei loro territori; ripristinare la fertilità dei loro suoli; promuovere l’agro-ecologia e i suoi benefici per la salute e l’alimentazione; stimolare l’organizzazione comunitaria a difesa del territorio.
A difesa della scienza contadina che ci ha dato il mais
Elena Álvarez-Buylla, che appartiene a un gruppo di scienziati impegnati nei confronti della società, ha assunto una posizione audace nei confronti della scienza dominante.
Breve divagazione del sottoscritto (JR): Una delle teste dell’idra capitalista si chiama oggi La Scienza, in inglese Research and Development, che un filosofo sarcastico ha definito anche fundable research, ricerca finanziabile: se una ricerca è finanziabile, ipso facto è scienza, e viceversa. Fine della divagazione.
Quando la compagna Elena Álvarez parla di scienza, non parla di questa scienza mostruosamente finanziata, che per lei non è altro che «una testa dell’idra capitalista travestita da scienziata». Ciò che, a suo avviso, merita il nobile nome di scienza è la scienza contadina, custode da migliaia di anni della co-evoluzione di una cultura con una pianta, della cultura mesoamericana con il mais. Non è una scienza da specialisti per un popolo di consumatori, ma è una scienza portata avanti dalla gente stessa nella sua aspirazione a migliorare quello che la circonda. Questa scienza popolare, fatta dalla gente, ha dato al mondo il mais e tutte le piante consociate con questo prodigio, così come il 15,4 per cento delle piante commestibili.
Nei dipartimenti della ricerca finanziabile che ricevono maggiori finanziamenti si colloca la presunta «scienza transgenica». Attenzione: questa scienza non esiste. Queste parole non fanno che occultare una spoliazione di territori. Per poter organizzare la resistenza a tale spoliazione, bisogna premunirsi nei confronti di tre cose. La prima: il mais transgenico non è semplicemente mais nativo leggermente modificato; no: il mais transgenico è una novità mostruosa i cui pericoli hanno appena cominciato a manifestarsi. La seconda: gli scienziati che accumulano i grandi finanziamenti (gli “scienziati a libro paga”) sono soliti dire che «tutto è sotto controllo»; lo dicono perché li pagano per questo; in realtà, non controllano gli effetti di ciò che fanno. La terza: per lo stesso motivo dicono anche che «gli alimenti transgenici non provocano danni alla salute umana».
Il Messico importa 10 milioni di tonnellate di mais all’anno. Questo mais importato è irrimediabilmente contaminato da transgenici i cui effetti sulla salute cominciano a manifestarsi. Soltanto i popoli originari creatori del mais possono, oggi, essere i custodi dei suoi semi, in un contesto giuridico che criminalizza lo scambio di sementi e la loro conservazione in previsione delle future semine.
Grazie per la vostra attenzione.
1 N.d.t. – Questo e altri interventi di zapatisti possono essere letti e/o ascoltati sul sito di enlace zapatista.
2 N.d.t. – Il termine indica quello che in italiano chiameremmo ‘il suolo natío’, ‘la terra natale’.
3 N.d.t. – Il tema è ampiamente trattato nel libro Weaponizing anthropology, social science in service of the militarized state, di David H. Price (Counter Punch-AK Publications, 2011) ed è regolarmente aggiornato negli articoli su La Jornada dal sociologo Gilberto Lopez y Rivas.
4 N.d.t. – Possesso in base a criteri tradizionali che non trovano posto negli schemi giuridici occidentali.
5 N.d.t. – Il termine hogar indica il focolare, ma anche la casa e la famiglia che in essa vive.
6 N.d.t. – Campo di mais, fagioli e zucche in reciproca simbiosi, secondo il tipico modo di coltivare mesoamericano.
7 N.d.t. – Tipica bevanda messicana, poco più alcoolica della birra, ottenuta facendo fermentare succo di agave.
Architetto svizzero migrato a Cuernavaca, Messico, nel 1972, Jeab Robert è stato tra i più vicini e intensi collaboratori di Ivan Illich, con il quale ha scritto diversi saggi.
Questo articolo è il testo di un intervento preparato per un seminario all’escuelita zapatista (di cui si parla nel quaderno Sussistenza, autonomia, libertà)
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