Il 20 marzo del 2021, in Turchia, sarà probabilmente ricordato come il giorno del salto di qualità nella guerra di Recep Tayyip Erdogan contro le donne e i movimenti femministi del suo Paese. Soltanto nei primi tre mesi del 2021 oltre 70 donne sono state assassinate, il numero sale a 300 se si fa partire il macabro conteggio dal gennaio del 2020. La Turchia era stata tra i primi 11 Paesi a firmare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Il ritiro annunciato dal regime turco, che naturalmente intende colpire anche l’intera comunità LGBTIQ+, è un atto politico abietto e irresponsabile che, tra le altre cose, segna un avanzamento particolarmente odioso nel processo di distacco dagli accordi e i trattati internazionali che proteggono il rispetto dei diritti umani. Sarà certamente condannato dai potenti alleati “democratici” del regime, a parole vuote come sempre. La grande protesta delle donne turche contro l’inevitabile crescita di femminicidi e la tremenda repressione che subirà riceverà invece solenni elogi e puntuale sostegno espresso con parole di circostanza. Parole, come sempre
Cos’è la Convenzione di Istanbul e perché il ritiro unilaterale da parte della stessa Turchia è agghiacciante? La convenzione di Istanbul è “la convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. È stata adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011, aperta alla firma l’11 ed è entrata in vigore dopo le prime 10 ratifiche. La ratifica è arrivata finora da 34 Stati, che ora sono giuridicamente vincolati dalle sue disposizioni.
Nel novembre 2019, il parlamento dell’Unione europea ha adottato una risoluzione, con 500 voti favorevoli, 91 contrari e 50 astensioni, in cui ha invitato, tramite il Consiglio europeo, i sette stati membri che si erano limitati a firmarla senza ratificarla (Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia, e Regno Unito) a farlo senza indugio.
La Convenzione di Istanbul è stata definita come “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”. È incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, la protezione delle vittime e il perseguimento dei trasgressori, si caratterizza così la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani.
Si tratta del primo trattato internazionale che contiene una definizione di genere definendola, nell’articolo 3, come “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”.
Per di più, il trattato stabilisce una serie di delitti, legati alla violenza contro le donne, che gli Stati dovrebbero includere nei loro codici penali: la violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica, la violenza sessuale (compreso lo stupro), il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e i crimini commessi in nome del cosiddetto “onore“.
La Turchia era stata fra i primi undici firmatari originari, insieme all’Austria, la Finlandia, la Germania, la Francia, la Grecia, l’Islanda, il Montenegro, il Portogallo, la Slovacchia, la Svezia e il Lussemburgo. Poi, il 20 marzo, il presidente Recep Tayyp Erdogan ha annunciato lo scandaloso ritiro affermando che le leggi turche sono già sufficienti a garantire la protezione delle donne.
Viene spontaneo chiedersi come commenterebbero quella decisione, se potessero parlare, le sorelle, le madri e le amiche delle 300 donne che sono state uccise in Turchia dell’inizio del 2020, 78 delle solo nei primi tre mesi del 2021.
Di fronte a dati di una simile drammaticità, non possono inoltre non lasciare esterrefatti le dichiarazioni di Sumeyye Erdogan, vicepresidente dell’associazione di donne islamica “Kadem”. La figlia del tiranno turco sostiene che “la Convenzione di Istanbul è stata un’importante iniziativa per combattere la violenza contro le donne. Al punto in cui siamo arrivati, però, ha ormai perso la sua funzione originaria e si è trasformata in una ragione di tensioni sociali. Consideriamo la decisione del ritiro come una conseguenza di queste tensioni”. Ci vuole davvero molto coraggio a dire cose del genere in un paese in cui, secondo i dati raccolti dall’OMS e certo conosciuti dalla Erdogan, il 38 per cento delle donne è stata o è vittima di violenza.
Non si tratta, naturalmente, di un fulmine a ciel sereno: la politica di Erdogan non è mai stata certo illuminata sulle tematiche di genere prima di questo nuovo atto irresponsabile. Basti pensare alle sue dichiarazioni del 2012 sull’aborto: “Uccidi un bambino nel grembo materno o lo uccidi dopo la nascita. In molti casi, non c’è differenza“. Oppure al suo intervento al vertice “Donne e giustizia” di Istanbul della “Women and Democracy Association” del 2014: “La nostra religione, [parlava dell’Islam] ha definito una posizione per le donne: la maternità. Non si può spiegare ciò alle femministe perché non accettano il concetto di maternità […]. Non si possono portare le donne e gli uomini in posizioni uguali, è contro la natura perché la loro natura è diversa”.
Non va certo taciuto, poi, il fatto che Erdogan ha giustificato il ritiro dalla convenzione accusandola di essere solo “il tentativo di un gruppo di persone di normalizzare l’omosessualità, cosa incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia”. Non poteva mancare un violento attacco all’intera comunità LGBTIQ+, da sempre al centro della politica discriminatoria del regime turco. Già il 17 giugno del 2016 il governo di Ankara decise di non autorizzare il Gay Pride di Istanbul, “per salvaguardare l’ordine pubblico”, anche in seguito alla pressione mediatica di gruppi islamisti e ultranazionalisti, zoccolo duro dell’elettorato di Erdogan. La polizia intervenne poi con proiettili di gomma e lacrimogeni cusando decine di feriti quando, il 19 giugno, gli organizzatori dell’evento hanno deciso di manifestare comunque.
Ad Ankara, Istanbul e Smirne migliaia di persone sono scese in piazza chiedendo al governo di ritrattare una decisione tanto abietta.
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