Nei mesi del primo lockdown la scuola italiana ha perso oltre un milione di bambini e ragazzi, lasciati completamente isolati. Non possiamo permetterci nuove forme di apartheid educativa e dunque occuparsi in modo intelligente e creativo degli spazi da abitare diventa una necessità per questi mesi tormentati e per il futuro della scuola. Da questa traccia nasce un articolo straordinario di Franco Lorenzoni: se lo spazio è qualcosa di molto concreto che influenza le relazioni reciproche allora abbiamo bisogno di trovare altri spazi liberi, magari all’aperto, come alcune maestre e maestri hanno cominciato a fare. Uno spazio fondamentale lo offre la natura: “Per esperienza so che è molto diverso se bambini e bambine parlano seduti sotto un albero o seduti dietro i banchi in aula oppure a terra”. Lorenzoni ricerca le tracce lasciate su questo tema da Mario Lodi, Emma Castelnuovo, don Milani e invita a ripensare il modo di fare scuola: la geografia, ad esempio, dovrebbe essere prima di tutto esplorazione dello spazio e dunque uscita dalla scuola e osservazione di ciò che c’è intorno e disegno e realizzazione di mappe; la storia raccolta di documenti da rendere vivi con comparazioni e discussioni; la letteratura dovrebbe poter proporre intrecci tra parola scritta e parola detta, animandosi di letture ad alta voce e tanto teatro. “La scuola ha un bisogno vitale di spazi da cercare dentro e fuori dalle sue mura perché ha bisogno di far vivere in quegli spazi l’ascolto reciproco, il dialogo e tutte le forme oggi possibili di partecipazione. Ha anche bisogno di collaborazioni inedite perché da sola non ce la fa, quando agisce nel deserto culturale di troppi nostri quartieri e zone interne. Occorre costruire legami generativi con le amministrazioni locali, le Asl, le associazioni di volontariato e del terzo settore, cominciando a tenere le scuole aperte tutto il giorno per ospitare molteplici attività di educazione formale e non formale…”
Duemilasettecento anni fa un gruppo di navigatori migranti provenienti dalla Grecia sbarcarono in Sicilia e fondarono Mégara Iblea, vicino a Selinunte. Nel progettare la nuova città fecero una scelta rivoluzionaria che ancora adesso ci stupisce. Scelsero infatti di non edificare al centro la costruzione più visibile e notevole da dedicare al culto degli dei o al potere di un uomo. Nel luogo centrale di quella che chiamavano polis decisero di non costruire nulla, e quello spazio pubblico vuoto, posto al centro della città, è probabilmente il più lontano antenato della democrazia, perché era uno spazio libero dedicato all’incontro, agli scambi, alle parole.
Jean-Pierre Vernant racconta questa storia in una conferenza rivolta a un gruppo di architetti sottolineando che
“a un certo punto, nella storia dell’umanità, l’elemento politico è venuto a coincidere con il carattere intellettuale ed estetico del lavoro dell’architetto”.
È interessante tornare a quell’origine lontana per dire che lo spazio è qualcosa di molto concreto che influenza le relazioni reciproche. Se in un quartiere viene progettata una piazza cambia qualcosa, così come se al posto i una fabbrica dismessa si inaugura un parco. È molto importante imparare a guardare e ad accorgersi dell’importanza degli spazi che mutano perché noi insegnanti, dobbiamo ammetterlo, siamo un po’ analfabeti riguardo allo spazio. Non lo studiamo a sufficienza e lo esploriamo troppo poco. Eppure, in questo momento, abbiamo bisogno di scatenare la nostra immaginazione riguardo allo spazio.
Per un distanziamento socievole
Per mesi abbiamo tollerato che per indicare il distanziamento fisico necessario si utilizzasse l’inquietante espressione di “distanziamento sociale”. Ma la scuola è per costituzione il primo luogo che deve garantire il massimo avvicinamento sociale e trovo meravigliosa l’espressione che si poteva leggere qualche settimana fa all’ingresso di un nido, dove una maestra ha scritto:
“Qui si pratica un distanziamento socievole”.
Certo, ora è necessario mantenere un certo distanziamento fisco per ridurre il contagio, ma credo sia importante intrecciarlo con un uso intelligente della mascherina, in modo da permettere a bambine e bambini e lavorare insieme e a noi di stargli vicini e seguirli nel lavoro. Non è immaginabile, infatti, una scuola in cui si stia tutti sempre a un metro di distanza. Pensiamo ai più fragili, ai tanti che soffrono di disturbi del comportamento e hanno difficoltà nello stare fermi: una logica centrata esclusivamente sulla sicurezza rischia di penalizzarli grandemente e additare alcuni loro comportamenti come pericolo pubblico.
Noi non possiamo tollerare che vengano emarginati e allontanati dalla classe. La scommessa, come sempre quando siamo di fronte a delle disabilità, sta nel sapere cambiare il contesto con grande creatività. Un bambino iperattivo, se sta all’aperto ed esplora un parco, un giardino o semplicemente un quartiere della sua città, sarà probabilmente tra i più bravi a trovare le strade o i sentieri giusti. Gli altri potranno riconoscere in lui una qualità e capacità di movimento che, dentro lo spazio chiuso della classe, rischia di essere vista solo come un difetto o fonte di disturbo.
In questi mesi di pandemia e clausura domestica la scuola italiana ha perso oltre un milione di bambini e ragazzi, lasciati completamente isolati. Non possiamo permetterci nuove forme di apartheid educativa e dunque occuparsi in modo intelligente e creativo degli spazi da abitare diventa una necessità.
L’anno scolastico appena iniziato ha visto tutte e tutti gli insegnanti alle prese con i metri e il calcolo delle distanze reciproche è divenuto misura del rischio di contagio. Dirigenti scolastici, insegnanti e genitori sono giustamente preoccupati. Non è facile fare una scuola sensata in ambienti ristretti, chiusi, in cui lo spazio appare congelato. E allora partiamo da quella immagine potente offerta dalla storia di Megara Iblea: uno spazio vuoto che si riempie di persone che hanno qualcosa da scambiarsi, da dirsi. Molte pratiche didattiche innovative partono già da spazi analoghi. In diverse scuole si comincia la giornata in spazi liberi e le scuole hanno estremo bisogno di luoghi completamente vuoti.
Un’isola pedonale attorno a ogni scuola
Se in un istituto scolastico, a causa della pandemia, siamo costretti a occupare tutte le aule a disposizione, dobbiamo essere capaci di trovare altri spazi liberi, magari all’aperto. In questo momento dovremmo portare avanti una battaglia che credo fondamentale: creare intorno a tutte le scuole delle isole pedonali fruibili da bambini e ragazzi. Mi piacerebbe che tantissime scuole cominciassero a caratterizzarsi, a partire da quest’anno così particolare, come edifici dai quali si può uscire spesso in una porzione di città che deve poter essere dedicata ad attività educative e didattiche.
Abbiamo bisogno di luoghi liberi dal dominio delle automobili intorno alle scuole e lo shock della pandemia potrebbe finalmente indurci a immaginare soluzioni che non abbiamo mai osato progettare finora. Certo, è difficile farlo in ogni quartiere e comune, ma è una battaglia importante da cominciare ed estendere quanto prima.
Un secondo spazio fondamentale da non dimenticare ce lo offre la natura, perché frequentarla è sempre di grande nutrimento per bambine e bambini perché ogni elemento naturale contiene l’infinito. Una volta Noemi, in terza elementare, dopo una passeggiata dedicata a osservare e disegnare l’orizzonte e il paesaggio, ci propose un’intuizione molto interessante:
“Tutto quello che è dritto lo ha fatto l’uomo, tutto quello che ha curve ed è storto lo ha fatto la natura”.
Aveva notato che le linee rette sono presenti unicamente nelle costruzioni umane, mentre tutto ciò che è naturale non le conosce, a parte l’orizzonte che si vede al mare e gli impalpabili raggi di luce. La natura è insomma uno spazio di per sé generativo e bambine e bambini hanno estremo bisogno di essere immersi il più possibile in luoghi naturali per crescere e apprendere. Basta anche solo un albero in un cortile perché all’immaginazione dei bambini venga offerto uno sguardo sul reale diverso e più ricco. Un’altra azione e rivendicazione urgente è dunque quella di piantare più alberi possibili intorno a tutte le scuole, anche alberi da frutta. Sarebbe bello intuire la presenza di una scuola da qualche forma di verde che s’infittisce nella città, a indicare che lì stanno crescendo ed esplorando il mondo bambine e bambini.
Un terzo spazio da considerare è lo spazio pensato. Maria Montessori ha costruito tutta la sua rivoluzione pedagogica attorno a spazi capaci di far dire ai più piccoli: “Aiutami a fare da solo”. Da quest’orientamento è nata l’idea di uno spazio strutturato a misura di bambine e bambini, con scaffali e materiali alla loro altezza. Uno spazio nel quale ci si può organizzare in autonomia, manipolare, scegliere in libertà cosa fare. In buona parte delle scuole montessoriane le diverse attività proposte nella prima infanzia non sono legate a quante insegnanti sono presenti, ma al numero di bambini e bambine che abitano li classi perché l’idea è quella di organizzare lo spazio come contesto in cui si può sviluppare al massimo la libera creatività di ciascuno (leggi anche Per cominciare offriamogli il mondo).
In un ricordo assai significativo di Mario Lodi, Tullio De Mauro racconta lo spazio della classe del maestro di Piadena:
«La lezione più incisiva viene dal rendiconto del suo fare scuola: Mario che entra il suo primo giorno di scuola in una prima elementare (…) e propone di servirsi della cattedra come una eccellente stia entro cui allevare i pulcini; il signor maestro resta senza protezione della cattedra, scende tra i banchi, invita a metterli in cerchio, siede in un punto qualunque e comincia a parlare: questo vale parecchi volumi di pedagogia teorica…».
Il maestro non sta davanti, non ostacola con la sua presenza la vista del bambino, ma sta dietro inginocchiato, si pone al suo livello. In questo momento è certo più difficile questa postura, ma resta un punto di riferimento fondamentale che ci aiuta a immaginare soluzioni diverse anche in un tempo così difficile come questo.
Le mani sono più democratiche della testa
Altri modo di utilizzare lo spazio come luogo di apprendimento lo suggeriscono le intuizioni di Emma Castelnuovo, la più grande innovatrice di didattica della matematica del dopoguerra, che proponeva un incontro con la geometria partendo da osservazioni sistematiche e inusuali dello spazio, a cominciare dall’aula e passando per numerosi strumenti da manipolare per comprendere figure geometriche in movimento. Costruire figure capaci di muoversi con elastici, spaghi, legni o con i listelli bucati del meccano offre alla vista una gran quantità di stimoli. La costruzione della conoscenza può partire così dalle mani, che ci aiutano ad avvicinare anche i problemi matematici più astratti. Emma soleva dire che “le mani sono più democratiche della testa”, sostenendo che manipolando e mettendo in movimento le figure possiamo giungere a sorprendenti intuizioni e arrivare a formulare interessanti ragionamenti per assurdo, visualizzando diversi “casi limite”. Si apre inoltre la possibilità di avvicinare i modi di ragionare di compagne e compagni e arrivare a elaborare ipotesi, confrontarsi e costruire insieme conoscenza. Mani e corpi in movimento invitano infatti a una collaborazione fattiva.
Sull’importanza di differenziare gli spazi per favorire inclusione e apprendimento c’è un racconto illuminante di Chandra Livia Candiani, poeta e promotrice di laboratori di poesia nelle scuole delle periferie multietniche di Milano:
“La sequenza è questa: entro in classe e facciamo un cerchio di sedie o ancora meglio noi seduti a terra. Una volta, una maestra ha unito i banchi, non solo le sedie, e ha fatto un rettangolo: i bambini hanno scritto in prosa. Le ho chiesto di levare i banchi e anche se le sono sembrata astrusa, alla fine pure lei è rimasta sbalordita da come forma chiama forma e dalle prose sono uscite delle poesie”.
Per esperienza so che è molto diverso se bambini e bambine parlano seduti sotto un albero o seduti dietro i banchi in aula oppure a terra. Ogni spazio muta il modo di relazionarsi e, soprattutto, ostacola o favorisce l’attenzione. Ora, dal momento che l’attenzione reciproca è il cuore di qualsiasi relazione educativa sensata, accade che chiunque prenda parola in uno spazio pensato e apparecchiato con cura per l’occasione, tenderà ad avere maggiore cura delle parole e ad articolare meglio il suo discorso, quando sa di essere ascoltato. Creare una condizione di ascolto reciproco attento è frutto di un lavoro lungo che può durare anni, ma è fondamentale per dare davvero dignità a tutti. Riguarda all’ascolto che siamo capaci di dare ai singoli c’è bisogno di grande attenzione ai dettagli, perché i bambini hanno molti modi diversi di esprimersi e comunicare e più ne esploriamo più saremo realmente inclusivi.
L’affinamento dell’ascolto è fondamentale e può essere molto aiutato dalla restituzione in classe di ciò che viene condiviso. Per questo dobbiamo scrivere, raccontare e analizzare quello che dicono i bambini e le bambine per dargli valore. Questo affinamento dell’ascolto reciproco dipende anche dallo spazio, che abbiamo visto quanto possa facilitare od ostacolare i processi che portano alla costruzione di una comunità.
Il maestro e l’architetto
Quando don Lorenzo Milani si apprestava a pubblicare Lettera a una professoressa, negli ultimi mesi della sua vita, chiese di scrivere la prefazione a Giovanni Michelucci, architetto noto per aver progettato la stazione di Firenze e la chiesa dell’autostrada. Pensò a lui non solo perché era suo amico, ma perché riteneva che la scrittura collettiva somigliava al lavoro di una costruzione concepito da un architetto, che sa che nessun progetto può divenire realtà senza i tanti mestieri necessari al costruire. Nella costruzione di un edificio ciascuno ha un suo ruolo indispensabile: chi dà forma a un’idea, chi disegna il vuoto immaginando un arco, chi calcola gli equilibri e chi costruisce mettendo uno sull’altro mattone dopo mattone, perché ogni costruzione è opera collettiva.
Alla fine il Priore di Barbiana pensò che era meglio non aggiungere nessuna prefazione al testo scritto con i ragazzi. Purtroppo lo scritto di Michelucci è andata perso, anche se quell’aggancio in orbita tra il mestiere dell’architetto e quello dell’educatore ha forse ancora tanto da dirci. L’architettura, infatti, cos’altro è se non capacità di immaginare spazi e proporre modi di abitare e di incontrarsi?
Una scuola piazza dove non c’è piazza
Antonella Di Bartolo, dirigente scolastica dell’Istituto Comprensivo che si trova allo Sperone, un quartiere difficile di Palermo, racconta come tutto ciò che nella scuola si cerca di costruire al mattino c’è il rischio il quartiere lo disfi al pomeriggio e alla sera. Per questo è importante l’impegno di tanti nel dare vita a patti educativi di comunità capaci di prolungare il tempo educativo e sostenere l’azione della scuola intrecciando educazione formale e informale, in modo da offrire a ragazze e ragazzi la possibilità di partecipare a proposte educative diverse. Solo così la scuola potrà essere generativa di trasformazioni che riguardano la città e l’intera comunità.
A Brno, nella Repubblica Ceca, c’è una scuola che si richiama ai principi di insegnamento di John Dewey che si è data il bel nome di Labyrinth School. L’uso articolato dei suoi spazi è raccontato nel libro Fare didattica in spazi flessibili di Leonardo Tosi, ricercatore dell’Indire. Mi piacerebbe abitare scuole che somigliano a labirinti, perché capaci di utilizzare in modo creativo tutti gli spazi per le attività più diverse. Uno dei motivi per cui nei ragazzi il desiderio di studio troppo spesso si affievolisce negli anni è perché tutto si assomiglia troppo. Studiano storia, scienze, letteratura o arte e troppo spesso si trovano ad ascoltare lezioni o leggere testi cercando di immagazzinare informazioni in attesa di una interrogazione o verifica che certifichi quanto siano riusciti a memorizzare. Se la didattica si riduce a questo è chiaro che nel solo triangolo dell’ascoltare, memorizzare e ripetere è facile che prevalga una noia mortale.
La geografia, infatti, dovrebbe essere prima di tutto esplorazione dello spazio e dunque uscita dalla scuola e osservazione di ciò che c’è intorno e disegno e realizzazione di mappe. La storia raccolta di documenti da rendere vivi con comparazioni, discussioni e confronti tra punti di vista diversi. La letteratura dovrebbe poter proporre intrecci tra parola scritta e parola detta, animandosi di letture ad alta voce e tanto teatro, così come la musica dovrebbe vivere innanzitutto nel suonare e cantare in gruppo.
Le due sfide del futuro
Due temi accompagneranno e condizioneranno il nostro vivere nei prossimi decenni: la conversione ecologica, resa necessaria e indifferibile dal surriscaldamento globale, e la capacità di sviluppare un’arte e una cultura della convivenza all’altezza delle sfide che ci attendono, perché le migrazioni trasformeranno radicalmente il paesaggio umano dell’Italia e dell’Europa.
Nessuna di queste questioni può essere affrontata contando sui saperi di una sola disciplina ed è dunque necessario un cambio di paradigma che ci renda capaci di affrontare la complessità, costruendo saperi capaci di articolarsi e approfondire le questioni intrecciando diverse discipline. La scuola, per realizzare tutto ciò, deve essere sempre più luogo di costruzione culturale superando la sola trasmissione di conoscenze. Ma una costruzione che coinvolga tutti deve riuscire a valorizzare gli apporti e il punto di vista di ciascuno.
Se ad esempio guardiamo a lungo la riproduzione di un affresco di Giotto, lo ridisegniamo, lo drammatizziamo, lo osserviamo inventando storie provando a entrare in quell’opera utilizzando tanti linguaggi diversi, offriamo la possibilità a ciascuno di trovare la sua porta di ingresso. E, se ci diamo il tempo necessario per ascoltare il punto di vista di tutte le bambine e bambini, certamente capiremo qualcosa in più di Giotto e, al tempo stesso, Giotto ci aiuterà a scoprire qualcosa di più di noi stessi e delle nostre compagne e compagni di osservazione. Raccontandoci le nostre visione e versioni avremo la possibilità di mostrarci agli altri raccontando qualcosa di noi. Questo è il grande gioco che ravviva in continuazione l’apprendimento: scoprire il mondo scoprendo contemporaneamente qualcosa di noi stessi. Se lo facciamo in gruppo, abbiamo la straordinaria opportunità di arricchirci degli sguardi diversi degli altri.
Insieme ai bambini e ai ragazzi ci dobbiamo rendere conto sempre più che tutto ciò che accade anche in spazi lontani condiziona la nostra vita. Pensiamo ancora al tema del surriscaldamento globale: lo possiamo affrontare solo se prendiamo sul serio quanto ha detto Greta Thunberg seduta sulla scalinata del parlamento di Stoccolma: “Io non vado a scuola per studiare conoscenze scientifiche che poi per voi non valgono niente”. In questo modo, a quindici anni, ha denunciato con radicalità l’ipocrisia del potere e di tanti noi adulti che magari ci diciamo d’accordo a parole ma poi non compiamo scelte coerenti di cambiamento per far sì che le cose vadano meglio.
Per questo credo sia necessario inaugurare un decennio dedicato alla cura: cura delle relazioni reciproche, cura dei territori, cura degli spazi pubblici delle città.
Questo bisogno di cura parte dalla consapevolezza che vadano riviste molte priorità. Alexander Langer già trent’anni fa parlava di conversione ecologica come orizzonte complesso da considerare e a cui prepararci e disporci con persuasione. La conversione infatti non riguarda solo l’agricoltura, l’industria e il nostro abitare le città, ma prima di tutto il nostro modo di stare nel mondo. Oggi l’educazione ecologica non può prescindere da un’attenzione agli spazi e questa attenzione si non può che fondarsi sull’accorgerci che viviamo tutti nello stesso pianeta, nella stessa casa, e che questa casa sta bruciando.
Per la prima volta la salute ha prevalso sull’economia
Nelle settimane di clausura domestica della scorsa primavera, per la prima volta da quando il modo di produzione e accumulazione capitalista è penetrato in ogni angolo della terra, per qualche settimana l’economia è stata messa in secondo piano dalle urgenti necessità della salute pubblica. Un piccolo spiraglio si è aperto e ci ha mostrato che, per sopravvivere in quasi otto miliardi di persone sull’unico pianeta che abbiamo, siamo costretti a ripensare a una scala dei valori e a comportamenti pubblici e privati che ci stanno portando alla catastrofe.
Se questo è vero è evidente che alla scuola e noi insegnanti si apra una prospettiva di compiti enormi da praticare e introno a cui ricercare. Se non ci lasciamo spaventare, dobbiamo ammettere che si apre una prospettiva affascinante per bambine e bambini, ragazze e ragazzi e per noi tutti, perché dobbiamo sperimentare quelli che a me piace chiamare “curricoli dell’incertezza”, curricoli capaci cioè di portare nella ricerca e nello studio il paradigma della complessità, perché dobbiamo imparare tutte e tutti cose che ancora nessuno sa, immaginando un mondo da ripensare a fondo, come da decenni auspica l’approccio ecologico e sistemico alla conoscenza.
Questo straordinario compito di realtà va affrontato con determinazione e insieme con umiltà perché viviamo nell’incertezza e dobbiamo costruire la strada camminando.
La scuola ha un bisogno vitale di spazi da cercare dentro e fuori dalle sue mura perché ha bisogno di far vivere in quegli spazi l’ascolto reciproco, il dialogo e tutte le forme oggi possibili di partecipazione. Ha anche bisogno di collaborazioni inedite perché da sola non ce la fa, quando agisce nel deserto culturale di troppi nostri quartieri e zone interne. Occorre costruire legami generativi con le amministrazioni locali, le Asl, le associazioni di volontariato sociale e del terzo settore, cominciando a tenere le scuole aperte tutto il giorno per ospitare molteplici attività di educazione formale e non formale.
Non è facile, ma dobbiamo metterci tutto il nostro impegno a partire dai luoghi in cui c’è più bisogno di istruzione, cultura e partecipazione democratica.