Ma siamo proprio certi che la via della delega alle istituzioni per rispondere ai nostri bisogni di sicurezza e giustizia sia la migliore o comunque la sola possibile? L’esplosione della protesta contro il razzismo istituzionale seguita all’assassinio di George Floyd a Minneapolis ha riaperto con forza la discussione sulla polizia e le carceri nei movimenti degli Stati Uniti. Questa intervista a Gwenola Ricordeau, femminista, docente di giustizia penale in California e autrice del libro “Pour elles toutes. Femmes contre la prison”, presenta un punto di vista che offre molti e diversi spunti di riflessione, a partire dal netto rifiuto dell’uso strumentale delle donne per giustificare l’escalation di politiche punitive. Veniamo da decenni di inasprimento delle politiche penali contro la violenza sessuale, dice Ricordeau riferendosi alla situazione in Francia, il risultato sono 94 mila donne adulte ogni anno vittime di stupro o di tentativo di stupro. Il fallimento è evidente. La giustizia penale indica e condanna un colpevole, in modo prettamente “ritorsivo”, ma esistono davvero altre possibilità? Sì, per esempio tra molti e diversi popoli indigeni dell’América che chiamiamo latina, dove si mette maggiormente in gioco la “responsabilità comunitaria” e i procedimenti mirano proprio a “trasformare” la comunità. Ricordeau si rifà, per esempio,al concetto di giustizia “trasformativa” partendo dalle necessità della vittima – sicurezza, verità – per affrontare l’aggressore e lavorare perché sia implicato in un processo individuale e collettivo di riparazione e trasformazione che contribuisce a cambiamenti collettivi di valori e modi di agire. Certo, non sono trasformazioni praticabili dall’oggi al domani ma, se quel che conosciamo non funziona e meno ancora ci piace, potrebbe essere arrivato il momento di ragionarci un po’ su
Abolire le carceri, la polizia e anche il sistema penale: l’idea viene discussa dai movimenti di emancipazione. Ma in questo caso, come rendere giustizia o proteggere le donne dalle aggressioni sessuali? Intervista con Gwenola Ricordeau, sociologa, professoressa di giustizia penale in California e autrice del libro “Pour elles toutes. Femmes contre la prison”-
Sei femminista e vuoi abolire il carcere, il luogo dove si rinchiudono gli aggressori. Sono posizioni difficili da conciliare?
Sono più che «conciliabili». Il mio lavoro offre un’analisi femminista del sistema penale e di ciò che fa alle donne. Questo ci permette diverse osservazioni. In primo luogo, la maggioranza dei detenuti sono uomini, però la vita delle donne che li circondano, madre, sorella, compagna, figlia, è sempre influenzata da quest’incarceramento, specie attraverso tutte le forme di lavoro domestico che ci si aspetta da loro, incluso l’appoggio morale con visite, lettere, eccetera. Inoltre, se guardiamo chi sono le donne che sono in prigione, notiamo molte caratteristiche comuni anche ai detenuti uomini: sono in gran parte di origini popolari e provengono dalla storia di colonizzazione e migrazione. Però hanno ovviamente le loro particolarità. Un’ampia parte di loro è stata vittima di una violenza sessuale che ne ha modellato il corso della vita, l’isolamento sociale o i reati.
E se si osserva la protezione che le donne possono aspettarsi dal sistema penale, si vede solo un palese fallimento. La sfida del mio libro è quindi mettere in discussione le maggiori correnti femministe che pretendono di fare affidamento sul sistema penale per esigere più condanne e sentenze più dure per gli uomini responsabili di violenza sessuale.
In che modo le politiche sulla criminalità contro la violenza sessuale rappresentano un fallimento?
Veniamo da decenni di inasprimento delle politiche penali contro la violenza sessuale per arrivare a 94.000 donne adulte che dichiarano, ogni anno, di essere state vittima di stupro o tentativo di stupro [in Francia]. Più di 550.000 vittime di aggressione sessuale ogni anno! Io lo chiamo un fallimento evidente. Non so come qualcuno possa ancora provare a farci credere che questo tipo di politica possa mai funzionare.
A questo si somma il disastro in cui si trova la maggioranza delle vittime, dalla presentazione di una denuncia fino all’eventuale processo. Ciò che la detenzione di certi colpevoli di violenza sessuale permette oggi è solo la garanzia che non commetteranno aggressioni durante la condanna, ma questo non tiene conto della violenza sessuale commessa in carcere e dà la sensazione che non tutti i delitti restino impuniti. A mio avviso, è una consolazione molto magra in confronto alla dimensione di massa del crimine di violenza sessuale.
Ma è possibile la giustizia fuori dal sistema penale?
La “giustizia” o il “sistema penale” è il sistema che si suppone debba “impartire giustizia” quando si commettono crimini o violazioni della legge. La polizia e il carcere sono parte di questo sistema. A partire da qui possiamo fare diverse osservazioni. Prima di tutto, la giustizia non è sempre giusta. In base all’origine sociale, etnica o del genere, i rischi di essere processati, condannati o arrestati non sono gli stessi. Neanche le vittime sono uguali nel sistema di giustizia penale: a seconda dell’aggressore e delle sue caratteristiche, non tutte le vittime hanno le stesse possibilità di ottenere una condanna.
Va ricordato che il sistema penale conosce solo una piccola parte dei comportamenti problematici e delle trasgressioni sociali. Per due motivi. Primo, per definizione, il sistema di giustizia è interessato solamente ai fatti che vengono definiti “violazioni della legge” o “reati”. In secondo luogo, spesso scegliamo di non coinvolgere il sistema giudiziario penale nelle nostre dispute o quando ci viene fatto del male.
La giustizia impartita dal sistema penale è essenzialmente punitiva e retributiva, nel senso che si basa sull’identificazione del colpevole e sul pronunciamento di una sentenza che rappresenterà una forma di “compenso” al male subito dalla vittima. Ma esistono altre concezioni di giustizia, in particolare non punitive, una giustizia “riparativa” o una “trasformativa“.
Su che principi si basano?
La giustizia riparativa si basa sul rimediare piuttosto che castigare, anche la giustizia trasformativa si oppone alle strategie punitive. Considera che esistono responsabilità individuali ma anche condizioni sociali che permettono di commettere determinate azioni. Le pratiche di giustizia trasformativa che si sono sviluppate in Nord America a partire dall’anno 2000 partono da una critica della giustizia così come è imposta dal sistema penale. Inizialmente furono concepite e sperimentate all’interno di comunità, di circoli statunitensi radicali che di fatto non potevano aspettarsi «giustizia» dal sistema penale.
Di conseguenza è tra le minoranze etniche e le comunità queer che si sono sviluppate queste pratiche, in particolare in risposta alla necessità di giustizia riguardo la violenza contro le donne. Sono pratiche comunitarie, cioè le persone coinvolte dipendono dalle situazioni in esame. Significa anche che la “responsabilità comunitaria” è centrale e che i procedimenti mirano a “trasformare” la comunità. La giustizia penale indica e condanna un colpevole, la giustizia trasformativa partendo dalle necessità della vittima – sicurezza, verità – affronta l’aggressore e lavora perché sia implicato in un processo individuale e collettivo di riparazione e trasformazione. E contribuisce a cambiamenti collettivi di valori e modi di agire.
Nel tuo libro parli di “populismo penale”, che cosa significa?
L’espressione «populismo penale» è stata usata dagli inizi del 2000 nel mondo anglofono. Indica il modo in cui le politiche penali, basate sull’aumento dei movimenti di vittime e di sentimenti reazionari, utilizzano la necessità di sicurezza della popolazione per giustificare politiche sempre più repressive che non hanno un reale effetto sul numero di crimini e delitti.
Analizzando le politiche penali, si osserva che negli ultimi decenni, in Francia come nella maggioranza dei paesi occidentali, le donne sono state usate per giustificare politiche sempre più punitive. La causa della donna si usa come pretesto per creare nuove categorie di reati e delitti, per l’allungamento delle pene, ma anche per innovazioni penali come il braccialetto elettronico o campioni sistematici di DNA. Le politiche penali in materia di violenza sessuale, violenza domestica o prostituzione intesa come “schiavitù sessuale” hanno la pretesa di “salvare” le donne processando certi uomini. Riassumendo, non dovremmo accontentarci di guardare ciò che le politiche penali fanno intendere di fare -proteggere le donne- ma dovremmo analizzare quali effetti hanno sulle donne e sulla violenza contro le donne in particolare.
Pensi che una parte del femminismo abbia perso interesse per il destino delle donne detenute o che hanno una persona cara in carcere?
Il femminismo dominante raramente ricorda le donne che sono in carcere. Eppure anche le detenute affrontano il patriarcato e questo influisce nelle loro vite in molti modi. Molte donne detenute sono state vittime di violenza sessuale; solo questo dovrebbe bastare per richiamare l’attenzione delle correnti femministe. Il patriarcato, per le detenute, è anche non essere uomini separati dai propri figli perché in carcere o per specifiche sentenze giudiziarie. Sono molto più accusate le donne in carcere di essere «pessime madri» che i detenuti di essere «cattivi padri». In carcere è diverso anche il trattamento di uomini e donne, il che rientra in una minore offerta formativa o lavorativa per le donne, o una sessualità più controllata rispetto agli uomini. Dovremmo parlare anche della salute sessuale e riproduttiva delle donne in carcere, delle indegne condizioni di detenzione delle donne trans nelle carceri maschili.
Il carcere non capita a chiunque. Le donne incarcerate e quelle che hanno familiari detenuti non sono «chiunque». In alcuni ambienti la detenzione di qualcuno che amiamo è un’esperienza relativamente comune. Ignorando le donne detenute e quelle che hanno familiari in carcere, certe correnti femministe mostrano le origini sociali delle donne che ne fanno parte e la forma di emancipazione a cui aspirano. Al contrario, movimenti che si definiscono femminismo popolare, pensati dalle e per le donne razzializzate, come l’afrofemminismo, riflettono e implementano una sorellanza che non si ferma dietro le porte delle carceri.
Pensi che i movimenti abolizionisti del carcere non considerino abbastanza il tema della violenza sessuale e contro le donne?
Questi movimenti sono molteplici, specialmente in termini di strategie e di espressioni politiche. Ad esempio negli Stati Uniti ci sono movimenti di donne abolizioniste vittime di violenza, come l’organizzazione Survived and Punished di New York. Sono abolizioniste esattamente perché hanno subito quel tipo di violenza, perché hanno vissuto sulla loro pelle il sistema penale con la sua impostazione punitiva, e perché credono in altri tipi di approcci, sia per sopravvivere che per finirla con questa violenza. In Francia i movimenti abolizionisti sono stati a lungo insensibili alle lotte femministe, in particolare al tema della violenza contro le donne. Penso che questo stia cambiando man mano che sempre più femministe si interessano alle analisi femministe del sistema penale e agli approcci abolizionisti. Il collettivo afrofemminista Mwasi ha una linea abolizionista fin dalla nascita.
Qual è la differenza tra abolizionismo penitenziario e abolizionismo penale?
L’espressione “abolizionismo penale” designa correnti di pensiero e movimenti che, dagli anni ’70, hanno avuto come obiettivo l’abolizione del sistema penale e quindi delle sue principali istituzioni, ovvero le carceri, i tribunali e la polizia. Le lotte contro il carcere sono quindi parte dell’abolizionismo penale. Da parte mia, mi riferisco all’abolizionismo penale più che all’abolizionismo penitenziario. Condivido alcune analisi che mostrano che il carcere potrebbe scomparire per molte ragioni: da un punto di vista capitalista non è redditizio e potrebbe essere sostituito con l’uso di tecnologia di vigilanza che non comprometta l’ordine sociale. Mirare al sistema penale nel suo insieme invece che solamente al carcere mette in luce una posizione politica essenzialmente rivoluzionaria che attacca il capitalismo e il suprematismo bianco.
I movimenti per abolire la polizia stanno riacquistando slancio negli Stati Uniti, rafforzati dalle proteste contro la violenza delle forze dell’ordine. È un fenomeno nuovo o si trova invece in diretta continuità con le richieste di abolire il carcere?
Come ho già accennato l’abolizionismo penale ha come obiettivo abolire il sistema penale per intero, il carcere quanto la polizia. Per ragioni strategiche alcuni movimenti scelgono di focalizzarsi più specificamente su una sola istituzione, che sia la polizia, il carcere… ma la prospettiva politica è identica. Le lotte contro il carcere spesso sono state l’aspetto più noto dell’abolizionismo penale. Oggi l’idea di abolire la polizia si sta estendendo ben oltre i circoli abolizionisti. Dalla metà dei primi anni 2000, sulla scia di Black Lives Matter è emersa una distinzione sempre più netta tra i movimenti che lottano «contro la violenza della polizia» e quelli che lottano «per abolire la polizia».
Qui le lotte antirazziste giocano un ruolo centrale?
Negli Stati Uniti le lotte abolizioniste sono chiaramente schierate come lotte contro la supremazia bianca, quindi contro il razzismo del sistema giudiziario. Non tutti i movimenti antirazzisti sono abolizionisti; alcuni pensano che si possa riformare il sistema, che serva polizia appartenente alle minoranze, che si debbano responsabilizzare gli agenti perché usino meno forza e non adottino comportamenti razzisti. Gli abolizionisti continuano ad essere in minoranza. Tuttavia, decenni di politiche penali razziste e la portata dei crimini commessi dalla polizia contribuiscono a far sì che un numero crescente di persone non creda più negli atteggiamenti riformisti.
Qual è il ruolo del femminismo nel movimento per l’abolizione della polizia?
Una delle critiche da muovere alla polizia è il suo ruolo nella violenza contro le donne, per non parlare dei poliziotti che perpetrano questo tipo di violenza e che rappresentano una percentuale maggiore in questa professione più che in altre. La critica si può portare a differenti livelli. Prima di tutto si può criticare la polizia perché protegge solo determinate vittime, le «vittime buone», perché maltratta le vittime, non interviene quando chiamata, arresta tutti indiscriminatamente quando sono chiamati a intervenire a seguito di un’impugnazione per violenza di genere, eccetera. Però i movimenti femministi e abolizionisti stanno formulando critiche più profonde al ruolo della polizia. Al giorno d’oggi il ricorso alla polizia e al sistema penale spesso sembra ovvio per lottare contro la violenza sessuale. Eppure è un sistema profondamente razzista che incide in modo sproporzionato sulle classi lavoratrici.
Esistono anche posizioni abolizioniste nei movimenti LGBT, basate sull’assunto che la polizia non sempre agisce realmente contro la violenza omofobica?
Le correnti maggiori di questi movimenti non vogliono essere abolizionisti. Tuttavia esiste una tradizione molto forte di critiche e pratiche abolizioniste nelle comunità LGBT. Questo sia per la mancanza di protezione che tali comunità possono aspettarsi dal sistema penale, dalle forme di molestie che subiscono da parte della polizia e dalla loro maggiore criminalizzazione rispetto al resto della popolazione.
Anche la giustizia trasformativa è vista come un’alternativa alla polizia?
L’applicazione di procedimenti di giustizia trasformativa elimina la necessità della polizia. Ma non è in termini di “un’alternativa” che dobbiamo pensare alla giustizia trasformativa. Come tutte le pratiche che si sviluppano da una prospettiva abolizionista, vuole soprattutto contribuire a costruire un mondo dove i nostri bisogni di sicurezza e giustizia, che oggi deleghiamo alla polizia, siano ottenuti collettivamente.
Fonte: Basta!
Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo
PIERA dice
desidero maggiore chiarezza e sopratutto semplicità nelle esposizioni che provano la validità delle vostre tesi che sostenete con troppi giri di parole