Spazi, relazioni e tempi che segnavano le nostre giornate sono stati stravolti dalla pandemia. Abbiamo dovuto ripensare il rapporto con il cibo e con molti oggetti di uso quotidiano, come l’ascensore o l’automobile. Ora dovremmo fare nostro il principio “olistico”, per il quale il tutto è sempre maggiore della somma delle parti. Dalla sua esperienza trentennale nella lotta alle barriere architettoniche, Paolo Moscogiuri sostiene che, attraverso quel principio, oggi abbiamo la possibilità di trasformare la vita nelle città e di mettere in discussione la mercificazione della vita di ogni giorno
Riusciremmo oggi a fermare la terribile pandemia in atto, pronunciando le famose tre parole – Klaatu, Barada, Nikto – del film Ultimatum alla terra (1951), come fece Helen per fermare il terribile robot extraterrestre? La Terra aveva raggiunto il suo limite di aggressività, mettendo in pericolo l’Universo, e per questo destinata alla distruzione.
Covid-19, così è chiamato il virus che ha repentinamente e violentemente cambiato le nostre abitudini e alcuni dei valori più condivisi. Ritmi, spazi e tempi che segnavano le nostre giornate sono stati ridotti al minimo. Abbiamo imparato velocemente, che alcune azioni che svolgevamo più o meno distrattamente o per abitudine, erano importanti per superare ansia e stress, e che quest’ultimi sono invece fattori che possono abbassare le nostre difese immunitarie. Anche l’alimentazione ha assunto altri connotati, sia nell’uso delle provviste, più consapevole e calibrato, per farle durare più a lungo, sia con la riscoperta del fai da te: pane, dolci, biscotti, orti.
Abbiamo così dovuto riflettere e diventare consapevoli dei nostri corpi, in relazione a spazi circoscritti e in relazione alle altre persone, fino alla respirazione forzata dentro le mascherine. L’aria, invisibile e impalpabile, ha assunto la consistenza di un liquido, dove tutti siamo immersi, e tutti ce ne “alimentiamo” contemporaneamente. Cosicché il nostro respiro non è scindibile da quello di un altro essere distante da noi migliaia di chilometri.
Nel contempo, oggetti e spazi di uso quotidiano sono usciti dal loro apparente anonimato, per prendere forme amichevoli o pericolose, come il nostro tanto amato condizionatore, che quest’estate percepiremo come una fonte di infezioni e non di piacere; per non parlare dei cosiddetti “nebulizzatori”, cioè quei tubicini che gettano microparticelle d’acqua, per raffrescare un po’ l’ambiente; anzi questi, probabilmente verranno messi fuori legge, o almeno me lo auguro.
Un mezzo oramai irrinunciabile come l’ascensore, si è trasformato in una fucina di ansia, mentre le scale, nell’amichevole occasione per poter fare un po’ di movimento. Il pianerottolo di casa è diventato un piccolo deposito di oggetti potenzialmente infetti, come le scarpe, il carrello della spesa, il passeggino del bambino, la carrozzina della persona con disabilità motoria; sempre che in casa ne abbia un’altra. Il tanto vantato soggiorno all’americana, con tavolo e divani in vista all’apertura della porta di casa, ci ha fatto rimpiangere l’ingresso che faceva da filtro fra pubblico e privato. Per non parlare di chi vive in open space, e che ora sogna una stanza tutta sua dove potersi ritirare per qualche ora.
Il rapporto con l’automobile ha subito un forte scossone. È rimasta lì, ferma, a consumare la carica della sua batteria, risparmiando però centinaia di euro di carburante, e la nostra fragile atmosfera. Purtroppo questo non sarà sufficiente per farci preferire in futuro il mezzo pubblico, perché nel frattempo anche lui è diventato un “veicolo” di infezione. C’è allora, soprattutto fra i più giovani, chi sta pensando a un maggior uso della bicicletta, magari assistita, e la richiesta di piste ciclabili cambierà la mobilità delle nostre città.
Bar e ristoranti, dovranno essere rivisitati nella distribuzione spaziale dei tavoli, se vorranno recuperare una parte della loro clientela. Così come negozi e supermercati, che si sono rivelati stressanti con i loro percorsi obbligati e gli stretti passaggi a misura di un solo carrello, o con la distribuzione dei prodotti mai troppo intuitiva.
L’uso del contante è sicuramente uno dei principali veicoli di infezione, e per questo, molti di noi hanno vinto la pigrizia, imparando a pagare una bolletta on-line, così come per molti acquisti. Nei posti di lavoro invece, la pigrizia l’hanno vinta i datori e i sindacati che avevano sempre osteggiato il telelavoro. A mio avviso per ragioni di perdita di “potere”.
Questi, alcuni dei repentini cambiamenti comportamentali con gli oggetti e le azioni quotidiane. Ma il cambiamento più traumatico è stato sicuramente quello delle relazioni umane, che vanno dalla prossemica, intesa sia come distanza fra i soggetti che comunicano, che come mezzo dell’espressione non verbale, alla limitazione degli incontri con parenti e amici.
L’essere umano usa il “linguaggio analogico” nella sua comunicazione interpersonale come rafforzativo della parola, ma a volte anche in sostituzione della parola stessa, soprattutto quando si vogliono esprimere emozioni che non “trovano” il termine giusto. Tutto questo andrà a danno dei messaggi più complessi, e il disagio sarà sicuramente maggiore per i popoli latini rispetto a quelli anglosassoni.
C’è infine da osservare come tutti cambiamenti, negativi o positivi, scaturiti da una causa: il virus, e da un effetto: l’isolamento, siano collegati fra loro. Il restare a casa, ha messo in crisi, non solo il nostro equilibrio personale e relazionale, ma tutta l’attività economica, il traffico veicolare, marittimo, ferroviario e aereo, e di conseguenza la struttura viaria si è rivelata inadeguata alle nuove esigenze. La mancanza di traffico ha però permesso all’aria di rinnovarsi e la mancanza di attività industriale, ai mari di disinquinarsi.
Abbiamo tutti appreso a scuola come funziona un “ecosistema” naturale, e che questo è un insieme sistemico, ma in pochi conoscono un altro modo per applicare un metodo molto vicino all’ecosistema nel campo progettuale. È la metodologia sistemica-complessa. Una teoria che viene da lontano, e che ha avuto un certo consenso negli anni Sessanta del 1900. Così chiamata soprattutto dagli scienziati, e detta “strutturalista“ dai linguisti, antropologi, psicologi e filosofi. Ma comunque la chiamiamo si basa sul principio “olistico”, per il quale: “Il tutto è sempre maggiore della somma delle parti”. Il contrario di questo processo, è quello “riduzionista”, che lavora invece sulle singole parti, senza prendere in considerazione “il tutto”.
I princìpi olistici, che la pandemia in corso ci ha costretto a rivalutare, sono una vera e propria rivoluzione positiva, soprattutto se applicati alla città.
Per comprendere questo, basta analizzare la grande fatica che fanno quasi tutte le amministrazioni delle città italiane ad applicare le numerose leggi tendenti al miglioramento della fruizione e della vivibilità, a causa della mancanza di una visione d’insieme. Basta perciò citare la legge 41/’86 che, impone il cosiddetto P.E.B.A. (Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche), del quale ogni Comune deve dotarsi entro un anno dalla pubblicazione della legge, pena il commissariamento. Oggi, a trentaquattro anni di distanza, i Comuni che hanno ottemperato al loro dovere si contano sulla punta delle dita.
Altra legge non ottemperata, o quasi, è la 503/’96, sempre riguardante l’eliminazione delle barriere architettoniche, Dopo ventiquattro anni, le nostre città sono pressoché inaccessibili a una persona con disabilità, e salire su un treno o su un bus in autonomia, altrettanto.
Altri esempi si possono portare, ma i due illustrati sono sufficienti per comprendere che c’è, nella gestione della cosa pubblica, qualche impedimento all’applicazione delle norme.
Dalla mia esperienza più che trentennale nella lotta alle barriere architettoniche, posso affermare che il procedimento “riduzionista”, con il quale vengono gestiti i lavori pubblici, ne è la causa principale. Procedimento peraltro “alleato” dell’individualismo e dello sperpero del denaro pubblico, che fugge dal sociale perché incentiva un consumo fine a se stesso.
Ecco allora ché possiamo affermare che questa pandemia oltre ad aver portato tanto dolore, ci sta anche dando l’occasione per riflettere sugli errori di una società che si regge su una economia spiraliforme, basata sull’induzione del bisogno, che a sua volta genera l’aumento della produzione, e di conseguenza l’automazione del lavoro. Questo fino alla saturazione della domanda, che crea perdita di lavoro e impoverimento. Il ciclo si rigenera su altri prodotti o sugli stessi rivisitati (obsolescenza programmata), ma con manodopera meno costosa e più sottomessa.
Un tempo questi cicli portavano a loro volta all’esasperazione dei lavoratori e a lotte più o meno violente, con il recupero di salario e conquista di diritti. Oggi, con la globalizzazione neoliberista, quest’ultima fase è tenuta più o meno sotto controllo con la parcellizzazione del lavoro, la delocalizzazione e la sottomissione dei governi nazionali ai dettami della finanza speculativa.
Il limite ultimo di questo sistema spiraliforme sta nei danni irreversibili creati all’ecosistema con l’inquinamento, alle risorse minerarie con il loro impoverimento, ma anche a quelle alimentari con le monoculture, l’urbanizzazione, il consumo di suolo, l’abbandono delle campagne.
In una società dove tutto è mercato, anche le risorse naturali lo diventano, fino a spingersi alla privatizzazione di beni di sopravvivenza, come l’acqua, i semi, i medicinali, i vaccini e la Sanità. Ma solo il limite della fantasia può non immaginare fin dove le mani di pochi, sui beni di tutti, possa spingersi. Non è quindi esagerato affermare che anche la salute e la vita delle persone stanno diventando merce di scambio, quando i governi, come accaduto in questi giorni, devono fare scelte fra l’una e l’altro. E se anche la vita non è scindibile da quel sistema complesso in continuo mutamento e rigenerazione, allora anche le risoluzioni lo devono essere.
Tutto questo non sarà più possibile ignorarlo sia da parte dell’“Uomo a una dimensione”, che dalla classe politica. Altrimenti non ci rimane che sperare nelle tre “magiche” parole.
*Architetto, autore del libro La città fragile (ed. ilmiolibro). Ha aderito alla campagna Ricominciamo da tre
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