Occorre leggere la pandemia con le lenti utilizzate per l’analisi delle crisi ecologiche e climatiche globali per comprendere quanto la crisi sia indissolubilmente legata a un paradigma di civiltà ormai evidentemente fallace
La fase storica che stiamo vivendo ci mette di fronte alla necessità di ricorrere a nuove categorie per leggere e interpretare il presente, provando a delineare solo ipotetiche traiettorie per il futuro. La pandemia non è un conflitto bellico, le sue origini e le sue conseguenze per la società moderna sono novità assolute e per comprenderle non ci aiutano le interpretazioni semplificatorie e dicotomiche come la visione del virus come nemico da sconfiggere, dei medici come eroi della patria, di un supposto buon e disciplinato cittadino contro quello cattivo e irresponsabile che mina volontariamente la salute pubblica.
Di fronte all’incertezza e alla complessità che stiamo vivendo non possiamo e non dobbiamo cedere alla trappola della semplificazione.
Come Associazione abbiamo dedicato anni a studiare, analizzare e decostruire il discorso pubblico intorno all’idea di sviluppo, utilizzando categorie e concetti dell’ecologia politica per svelare le dinamiche complesse che hanno generato gli squilibri ambientali e sociali globali a cui oggi stiamo assistendo, e che in parte sono causa della crisi pandemica.
Il nostro tentativo oggi è esattamente e ancora questo: leggere la pandemia con le lenti utilizzate per l’analisi delle crisi ecologiche e climatiche globali per comprendere quanto anche questa crisi sia indissolubilmente legata a un paradigma di civiltà ormai evidentemente fallace.
Per fare questo proviamo a partire dal concetto di cura, considerato non solo come “complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche che hanno il fine di guarire una malattia”, ma come forma di “interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività”(1).
Oggi il termine “cura” ha dato il nome a un Decreto ed è divenuto un concetto di riferimento anche per movimenti e realtà sociali che proprio a quel Decreto Cura e alle forme con cui il sistema ha organizzato la risposta al COVID, oppongono altre interpretazioni e significati legati ad immaginari solidaristici collettivi di mutualismo e condivisione.
La Cura così come concepita dall’attuale classe dirigente fa invece leva sulla necessità di trovare soluzioni immediate ed efficaci alla malattia.
Non vi è nel tentativo di risposta istituzionale un approccio che dalla Cura passi al “prendersi cura” delle comunità e delle fasce di popolazione più vulnerabili (bambini, anziani, ecc) per garantirne la possibilità di costruire prospettive di sviluppo sociale, economico e culturale durature e coerenti con i propri bisogni.
La cura dell’ambiente e del territorio, del pianeta e degli ecosistemi, è stata negli ultimi anni una priorità scritta e letta in tutte le agende politiche dei governi di ogni paese.
A tali dichiarazioni di intenti non sono tuttavia seguiti piani programmatici effettivi che abbiano messo in campo politiche e iniziative risolutive in merito alla drammatica crisi climatica e ambientale che ci troviamo ad affrontare.
I dati a oggi ci restituiscono uno scenario allarmante: ogni anno nel mondo circa 7 milioni di morti premature sono causate dall’inquinamento atmosferico. In Italia, si calcolano 76.200 morti premature l’anno, con il primato europeo di mortalità da smog. Secondo il Climact Impact Lab nel 2100 con le attuali emissioni arriveremmo ad aggiungere un altro milione e mezzo di decessi l’anno(2).
E il pericolo che le riduzioni di emissioni, verificatesi in questa fase con la pistola alla tempia del lockdown, siano una consolazione temporanea, è reale. Secondo la comunità scientifica si avvicinano le pericolose emissioni di ritorno, che saranno determinate da una ripresa economica che non guarderà in faccia il clima.
L’attuale pandemia ci mette dunque di fronte a temi e riflessioni che abbiamo affrontato in questi anni, seppur con scale e dimensioni differenti, e che conducono a tentare similitudini rispetto alle categorie utilizzate per analizzare le contraddizioni sistemiche alla base delle crisi ambientali.
– Un primo elemento sul quale tentare un parallelismo tra le analisi che abbiamo portato avanti sino ad oggi e le risposte su come affrontare la pandemia, riguarda l’arretramento dei sistemi pubblici e statali a vantaggio delle logiche di profitto che hanno accompagnato il presunto sviluppo dei sistemi di produzione, di erogazione dei servizi e di assistenza negli ultimi decenni.
La sanità pubblica in Italia è stata tagliata, indebolita e smantellata. Il 40% (3) della spesa sanitaria in Lombardia è stata destinata a strutture private, pur mantenendo l’intervento d’emergenza prerogativa esclusiva degli ospedali pubblici.
L’Italia, nonostante i tagli alla sanità portati avanti negli ultimi decenni, manteneva un buon primato per qualità del servizio sanitario pubblico erogato, secondo le stime dell’OMS(4), primato che tuttavia si è rilevato dubbio di fronte all’esplosione della pandemia e al conseguente dissesto del Sistema Sanitario Nazionale.
Secondo le parole riportate nella lettera appello dei 100.000 medici al Ministro Speranza del 2 maggio,“l’emergenza sanitaria COVID-19 ha messo drammaticamente alla luce le enormi carenze assistenziali della medicina territoriale in Italia, per molti aspetti imputabili alla legislazione vigente. Alla base vi è il definanziamento del sistema sanitario da oltre dieci anni; questo dato, associato alla Riforma del Titolo V della Costituzione, con frazionamento del sistema sanitario nazionale nei vari sistemi sanitari regionali, ha provocato una inevitabile e spaventosa carenza del personale sanitario e una intollerabile e drammatica iniquità dei servizi sanitari offerti ai cittadini nelle diverse regioni italiane. In questo contesto, l’articolo 32 della Costituzione Italiana è totalmente disatteso: i cittadini italiani non sono tutti uguali di fronte ai bisogni di salute e di assistenza.
Queste disparità di trattamento tra regione e regione sono gravi ed inammissibili in un paese all’avanguardia, dotato di uno dei migliori sistemi sanitari e di una delle migliori preparazioni mediche di base al mondo”(5).
Di fronte a tali dichiarazioni è evidente che un’enorme responsabilità dell’attuale gestione sanitaria della crisi si riconduce alle scelte fatte in virtù delle logiche di massimizzazione dei profitti a scapito della qualità di un servizio essenziale.
Sono stati erogati 37 miliardi in meno al SSN in 10 anni, arrivando ad 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29,2 della Germania(6). Aver messo in ginocchio la Sanità ha costretto a riversare le esternalità negative di tale situazione sugli operatori sanitari, medici, infermieri ecc, che oggi chiamiamo eroi ma la cui precarizzazione ed esposizione al rischio ha chiare responsabilità connesse a questa vicenda.
Le logiche di profitto che sottendono gli interventi sul SSN non sono del tutto dissimili a quanto avviene con i servizi ecosistemici e le risorse dei territori: l’estrazione di valore dalle comunità e il loro impoverimento passa per logiche privatistiche secondo le quali risorse naturali e beni comuni diventano proprietà di grossi player economici con il beneplacito delle istituzioni.
– In secondo luogo il ricatto tra salute e lavoro. Riaprire le fabbriche, rilanciare l’economia: sono i leitmotiv che sentiamo ormai da due settimane e che accompagnano l’allentamento presunto delle misure nella seconda fase di questo lockdown. Le condizioni di bisogno in cui versano milioni di lavoratori e le loro famiglie stanno diventano una situazione in cui facilmente il diritto al lavoro si scambia con quello alla salute. Situazione che negli ultimi 50 anni abbiamo riscontrato in numerosi altri contesti industriali i cui determinanti ambientali erano evidentemente compromessi (vedi Taranto, Marghera, ecc). Cosa accadrà dunque? Quali misure effettivamente si stanno adottando per consentire il ritorno al lavoro in condizioni di sicurezza?
– In ultima istanza il concetto di cura e salute diffusa e di prossimità, come elementi di vita di una comunità non esclusivamente legati al suo stato di salute fisiologico, ma alla capacità e possibilità di autodeterminarsi e di decidere del futuro del proprio territorio difendendone risorse e vocazioni ambientali.
Un concetto che passa appunto dalla cura al prendersi cura, considerando necessario un intervento statale diffuso in grado di garantire in primis welfare e servizi sanitari e scolastici accessibili a tutti, ma che guardi anche ad uno sviluppo economico attento ai bisogni locali. E che allontana invece l’idea di uno sviluppo imposto, di modelli di estrazione di valore che producono logiche di accumulazione di capitale e profitto, riducendo la comunità a soggetto da sacrificare ed esternalità da neutralizzare.
Vicino al concetto di salute diffusa e ai modelli di medicina di comunità, è l’approccio del Primary Health Care che nel 2008 l’OMS ha individuato come modello per affrontare le cause sociali, politiche ed economiche delle malattie.
Si tratta di una politica definita e pensata per migliorare lo stato di
salute di tutta la popolazione, rivolta ai più poveri, basata su pochi
principi: facile accesso ai servizi, partecipazione delle comunità alle
decisioni riguardanti la propria salute e alle attività sanitarie,
enfasi su prevenzione e promozione della salute, tecnologie appropriate,
integrazione dei servizi sanitari con altri settori, ad esempio la
scuola, i trasporti, i lavori pubblici e sostenibilità degli interventi
nel medio e lungo termine(7).
Anche in questo, l’approccio alla Cura Primaria ci sembra avvicinarsi
alle soluzioni intraviste nelle aree di conflittualità ambientale in
cui la capacità di partecipare alle decisioni sulla salute pubblica
risultano esercizi di democrazia fondamentali per orientare le politiche
di sviluppo locale e costruire scenari di giustizia social ed
ambientale.
Di fronte a questa articolazione, risulta evidente che tanto
nell’analisi delle cause, come nella ricerca delle risposte, le
categorie con le quali abbiamo analizzato i conflitti ambientali del
nostro tempo possono essere d’aiuto.
Rimane l’appello a utilizzare i termini per i loro significati profondi, e non per l’impatto mediatico che essi esprimono. Lavorare e orientare politiche alla Cura della società significa, oggi più che mai, guardare alla giustizia e all’equa distribuzione delle misure di protezione, alla difesa delle fasce più deboli e vulnerabili, alla difesa del diritto al lavoro e alla vita, alla promozione di modelli di civiltà compatibili con le crisi ecosistemiche globali a cui stiamo andando incontro.
1. http://www.treccani.it/vocabolario/cura/
2. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2020/02/13/limpatto-del-clima-migrazioni-salute-spiegato-bene-numeri/?refresh_ce=1
3. https://valori.it/coronavirus-crollo-sanita-pubblica/
4. https://www.who.int/whr/2000/media_centre/press_release/en/)
5. https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=84765
6. https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/covid-19-tagli-servizio-sanitario-nazionale-chi-li-ha-fatti-perche/b18749f6-736d-11. ea-bc49-338bb9c7b205-va.shtml
7. https://www.saluteinternazionale.info/2010/05/la-primary-health-care-funziona/
Evento promosso da Asud Giovedì 07/05/2020
Poteva andare meglio: lo stato di salute della Sanità Pubblica.
Ne discuteremo con
Vittorio Agnoletto Medico, insegna Globalizzazione e politiche della salute all’universita’ statale di Milano, membro della direzione di Medicina Democratica,
Giuliana Battagin, Infettivologa e medico all’ospedale di Vicenza
Matteo Venturella, Medico di Medicina Generale e promotore della campagna 2018 PHC – Primary Health Care Now or Never – OMS
Diretta dalle pagine di A Sud e del CDCA – Centro Documentazione Conflitti Ambientali
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