Il ritorno del tema di storia nell’esame di maturità può essere un punto di partenza per altri mutamenti, ad esempio, per affrontare in modo interdisciplinare la storia del passato alla luce del presente? L’addio alle buste per il colloquio orale può favorire il rifiuto della logica del quiz televisivo che pervade l’apprendimento? Abbiamo sempre più bisogno di proporre l’insegnamento come una crescita circolare docente-studenti, fondata su curiosità, pensiero critico e laboratori di ricerca e non su voti, nozionismo quantitativo e competizione
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Il decreto maturità firmato dal ministro Lorenzo Fioramonti il 21 novembre 2019 introduce due importanti novità rispetto all’esame di stato delineato meno di un anno fa dall’allora ministro Marco Bussetti: ritorna il tema di storia e spariscono le buste da scegliere per l’avvio del colloquio orale. Si tratta di due modifiche all’apparenza modeste, ma in realtà estremamente significative sul piano didattico che entreranno in vigore già nel 2020.
Il primo cambiamento è di natura sostanziale: reintrodurre nella prima prova scritta di italiano la traccia di storia rappresenta un’importante inversione di rotta dopo decenni di miopi controriforme scolastiche che hanno tagliato, svuotato e umiliato gli studi storici nelle scuole superiori, con l’eccezione del liceo classico. In un percorso di formazione rivolto agli adolescenti che si apprestano a diventare adulti, invece, è più che mai importante dare dignità e vigore alla storia, la quale non sarà forse “magistra vitae”, ma è pur sempre una delle principali discipline in grado di fornire conoscenze e strumenti critici per comprendere le complessità della realtà in cui viviamo. Insegnare agli studenti a decodificare e interpretare il presente, infatti, vuol dire offrire loro la preziosa possibilità di stare al mondo più liberi e consapevoli. Inoltre, oggi, di fronte al pericoloso e dilagante diffondersi di una fake history, che volutamente crea confusione e relativismo al fine di alimentare e giustificare odio, violenza e razzismo, ridare spazio alla storia in sede di esame di stato significa conferire maggior robustezza allo studio del Novecento, dalla cui conoscenza può sorgere un argine civile e democratico rispetto alle ricorrenti barbarie che sempre si nutrono di ignoranza e superficialità.
Tuttavia questi cambiamenti potranno realizzarsi solo se il ritorno del tema storico non sarà interpretato semplicemente come un consolatorio e di conseguenza effimero punto di arrivo per nobilitare lo studio della storia in quinta superiore, bensì se esso rappresenterà uno stimolante punto di partenza per rilanciarne complessivamente l’approccio critico, l’approfondimento e la rielaborazione personale durante tutto il percorso scolastico. Questa svolta necessita, però, di alcuni profondi mutamenti nella didattica della storia stessa, la quale deve essere insegnata per problemi e in maniera interdisciplinare, affrontando i grandi nodi e processi del passato alla luce delle loro conseguenze e influenze nel presente. Ciò ovviamente non implica appiattire gli avvenimenti di ieri sull’attualità, bensì studiarli in modo attivo e laboratoriale, utilizzando fonti e documenti, in modo da stimolare le connessioni con la realtà che ci circonda. La sfida è rendere lo studio della storia a scuola utile e interessante senza ricorrere al gossip e al sensazionalismo: sfida difficile ma che si può vincere facendo emergere lo stimolo alla curiosità che è insita nella natura della disciplina stessa.
Il secondo cambiamento è invece di natura formale, con evidenti ricadute sostanziali: eliminare la scelta tra buste chiuse per avviare il colloquio significa, infatti, uscire dalla logica del quiz televisivo, che dovrebbe essere agli antipodi della valutazione di un percorso formativo scolastico. Anche in questo caso tale piccolo mutamento dovrebbe essere l’occasione per ripensare a come strutturare un insegnamento che non sia finalizzato ad un modello prestativo quantitativo e competitivo, bensì a una crescita circolare docente-studenti, fondata sul binomio qualitativo curiosità-apprendimento. Se veramente pensiamo che gli studenti non siano vasi da riempire, ma fuochi da accendere, dobbiamo avere il coraggio di non fare del voto numerico il fulcro dell’istruzione, come invece ancora troppo spesso accade per convinzione ideologica o per abitudine. La scuola deve essere un laboratorio di idee e di pratiche e non di mera ripetizione di contenuti e le ore di lezione devono essere la miccia che innesca coinvolgimento ed esplosioni e non una stanca coercizione ad eseguire. Se per gli studenti il voto diventa l’unico scopo dell’andare a scuola e la noia sistematica pervade il loro tempo scolastico, viene meno ogni senso autentico della formazione. Ed è inutile e dannoso nascondersi dietro frasi del tipo “ci siamo passati tutti” oppure “nella vita ci sono cose che vanno fatte perché si devono fare, anche se non ti piacciono”: questo può valere per una singola materia o per qualche studente, ma se tale approccio investe la maggior parte degli allievi il problema diventa pedagogicamente assai rilevante e come docenti dobbiamo cercare e sperimentare nuove strade senza abbandonarci a tali sconfortanti opacità.
In un mondo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, fare della scuola un luogo pubblico che sappia coinvolgere gli studenti in un apprendimento critico, circolare e collaborativo potrebbe essere il modo più lungimirante per gettare i semi di una democrazia che coniughi libertà, solidarietà e giustizia sociale, unici antidoti contro le molteplici oppressioni che soffocano le nostre vite.
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Matteo Saudino è insegnante di filosofia a Torino
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