È già accaduto con Berlusconi, ormai molti anni fa: sarebbe un grave errore pensare che ci siamo liberati di Salvini e di tutto quel che rappresenta solo perché non è più un ministro. Una lettura ardita e di grande interesse sul parallelismo tra le derive violente e autoritarie e la malattia
Chi mi conosce sa che difficilmente mi esprimo pubblicamente circa le questioni politiche, per esempio quelle che hanno riguardato le recenti ondate populiste e, proprio in questi giorni, le azioni dei nostri “cari” Salvini & C.
Ma ora penso che sia importante. Mi interessa stabilire un parallelo tra Salvini e Malattia.
Salvini è un sintomo della malattia ecosistemica che stiamo vivendo.
Ecosistemica nel senso che non può essere ricondotta ad una singola patologia, ma all’interconnessione di diversi fenomeni complessi, che attraversano ambiente, economia, salute, cultura, comunicazione, informazione, emozione etc.
La malattia è già grave (non voglio dire ancora disperata, ma la tentazione sarebbe forte). La febbre è a 40, ed è difficile immaginare come sopravvivere se dovesse ancora peggiorare.
Sta diventando urgente non solo trovare cure per la malattia ecosistemica, ma anche risposte immediate capaci di avere a che fare con la contingenza e di preparare il terreno per le soluzioni più a lungo termine.
Cos’é la “tachipirina” per affrontarla questa febbre a 40? E poi: cosa viene dopo?
Le nostre istituzioni — il fondamento delle nostre vite comunitarie — sono molto lontane dall’essere “ecosistemiche” (ovvero capaci di ragionare per sistemi complessi e interconnessi).
Per questo condurre il parallelo con la malattia e la medicina è ancora più interessante.
La medicina cui siamo abituati, purtroppo, ha ancora enormi difficoltà ad essere sistemica (i medici del polmone, delle ossa, dello stomaco, etc hanno ancora troppa difficoltà a interconnettersi e collaborare, e infatti parlano di malattia — tramite i suoi sintomi — invece che di salute — tramite l’ambiente — ).
Questo vale anche per per le nostre istituzioni: ministeri, partiti, fazioni, commissioni, partecipate etc vivono nella vicendevole separazione, addirittura facendosi le guerre, litigandosi budget, attribuzioni e poteri (l’idea, per esempio, di budget condivisi è praticamente impossibile, addirittura a livello burocratico e amministrativo). Questo fenomeno si manifesta attraverso l’informazione, la comunicazione e la conoscenza.
Queste separazioni non solo rendono difficile/impossibile affrontare le questioni ecosistemiche, ma aprono le porte a quei fenomeni che se ne alimentano: razzismo, paura del diverso, disinformazione, complottismo, comportamenti antiscientifici, bolle comunicative e percettive e i tanti altri fenomeni che stanno mettendo a rischio la nostra coesistenza, le nostre democrazie e, in finale, il nostro benessere fisico, culturale e spirituale.
E, quindi, proprio come la medicina ha estrema difficoltà a concepire ed attuare sforzi in grado di affrontare efficacemente le condizioni ecosistemiche (per esempio il cancro, che non si può solo ricondurre ad una guerra contro poche manciate di cellule, e che necessiterebbe di ampi ripensamenti dei nostri modelli di vita), le nostre istituzioni non riescono a concepire iniziative per affrontare quei problemi che si possono affrontare solo ecosistemicamente, interconnettendosi e adottando approcci orientati alla complessità: cambiamento climatico, povertà, salute, istruzione, energia, economia.
Servono nuovi tipi di istituzione, questo oramai è ovvio, capaci di approcci complessi ed interconnessi.
Già tanti attori e gruppi stanno ragionando sui modelli organizzativi e sulle forme di queste nuove istituzioni, dalle più centralizzate alle più distribuite, ognuna con diverse implicazioni filosofiche, sociali, economiche e relazionali.
Meno chiaro è come si potrà passare dalla condizione attuale a queste nuove opportunità.
Questo è forse il dilemma in cui ci troviamo, assieme al suo corollario: come cercare di affrontare la nostra malattia ecosistemica per evitare le derive violente, autoritarie e disequilibrate che ci si stanno preparando davanti?
Come si interviene individualmente, come comunità e come società?
Mi sembra che ci si aprano davanti almeno 3 strade principali:
- il continuare a spazzare tutto sotto il tappeto, e vedere come va (perché questo è quello che stiamo facendo come società: basta pensare al tema del cambiamento climatico, per cui, a parte iniziative che sono del tutto insufficienti in numero, qualità, interconnesse e capacità di approcci complessi, si rimane in una sostanziale condizione di denial);
- le armi e la violenza (fisiche o simboliche);
- oppure l’investimento in amicizia, amore e empatia.
La prima opzione diventerà evidentemente insostenibile entro brevissimo tempo (già lo è, e prestissimo ci accorgeremo esattamente della misura).
L’opzione violenta è un pericolo reale. Ci sono segnali in tutto il mondo e già “sappiamo come si fa”, tanta è la storia dell’essere umano che ci racconta come abbiamo già più volte abbracciato la violenza. Ne abbiamo già esperienza, potrebbe facilmente succedere ancora e tanti segnali ci mostrano come potremmo essere sull’orlo del suo succedere ancora.
La terza, quella dell’amicizia, dell’amore e dell’empatia, è problematica.
Non ne abbiamo reali esperienze storiche. Gesù Cristo? Ghandi? Altri? Anche se fossero, sono esempi lontanissimi dal mondo di oggi, e le loro narrazioni nascondono storie politiche, economiche e dell’informazione che hanno veramente poco da spartire con l’amore e l’empatia.
Oltretutto, l’idea di “investire sull’amore” ha un sottotesto molto diffuso che ammicca alla frivolezza, al non essere una cosa “seria”, “pratica” e “concreta”.
Ovviamente, sono obiezioni che possono solo provenire da parti che
- o non hanno molta immaginazione,
- oppure non conoscono (scientificamente) il comportamento degli esseri umani (e quindi la necessità di queste due dimensioni per poter anche solo immaginare interventi complessi, interconnessi e collaborativi),
- o che beneficiano dalla violenza e dalla separazione (come opposto dell’empatia, l’alessitimia): per esempio il nostro “caro” Salvini, e tutti i populisti.
Il risultato è che quasi nulla (e certamente troppo poco) di ciò che abbiamo intorno va in questa direzione.
Oltretutto, le le attuali piattaforme e infrastrutture della comunicazione e dell’informazione vanno in direzione diametralmente opposta (perché negli attuali modelli di business, l’alessitimia e la violenza fanno fare buoni affari in quanto generano più dati, che possono essere estratti e rivenduti).
La nostra idea è che in questo momento serva urgentemente progettare e mettere in atto un intervento pre-politico. Che, quindi, venga prima della politica, e che agisca su dinamiche completamente differenti, che vengono “prima”. Un intervento
- sulla sensibilità;
- sulla capacità di avere una lente differente sul mondo, un nuovo sguardo, un nuovo modo di conoscere, comprendere e commuoversi;
- sul cercare di superare la volontà di potenza, e anche i modi in cui questa è supportata dalle nostre attuali tecnologie, e dai modi in cui queste ci cambiano.
Questo stimolo lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle e abbiamo provato a performarlo, a trasformarlo in azioni concrete, nel mondo.
Prima con La Cura, quando mi sono ammalato, in cui abbiamo provato a riposizionare la malattia in senso ecosistemico.
E poi con tanti altri progetti e azioni che facciamo, per esempio, tra gli ultimi, con IAQOS e Datapoiesis.
Per esempio, il concetto della Datapoiesi, per noi, sta diventando di importanza fondamentale. La Datapoiesi è quel fenomeno secondo cui i dati creano una sensibilità che prima non c’era, e che non potrebbe esserci senza i dati.
Se pensiamo alle questioni planetarie, per esempio, come il cambiamento climatico, forse l’unico modo che abbiamo per averne esperienza è attraverso grandi quantità e qualità diverse di dati.
Ma i dati sono un concetto molto astratto, e la loro semplice visualizzazione non è sufficiente. Anzi, da un certo punto di vista, la visualizzazione dei dati spesso spettacolarizza i fenomeni, allontanandoli ancor più di noi (per esempio, le visualizzazioni del crescere delle temperature hanno un che di ineluttabile, di inarrestabile, di spaventoso, che le trasforma in uno spettacolo, di cui possiamo solo essere spettatori). Quasi mai si trasformano in “sensibilità”: la sola conoscenza dei fatti non basta quasi mai a cambiare i nostri comportamenti.
Oltretuttto, i dati sono “costruiti”, nel senso che sono “ideologici”: per misurare un fenomeno attraverso i dati, devo prima scegliere “quali” dati, “quanti” dati, registrati in che modo, secondo quale filosofia e strategia.
Queste decisioni sono sempre molto lontane dalle persone e dalle comunità.
Infine, i dati non sono più quelli di una volta. Se prima i dati erano, sostanzialmente, cose che si potevano contare, oggi vale una definizione molto differente. Quando il corpo, le nostre espressioni, emozioni, posizioni, relazioni, e le reti umane, dell’ambiente e dei sistemi diventano dati, non è più poi tanto importante il fatto che i dati si possano contare. Diventano, invece, di fondamentale importanza la “forma” dei dati, le loro configurazioni, disposizioni, “colori”, classificazioni. Da qui, infatti, deriva il ruolo fondamentale dell’Intelligenza Artificiale: che non “conta”, ma “vede”, “ascolta” e, soprattutto, “riconosce” e “comprende forme e pattern ricorrenti”.
In ognuno di questi casi, i dati non sono quasi mai associati a dimensioni simboliche e rituali, che sono le uniche che consentono alle persone di unirsi, affrontare insieme i problemi e costruire insieme la realtà che desiderano.
Dove sono i nostri nuovi totem, riti, sciamani di dati, attorno a cui riunirsi per affrontare i problemi planetari? Non ci sono.
Le istituzioni attuali troppo spesso non capiscono o percepiscono questa necessità. Le aziende (specie quelle di dimensioni globali) si appropriano di questi concetti asservendoli al consumo e ai modelli estrattivi delle attuali economie.
Il tutto mentre le forze più violente della società (ed ecco che torna il “caro” Salvini) sguazzano felici in questo stato di separazione che è completamente funzionale al loro potere.
Viviamo in almeno 3 condizioni:
- il tempo
- la filosofia
- e la tragedia
L’essere umano vive nel tempo. Questo è il maggior ambito di intervento delle tecnologie.
La filosofia ha alla sua origine l’”amicizia”, e che si esprime tramite il logos: l’ascoltare, il dire, il pensare per conoscere.
La tragedia ha alla sua origine tutto ciò che non può essere ricomposto tramite il logos e il pensiero. La condizione della tragedia non deve essere interpretata in modo negativo: è “oltre” il linguaggio. Non se ne può “parlare”: ha a che fare con l’emozione, il mistero, l’estetica, la sensibilità, l’inconoscibilità. La tragedia è irriducibile e, in quanto tale, è la nostra porta di accesso alla complessità.
Queste 3 dimensioni sono necessarie simultaneamente per poter affrontare le questioni planetarie che ci affliggono.
Attualmente, siamo molto poco capaci di avere a che fare con la tragedia.
Le nostre prossime istituzioni, se vogliamo avere almeno qualche possibilità di affrontare le questioni complesse planetarie e di non soccombere alla violenza e alla volontà di potenza, dovranno essere in grado di avere a che fare con la tragedia. Dovranno, cioè, essere istituzioni capaci di poesia, di arte, di sogno: non come elementi decorativi, ma come fondamenti strategici.
Devo ringraziare madamigella Oriana Persico e Alex Giordano: questo articolo è fondamentalmente costituito dagli appunti che ho preso durante una lunga conversazione che ci siamo fatti, in cima ai monti del Cilento, di fronte al mare.
* Ingegnere robotico, hacker, scrittore e artista. Insegna alla facoltà di architettura dell’Università La Sapienza di Roma e si definisce un artigiano digitale. Utilizza in prevalenza free software.Presidente di Human Ecosystems Relazioni
Lascia un commento