Nei pressi delle stazioni ferroviarie, capita spesso d’imbattersi in stati d’animo senza mezze misure: il dolore estremo di una separazione, l’emozione profonda di un ritrovarsi… In via della Stazione Tuscolana, a Roma, i protagonisti di un’appassionata e straordinaria lotta per regalare spazi e legami sociali alla città festeggiano un grande risultato ma lo fanno con un velo di preoccupazione. Ci sono volute 4 occupazioni e due sgomberi perché il progetto di Sport e Cultura Popolare (SCUP) trovasse un riconoscimento formale e un accordo per il comodato d’uso gratuito dei locali di proprietà della Rete Ferroviaria Italiana con il conseguente avvio dei lavori sul tetto in amianto presente nei locali. Una vittoria netta e importante. Eppure, non basta. Quelli di Scup non si pensano come un’isola felice, visto che hanno occhi aperti e orecchie attente per vedere e capire quel che succede a Roma e in tutta Italia in questa pesante estate. “Speriamo che la nostra vicenda sia da stimolo ad altri territori per attaccare il patrimonio inutilizzato di aziende ed enti che magari prevedono una politica di comodato. Siamo certi, però, che nel momento in cui ci sarà un contrasto con gli interessi dell’azienda, molto difficilmente avremo lo Stato e l’amministrazione dalla nostra parte”, scrivono. Così lavoreranno intensamente per essere una comunità sempre più ampia e intrecciata al territorio. Si tratta di colmare l’insufficienza della politica dei partiti e delle istituzioni amministrative, il vuoto che si sta scavando tra i principi della Costituzione e la tragicità di una società attraversata da malessere, violenza e sopraffazione. C’è sempre più bisogno di organizzarsi, coltivare umanità e relazioni, per avere un paese aperto, luoghi aperti, porti aperti, parchi aperti, e chiudere il capitolo nero che stiamo vivendo
In quest’estate lugubre di decreti sicurezza e crisi di governo, Scup va controcorrente, e una volta tanto non piange ma festeggia: dopo quattro occupazioni e due sgomberi, il progetto di Sport e Cultura Popolare nato a via Nola 5 ha finalmente trovato un riconoscimento formale, ottenendo il comodato d’uso gratuito dello stabile di proprietà RFI di via della Stazione Tuscolana dove attualmente si trova. E non solo: a fine luglio la proprietà ha avviato il cantiere di bonifica del tetto in amianto, un problema di salute pubblica molto sentito dagli abitanti della zona e a lungo rimandato.
Tutte ottime notizie, si direbbe. Eppure. Eppure abbiamo quella strana attitudine a non riuscire ad accontentarci se attorno a noi c’è qualcuno che soffre. E forse è per questa nostra caratteristica, questo tratto antropologico che ci limita nel godere del momento, che facciamo fatica a celebrare un risultato importante, tanto più per un piccolo gruppo di persone che ha dedicato tempo e energie ad un progetto collettivo, portando il peso di una sfida piena di insidie senza nessuna garanzia del risultato – com’è sempre in questi casi.
Veder legittimata la nostra azione politica di rivendicazione, attraverso la pratica dell’occupazione di uno spazio abbandonato è stato un risultato importante, in uno scenario cittadino in cui questa stessa pratica viene attaccata e messa sotto accusa, sotto sfratto, sotto sgombero, quale che sia il suo valore sociale e la sua utilità per il tessuto urbano nella quale si è radicata ed è fiorita negli anni. Nel nostro caso né il Comune, né il Municipio VII, né l’azienda RFI hanno trovato argomenti contro la bontà del progetto, riconoscendo implicitamente come legittima l’azione di rottura che ha portato all’occupazione – peraltro nata da un corteo di solidarietà dopo il precedente sgombero.
Ma questo risultato è allo stesso tempo angusto per un’esperienza multiforme come la nostra, e la forme giuridiche del comodato d’uso a scadenza e dell’associazione di promozione sociale chiaramente non bastano a contenere un progetto come Scup – che è mutualistico, sportivo, politico, sociale, culturale e cooperativo insieme.
Una politica, quella di RFI, che, nonostante le sue grosse criticità, è certo più definita di quella confusa con cui la città di Roma ha normato nel corso delle diverse amministrazioni questo tipo di esperienze, che in alcuni casi hanno una storia pluridecennale. Esperienze che hanno riqualificato, tenuto in vita e rigenerato spazi altrimenti abbandonati, creando in molti casi realtà solide e vitali, laboratori, esperimenti, hub di partecipazione e servizi, migliorando i territori in cui si sono inserite, e a cui oggi si chiedono affitti, risarcimenti, e ovviamente lo sgombero dei locali. Si potrebbe pensare che il problema di questi spazi sia la legalità, la linea di confine tra lecito e illecito, ma sarebbe andare fuori strada: persino l’attivismo civico, oggi, risulta appesantito da costi e trafile burocratiche, e a prendersi cura di una fazzoletto di verde o a spalare l’immondizia davanti il portone di casa si rischiano multe salate.
Ma a chi, a cosa serve questa benedetta e restaurata legalità? Dopo uno sgombero, nella stragrande maggioranza dei casi, l’immobile un tempo occupato resta vuoto per anni. Marcisce, decade, va in rovina. Per certi versi, si accoda al destino di Roma, città delle rovine e degli immobili abbandonati, che si tratti di vecchie strutture pubbliche o di enti che così gestiscono il loro patrimonio, o di complessi industriali e agricoli ormai in disuso, o di immobili di grandi e piccole società private, che ne traggono un vantaggio economico anche tenendoli vuoti nel meccanismo di rendita e speculazione finanziaria.
Ma le aree abbandonate e in disuso generano desolazione e sconforto, il famoso degrado – che altro poi non è se non solitudine, isolamento, inattività, le lenta morte del tessuto urbano definita “sicurezza”. In questo caso, come nei problemi di natura ambientale (il tetto in amianto, ma anche la discarica, l’aeroporto, e così via), o nella mancanza di trasporti e servizi, l’uso della proprietà pubblica e privata risulta lesivo dei diritti fondamentali degli abitanti del territorio – tra i quali, è bene ricordarlo, rientra lo stesso diritto ad un’abitazione degna, ostacolato dal mercato e dalle politiche abitative pubbliche, che spinge le realtà dei movimenti per l’abitare a riempire i palazzi vuoti per soddisfare questo diritto.
È sulla base di questo ragionamento che si è avviato negli scorsi anni un dibattito sull’utilità sociale, sull’uso civico e sugli articoli 42 e 43 della Costituzione, che delineano i limiti che sono da imporsi alla proprietà privata. E di esempi in cui l’interesse privato ha prodotto pochi benefici e per pochi, e tante conseguenze dannose per tanti è purtroppo piena la nostra storia; la politica assiste a questi affari – in molti casi agevola, in alcuni lucra – e non è quasi mai in grado di appoggiare chi si mobilita per rivendicare quei diritti, mentre è costante la regressione di tutto ciò che è servizio pubblico.
Fortunatamente, nel micro avvengono tante piccole vittorie, ci sono laboratori urbani e territoriali, si attivano meccanismi di contrasto e costruzione di pratiche, di resistenza e alternativa.
È un mondo che conosciamo a Roma e in altri territori in Italia – uno su tutti, confermato in questo luglio, quello della ValSusa dei No Tav. E anche fuori dall’Italia, perché sono dinamiche presenti a tutte le latitudini, problemi che non hanno confini: come le merci che si muovono da un continente all’altro e ci raccontano delle contraddizioni che hanno come denominatore comune lo sfruttamento, l’interesse egoistico e prevaricatore che ammala e uccide vite, territori e ambienti.
Lo sfruttamento urbanistico è parte di questo sfruttamento generale. Eppure non saremmo completamente inermi: avremmo già diversi strumenti da poter applicare. Oltre ai già citati articoli della Costituzione si potrebbero mettere in campo azioni requisitorie per emergenze di ordine pubblico e pubblica sicurezza, per dare un tetto alle decine di migliaia di sfollati – tanti quanti sono gli sfratti per morosità incolpevole e richieste di casa popolare mai accolte – per mettere così, senza scuse, in primo piano, con tutta la sua drammaticità, la questione abitativa.
Ma nessun pezzo dello Stato lo fa, in nessun forma, che sia dissuasiva o incentiva con politiche fiscali, che sia amministrativa, che sia di investimenti pubblici; l’unica formula è quella del non esserci, di tagliare. E quando c’è, c’è solo per essere debole con i forti e forte con i deboli, e incrementare, a colpi di decreti, le armi a disposizione per aumentare la repressione del dissenso. Non ci si pensa due volte a manganellare un presidio, contro una discarica o contro un licenziamento di massa; ma ci si guarda bene dallo scagliarsi con la stessa violenza contro gli atti criminali di persone potenti.
Così, se ci è chiaro che questa vittoria a via della Stazione Tuscolana è importante, non possiamo non leggere in essa il fallimento della politica istituzionale, e il fatto che come cittadini siamo soli nell’affrontare un quadro generale ben più complesso, dove sono indispensabili organizzazione, coraggio, partecipazione, mutualismo, cooperazione, moltiplicazione e messa in comune delle esperienze. Speriamo che la nostra vicenda sia da stimolo ad altri territori per attaccare il patrimonio inutilizzato di aziende ed enti che magari prevedono una politica di comodato. Siamo certi però, che nel momento in cui ci sarà un contrasto con gli interessi dell’azienda, molto difficilmente avremo lo Stato e l’amministrazione dalla nostra parte.
E quindi lavoreremo per essere una comunità sempre più ampia e sempre più intrecciata al territorio a cui si relaziona. Non possiamo non vedere che alla politica degli sgomberi bisogna sostituire un ragionamento per inquadrare in maniera virtuosa le esperienze positive ed elaborare un quadro normativo che favorisca gli slanci di collaborazione, di attivazione verso il patrimonio in disuso, per il quale le forme attuali di gestione amministrativa sono insufficienti e inadeguate, e spesso scollegate dalla realtà.
Bisogna colmare l’insufficienza della politica partitica e delle istituzioni amministrative, questo vuoto che si sta scavando tra i principi enunciati in Costituzione e la tragicità di una società attraversata da malessere, da violenza e sopraffazione. E riconoscerci in questo, riconoscere di avere uno spazio – tanti spazi, in realtà – che possono raccogliere e far maturare questi slanci. E organizzarsi, coltivare umanità e relazioni, per avere un paese aperto, luoghi aperti, porti aperti, parchi aperti, e chiudere il capitolo nero che stiamo vivendo.
Giovanni Papa dice
Grazie per quanto avete fatto e comunicato, perchè incoraggia altre esperienze analoghe fatte ed in costruzione in altri contesti territoriali, come il nostro nel Pinerolese.
Giovanni
Ottavio Raimondo dice
Grazie. O la vita è per tutti o non lo è per nessuno. E la grande sfida è INSIEME perché senza l’altro sono più povero.
Tutto questo l’ho imparato in vari Paesi del Sud del mondo e posso dire che la vera povertà è l’isolamento.
Auguri e vi seguo da questo piccolo minuscolo “villaggio” in provincia di Foggia, il cui nome è storia: TROIA.
p. Ottavio Raimondomissionario comboniano
paolo gelsomini dice
Avanti così ragazzi, ex ragazzi o post ragazzi! Roma ha bisogno della straordinaria energia di gente come voi!!