La gran parte dei partiti e delle liste che si presenteranno alle prossime europee – anche chi si oppone a rifascisti e demagoghi – è mossa ancora da un pervicace e arcaico istinto militare: la politica come guerra, proseguita e combattuta con altri mezzi. Mossi dal bisogno di occupare e conquistare ad ogni costo maggiori capisaldi possibili; solo successivamente valutare l’opportunità di stringere accordi, di dare luogo ad alleanze. È straordinario che chi pone come propri valori e obbiettivi la pace, la giustizia sociale ed economica, la lotta ai pregiudizi di genere e alla violenza, la fratellanza, la democrazia, la solidarietà, l’ambiente, i beni comuni, non si renda minimamente conto della voce con cui parla, della divaricazione insopportabile tra i fini che declama e i mezzi che usa. Dalle straordinarie piazze italiane di marzo veniva una lezione completamente diversa dalla consueta strategia di conquista del Risiko
di Mimmo Cortese
2 marzo 2019,” People – Prima le persone“, Milano, Piazza Duomo.
24 marzo 2019, “Friday for future“. 2069 città in 125 paesi di tutto il mondo, decine di manifestazioni in Italia. A Brescia, la mia città, mai viste tante migliaia di studenti in piazza da decenni.
30 marzo 2019, “Verona Città Transfemminista“, un fiume di donne e di uomini scorre in tutto il capoluogo scaligero. Per queste giornate si sono mosse decine e decine di associazioni e gruppi più o meno organizzati. Partiti, sindacati, movimenti politici. Centinaia di migliaia di persone in lotta, in azione.
Stanno arrivando mail, post, messaggi e, naturalmente, l’immancabile florilegio di volantini o lettere personali in questi giorni. Stanno chiedendo il mio (nostro) voto per le prossime elezioni europee. Per fortuna! – verrebbe da dire. Restringere, distorcere, mettere in crisi i sistemi democratici nati nel dopoguerra, frutto della resistenza al nazifascismo, della lotta e del prezzo pagato da milioni di uomini e donne, è il principale obbiettivo dei partiti le cui guide hanno i nomi di Orban, Di Maio, Le Pen, Salvini, e le diverse formazioni che si ispirano a loro. Si stanno servendo da anni – seguendo molto da vicino le nefaste lezioni del fascismo e del nazismo – dei pretesti più svariati: i poteri forti (all’epoca era la plutocrazia parassitaria e il complotto giudaico-massonico internazionale), le banche, l’invasione degli stranieri, l’identità della nazione, il sangue, la terra ed altri obbrobri e bugie di tal fatta. Gli strumenti usati dai nuovi imbonitori hanno radicalmente cambiato aspetto, la sostanza purtroppo è mutata di poco.
Sembra però che anche chi si oppone a queste scellerate proposte per i prossimi appuntamenti ed impegni politici – piccolo o meno piccolo, radicale o moderato che sia (o presuma di essere) – abbia deciso senza indugi di fare da sé. Saranno tutti convinti di potere raggiungere, da soli, il 50% + 1?
La gran parte dei partiti e delle liste che si presenteranno alle prossime europee – anche chi si oppone a rifascisti e demagoghi – è mossa ancora da un pervicace e arcaico istinto militare: la politica come guerra, proseguita e combattuta con altri mezzi. Mossi dal bisogno di occupare e conquistare ad ogni costo maggiori capisaldi possibili; solo successivamente valutare l’opportunità di stringere accordi, di dare luogo ad alleanze. È straordinario che chi pone come propri valori e obbiettivi la pace, la giustizia sociale ed economica, la lotta ai pregiudizi di genere e alla violenza, la fratellanza, la democrazia, la solidarietà, l’ambiente, i beni comuni, non si renda minimamente conto della voce con cui parla, della divaricazione insopportabile tra i fini che declama e i mezzi che usa. Dobbiamo dismettere completamente strumenti e linguaggi intrisi di tensione guerresca, di militarismo più o meno occulto, contro chiunque sia diretto. Farla finita con strategie di lotta i cui obbiettivi sono disegnati e designati da tattiche armate tese a mettere in difficoltà, primariamente, chi potrebbe condividere pezzi più o meno importanti di strada con te. Una modalità pensata per esercitare successivamente, dai più grossi, il peso del potere, del contenimento, della messa in soggezione; accettati in molte circostanze, per altro verso, dai più piccoli, laddove essi intravvedano rendite di posizione, possibilità di contrattazione. Tutto in un gioco irresponsabile che ha portato quasi sempre, pressoché sistematicamente, al massacro, all’harakiri, alla sconfitta. Dobbiamo inoltre chiudere definitivamente con l’idea di considerare l’avversario politico – anche il più pericoloso, come quelli che abbiamo davanti oggi – come un soggetto da colpire nella propria persona, usando ogni mezzo, anche i più indegni. Hannah Arendt da un lato ed Etty Hillesum dall’altro o sono state lette male o nient’affatto!
Eppure in quelle piazze di marzo, dagli obbiettivi chiarissimi e palesemente condivisi, piene di fiducia e di determinazione – per non dire delle migliaia di iniziative e di luoghi che in tutto il paese, da lungo tempo, stanno avviando modi di relazioni nello spazio pubblico nei quali viene rinsecchita ogni pulsione alla sopraffazione ed emerge il rispetto per gli uomini e le donne, per la dignità di ognuna e di ognuno, che stanno sperimentando iniziative produttive, economiche ed ecologiche da cui sono escluse rapacità ed aggressività in luogo della condivisione e della cooperazione – quelle persone e quelle parti politiche c’erano tutte, hanno marciato insieme, hanno preso una concreta e simbolica parola pubblica. Cosa impedisce, e ha impedito, di trovare strategie e proposte politiche comuni e condivise da sottoscrivere prima degli appuntamenti elettorali, se non quell’atteggiamento retrivo, fondamentalmente violento e militarista di cui sopra? E’ piuttosto logico supporre che ogni persona che ha manifestato in quelle piazze sia considerata terreno di conquista, futuri soldati di una parte il cui primo avversario è quello che ha sfilato a fianco a te. Non certo, come una politica seria e responsabile dovrebbe, fonte di ascolto, di forza, di proposta; soggetto di relazione, di legame, di convivialità.
Demagoghi e rifascisti non li sconfiggeremo se non abbandoneremo quanto prima questo modo di pensare e di relazionarci, se non torneremo seriamente a parlarci e a trovare pezzi di strada condivisi e mattoni da mettere insieme per edificare quei ponti che tanto affermiamo di volere. Lo slogan “ponti non muri” deve valere – e vivere – in primo luogo per e tra le parti che si oppongono alla barbarie. Che credibilità avremmo, rispetto a chi vogliamo convincere a non dare consenso agli intolleranti e antidemocratici che ci stanno governando, se non fosse così? La domanda è retorica.
Chiusi nella più improbabile e sperduta Fortezza Bastiani non ci accorgiamo che potremo al massimo conquistare l’ultima desolata Kamchatka, su una plancia di cartone ammuffita, sulla pelle e sul futuro delle giovani generazioni.
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