La condivisione in un clic, con un altro modo di guardare. Per oltre 25 anni, Massimo Tennenini ha raccontato l’América Latina cercandone la profondità con uno sguardo e una tenacia impressionanti. La passione è un metodo che non si può insegnare, vive nel nesso corporale tra l’autore invisibile, la macchina fotografica e il soggetto, scrive Massimo Canevacci nella prefazione a Un’altra America, il libro che adesso racconta, a sua volta, quel che hanno visto gli occhi di uno straordinario fotografo che partecipa fin dall’inizio all’avventura editoriale di Comune. L’antropologia visuale, spiega Canevacci, è visione del mondo, linguaggio narrativo, espressione poetico-politica che cerca di modificare la percezione dell’altro. Il metodo è cosa complicata anche da spiegare a parole. Spesso si basa su una sensibilità estetica nel suo significato letterale del sentire. Sentire l’immagine, il soggetto, la scena che si annuncia di fronte. Cogliere il momento nell’attimo che si manifesta è un’arte che, nel caso di Tennenini, si intreccia con l’antropologia: scoprire che le più radicali differenze sono determinanti per una uguaglianza che non si basi sulla riproduzione del sempre uguale né dell’identico. La bellezza è il non-identico, poche immagini la sanno cercare, narrare e far vivere come queste
di Massimo Canevacci
Conosco Massimo Tennenini da quando era studente e forse anche prima nei movimenti generati dal ’68. Il mio primo seminario come ricercatore alla cattedra di Antropologia culturale fu sopra Gregory Bateson. Un autore che è rimasto impresso nella sua formazione di viaggiatore insaziato su diverse angolazioni. La prima, ovviamente sulla prospettiva dell’ecologia della mente: una trama che connette gli esseri umani alla natura nelle sue tante manifestazioni: una foresta di sequoia, le anemoni di mare, un panorama roccioso. Il respiro di queste connessioni, la loro trama, si manifesta nell’intrecciare e non nel separare ogni essere vivente, sia esso organico o inorganico. E poi la ricerca etnografica sul campo basato sull’uso della fotografia. Bateson aveva usato per primo in un modo ancora insuperato le sequenze fotografiche per focalizzare un determinato comportamento (per es. le tecniche di allattamento o le esperienze della trance) e così penetrare il modello culturale della società Balinese. La spiegazione di un rituale o di una personalità non è data una volte per tutte. È necessario elaborare ricerche differenti e concentriche su un determinato contesto. In questo senso, la ricerca visuale è interminabile. Si può approssimare alla “verità” senza mai poterla possedere del tutto.
Sotto questi diversi punti di vista, Tennenini sviluppa e applica l’antropologia visuale, che non è una sub-disciplina della più generale antropologia culturale: è visione del mondo, linguaggio narrativo, espressione poetico-politica che cerca di modificare la percezione stereotipa dello straniero, del diverso, dell’altro. Dell’altrove. Le sue opere hanno per soggetto la complessità di questi altrove. E tale alterità è stata configurata dalle spedizioni dell’autore verso le tante Americhe inedite e in particolare – direi essenzialmente – nei volti.
Il viso è un panorama da scrutare con la massima attenzione ed empatia per tentare di penetrare l’enigma che si manifesta nella profonda superficie del volto. E i volti costituiscono una costellazione vivente e vissuta di una umanità che ha subito una delle più atroci violenze da parte dell’illuminata Europa. Il collasso cosmologico realizzato dai conquistadores e da quello che si definisce ancora come descubrimiento non si è ancora risolto tantomeno placato.
https://comune-info.net/2019/04/un-altro-modo-di-guardare/
E allora i tanti volti da lui fotografati esprimono la complessità drammatica sospesa nel tempo tra le tante tragedie secolari irrisolte e forse irrisolvibili. Tutto questo è chiaro fin dalla prima straordinaria foto di una donna che fissa in camera uno sguardo calmo quanto enigmatico, le sopracciglia appena inarcate quasi a sottolineare l’impossibilità di essere “compresa”, presa-con, afferrata, spiegata, risolta. Le rughe sulla fronte che disegnano la successione di tempi e spazi. Le labbra ben disegnate da una insaziabile sensualità. E la bellezza ostentata di orecchini e vestito. Ma l’inquietudine si accende nel vedere I due assi di luce diagonali che tagliano la scena e fanno emergere dietro la porta l’altro viso, il viso dell’altro: un uomo in secondo piano, sospettoso e impotente, che può solo nascondersi di fronte a tanta bellezza illimitata e illimitabile.
Ogni foto è un concentrato di storie visibili e invisibili: a me ha colpito l’estrema dialogica che in genere l’autore sviluppa con le persone incontrate, dove ogni particolare è prezioso nei suoi dettagli più micrologici: la foto a p. 20 mostra un negozio aperto con il suo proprietario affacciato sulla stradina insieme alle sue merci a lui intorno, la mano appoggiata sul mento in attesa non tanto di clienti quanto di incontri, proprio come questo con Massimo su cui si dirige il suo sguardo silenzioso. A p. 24, in un altro negozietto, la donna se la dorme tranquilla mentre le riviste con donne sexy o famose fanno sognare storie d’amore impossibili. Scelgo infine la foto di p. 22 per una questione fondamentale di cui Massimo ha la capacità unica nello sviluppare dialoghi: quello degli occhi. Lo sguardo, infatti, determina la profondità di un viso e potrei dire che tutte le foto presenti nel libro sono collezioni di occhi. La complessità degli sguardi nell’incontro istantaneo e profondo con l’altro determinano narrazioni visuali inquietanti e indecifrabili. Certo, la mia fantasia può liberare storie nella consapevolezza che ogni osservatore potrà fare altrettanto nella sua autonomia. Se ogni foto è polisemica, cioè contiene significati e codici molteplici, il mio sguardo di osservatore (come quello di qualsiasi altro) incontra questi occhi mentre fissano mondi possibili senza poter avere un’unica spiegazione. Anzi, la bellezza inquietante di questi occhi obliqui – occhi sospettosi e desiderosi – che emergono da una finestra, dove le mani si sostengono e forse difendono la riservatezza dell’intero corpo, continuano a seguirmi e a interrogarmi senza alcuna possibilità di risposte conclusive. Su un piano diverso, nello stupore che questo testo emana, scelgo l’unica immagine in cui due ragazze sorridono (p. 29): sono gli unici sorrisi dolci e liberi dell’intera ricerca. Credo che non sia casuale il sorriso come eccezione: il senso del dramma cosmologico tende a coagularsi nella frontalità enigmatica dello sguardo. Le possibili felicità o dormono con le loro immagini o rinviano a un ulteriore altrove difficile da definire. Nei loro bianchi denti, nell’abbraccio amicale, nell’incontro felice con l’altro, continua a vivere la speranza della bellezza possibile in un mondo migliore.
Si evince anche il metodo dell’autore. Il metodo in antropologia visuale è cosa complicata anche da spiegare a parole. Spesso si basa su una sensibilità estetica nel suo significato letterale del sentire. Sentire l’immagine, il soggetto, la scena che si annuncia di fronte. L’istantanea – parola dai significati polisemici – si accende in alcuni momenti performatici. Hic et nunc. L’istantanea performatica determina la capacità sensibili di cogliere l’unicità irreversibile di un evento a noi di fronte e di fissarlo in quel momento e in quello spazio. Ma non solo. Questa è una tecnica che può essere praticata da qualsiasi bravo fotografo. Massimo Tennenini ha qualcosa in più che è il pulsare dell’etnografia: una radicale empatia con l’altro, una passione che sa cogliere le differenze per affermarne la potenza culturale in quanto ricchezza ecologico-mentale. Il suo sguardo sta dentro e fuori ogni contesto. Salta, per così dire, tra il familiare e lo straniero per cogliere l’altrove. Un altrove visual, filosofico e antropologico basato sull’inestinguibile bellezza dell’altro. La passione è un metodo che non si può insegnare ma che vive nel nesso corporale tra l’autore invisibile (Massimo non compare mai eppure è sempre presente), la macchina fotografica, il soggetto. Il clic dell’istantanea è il pulsare della performance. Cogliere il momento – carpe codex, per così dire, cogli il codice e fissalo – nell’attimo che si manifesta è un’arte che si intreccia con l’antropologia: scoprire che le più radicali differenze sono determinanti per una uguaglianza che non si basi sulla riproduzione del sempre uguale né dell’identico. La bellezza è il non-identico.
Ci sono alcune foto che fissano (nel suo doppio significato di guardare e bloccare) l’emozione irriproducibile, densa di un potere auratico, quasi sacrale nella sua immanenza. Quella bambina attaccata al seno di una mamma che lavora in una pausa del suo compito di donna mentre lei, la bambina dallo sguardo intelligente, si nutre del latte materno e dello scatto fotografico. Guarda in macchina. Osserva l’autore e tutti noi. L’istantanea non è una tecnica. È passione conoscitiva verso l’altro basata sulle sofferenze secolari di un dominio coloniale e neo-coloniale ancora potente. Non è un caso che Massimo Tennenini sia stato il primo (e non solo in Italia) a essere presente nella storica rivolta nella selva Lacandona. Il movimento Zapatista ha avuto in lui il suo costante riferimento solidale e ha formato diversi altri studenti-ricercatori. Non è solo politica. È qualcosa di più complesso: è saper osservare e sentire il dramma cosmologico che ha infranto i tanti multiversi delle culture indigene durante il genocidio sia fisico che culturale. In ogni immagine pulsa ancora l’orrore di questo genocidio per riscattarlo e liberarlo – se mai possibile – da tale dominio.
La sua tesi di laurea si è basata su una ricerca sul campo in una cultura (all’epoca a me ignota) di persone che dovevano essere ridotte in schiavitù e che invece scelsero la loro libertà in una piccolo area della attuale Colombia: il Chocò. Tra queste palafitte, scelgo una vera istantanea: a p. 137 tre giovani passeggiano con ostentata virilità, mentre una donna con una bambina li osserva con interesse e una adolescente sullo sfondo sembra imbronciata nel dover lavorare.
Infine vorrei sottolineare due sequenze per me particolarmente perturbative: la prima è una classica rappresentazione del potere sciamanico del curandero (p. 83 e seguenti). È da notare il copricapo (ma tante foto sono una collezione di cappelli delle più svariate forme) dal disegno che sembra uscito da uno stilista di moda contemporaneo, con l’animale totemico che si innalza dalla fronte mentre i fumi di copal circondano e penetrano e purificano il paziente. L’alterazione del corpo e della mente è diffusa tra tutte le culture pre-colombiane e costituiscono un valore simbolico inestimabile. La seconda mi ha sorpreso ancora più profondamente per l’assoluta novità: l’isola delle bambole. La storia che rappresenta, che sia reale o un mito è indifferente, in quanto la forza che sprigionano queste immagini è veramente perturbante. L’ossessiva collezione di bambole raccolte nel peregrinare di Don Juan, per essere appese tra alberi, recinti o bastoni, sembrano il prodotto di un artista contemporaneo o di una scenografia vista tante volte al cinema. Don Juan è contemporaneo nel senso che unisce tutti i tempi possibili su un mito – quello dell’adolescente annegata – che è fonte di un tragico desiderio tante volte immaginato e riprodotto. In queste immagini di bambole deturpate, sporche, lacerate sopravvive la speranza di una giustizia tante volte cercata e sempre rinviata in tutte queste Altre Americhe. La liberazione dall’orrore del passato e l’immaginazione di futuri liberati.
L’opera di Massimo Tennenini ci accompagna in questo itinerario culturale, che è stato definito da Eduardo Galeano, grande scrittore uruguaiano, Le vene aperte dell’America Latina. Ogni volto che ci osserva scorre in queste vene ancora aperte che non possono rinchiudersi né cicatrizzarsi, bensì continuano a scorrere rosse e vive per lasciare ogni osservatore nella solitudine della propria riflessione. E delle scelte necessarie …. Le vene dei volti e degli occhi
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