La scuola dovrebbe preparare i bambini a entrare in un mondo da cui è invece quasi sempre separata. Lo è fisicamente, con muri e cancelli invalicabili che “proteggono” i nostri figli indicando il confine del pericolo esterno, le minacce della strada, simbolo diseducativo per antonomasia. E lo è dal punto di vista normativo e concettuale, attraverso mille regolamenti e ostacoli di diversa natura che allontanano chi studia dal territorio in cui vive, dalla realtà di ogni giorno. Possiamo rompere questa separazione? Possiamo aprire i cortili, le aule, i piani formativi e vincere l’ostracismo di dirigenti scolastici prigionieri di responsabilità segnate dall’isolamento e da paure quasi sempre generate dall’astrazione? La scuola è un bene comune per natura, può diventarlo anche per scelta consapevole. Accade, per esempio, quando apre la sua comunità educante alla città. Impressioni su una straordinaria giornata di libera discussione con la Rete romana delle Scuole aperte e condivise
La scuola deve essere un po’ meglio della società che ci circonda. Franco Lorenzoni lo ripete spesso. Difficile, per chi non si accontenta di vivere di rimpianti, non essere d’accordo: la scuola guarda e costruisce il futuro. Ma adesso che abbiamo visto l’invisibile, con l’immagine dell’ombra cosmica di un buco nero, è davvero così assurdo pensare di poter riaprire anche per la società qualche categoria del campo del possibile? E possiamo farlo, adesso, qui, proprio a partire dal mondo che, almeno in teoria, dovrebbe coniugare meglio la relazione tra l’apprendere e il fare di ogni giorno? Possiamo immaginare, piuttosto che una generica buona educazione in città, una nuova città educante?
La portata epocale dell’annuncio degli astronomi ha avuto in questi giorni anche il grande merito di portare, perfino in un autobus romano, persone comuni ad avventurarsi in discussioni sui corpi celesti, lo spazio-tempo, la scienza e le possibilità di guarire l’inguaribile. Si tratta, certo, di casi isolati: sugli autobus romani la gente in genere non alza gli occhi dallo smartphone. Eppure, perfino uno soltanto di quei casi riesce ad alimentare qualche fantasia: potrebbe rinascere una città, profondamente malata, che non muore mai ma neppure guarisce, condannata com’è (o almeno sembra), da decenni, a vivere un eterno stato terminale?
A coltivare la speranza che Roma possa rinascere, per la verità, oggi non sono in molti. Lo sono di certo, tuttavia, i suoi abitanti che non hanno rinunciato a un’idea di futuro. Se dunque, come si dice a ragione, per avere un’idea delle condizioni in cui versa lo stato di salute della sua democrazia, bisognerà varcare i cancelli di Rebibbia o Regina Coeli (o almeno aver visto Sulla mia pelle), per farsi un’idea delle reali possibilità di una più che sorprendente rinascita della città eterna, sarà utile guardare a quel che si muove nei cortili e nelle aule delle scuole.
Un’ottima occasione per farlo si è avuta sabato 6 aprile, quando alla scuola Di Donato del quartiere Esquilino si è tenuto un incontro intitolato: “Roma rinasce dalle scuole aperte e condivise”, era promosso dalla Rete Romana Scuole Aperte Partecipate e dal Progetto ScApPaRe. Dal 2014 a oggi, le associazioni di genitori, motore indiscusso delle esperienze di cittadinanza attiva che vedono le scuole protagoniste di questa preziosa rete informale, sono passate da 6 a 25. Contando i comitati che si sono mossi, con alterne fortune, su percorsi simili, si arriva a una sessantina di realtà, cioè di veri soggetti della cittadinanza attiva.
Le radici delle esperienze di apertura dei luoghi che dovrebbero preparare i bambini a vivere in un mondo da cui sono invece fisicamente e rigidamente separati – basti pensare a quante mura, sbarre, cancelli e reti metalliche li “proteggono” da un esterno vissuto solo come minaccia – affondano saldamente nel rifiuto dei modelli statalista e aziendalista, entrambi gerarchici. Le scuole aperte sono state (e restano) uno dei punti più “alti”, in termini di autonomia, del far da sé della società italiana degli ultimi anni. Ciò non toglie che l’apertura, naturalmente orientata al territorio – inteso come soggetto vivo ben oltre il puro elemento geografico – imponga il rilievo strategico dell’importanza della relazione con le istituzioni politiche locali, quelle che sono, o dovrebbero essere, più vicine ai bisogni sociali delle persone.
In questo senso, va segnalata con piacere l’interlocuzione offerta dai municipi II, III e VIII, oltre naturalmente al Primo municipio della capitale, presente all’incontro del 6 aprile con la presidente Sabrina Alfonsi, che ha spiegato come “non basti combattere gli abusi per rendere una città vivibile accogliente”. L’assessore Giovanni Figà Talamanca, dello stesso municipio, ha ricordato invece come la Di Donato sia “un’esperienza che ha saputo trasformare la scuola in piazza” aprendo poi un “percorso lungo” verso una dimensione cittadina della rete. Di segno del tutto opposto il silenzio mostrato fin qui dalla giunta comunale romana.
Un silenzio assai poco comprensibile, tenendo presente che l’esperienza delle Scuole Aperte Partecipate, centinaia in tutta Italia, ha trovato altrove interlocuzioni piuttosto feconde. Emblematico il caso di Milano, dove le 60 associazioni di genitori presenti hanno spinto il Comune a creare un Ufficio dedicato esplicitamente a questa relazione politica, come ha ben raccontato Giovanni Del Bene, psicologo ed ex vicepreside dello storico Istituto Sperimentale Rinascita-A. Livi, che di quell’Ufficio è responsabile.
Al centro dell’incontro romano del 6 aprile – insieme al confronto sulle possibilità concrete di allargare e consolidare la rete cittadina, frutto di un lavoro assai generoso e di un impegno paziente e robusto sul piano organizzativo -, c’erano comunque diversi aspetti di concettuali e di merito. Aspetti essenziali in un’impresa ambiziosa, tutta politica e tutt’altro che agevole: cambiare la scuola e i suoi tempi. Lo testimoniava, tra l’altro, la discussione forse un po’ disordinata ma estremamente ricca tenuta nei laboratori: da quello sulle normative a quelli incaricati di lavorare a un Manifesto e a un Vademecum sulle scuole aperte e partecipate, passando per la scuola aperta vista dai bambini e per le scuole superiori con la partecipazione attiva degli studenti.
Il punto di partenza, ma anche il filo rosso dell’intero confronto, non poteva non dipanarsi a partire dall’idea della scuola e dell’educazione come bene comune. Esistono, al di là delle dichiarazioni d’intenti, l’energia e le potenzialità cittadine per ripensare e costruire, passo dopo passo, un sistema educativo democratico e partecipato in grado di includere tutti e di porre finalmente l’interesse generale al di sopra di quelli privati o individuali? E ancora: l’apertura alla città reale, e la conseguente relazione non episodica con il territorio, sono in grado di usare la lingua della convivenza non solo per misurarsi con le nuove geografie e il pluralismo delle culture ma anche con le “sacre” compatibilità imposte da una concezione dell’economia come variabile indipendente e sempre astratta dai bisogni delle comunità?
Nella prima mattina, una preziosa cornice giuridica al lavoro delle scuole era stata fornita da Gregorio Arena, presidente del Laboratorio Sussidiarietà (Labsus) e animatore della Coalizione per i Beni Comuni, una rete di cittadinanza attiva, nata proprio per presentare al Comune di Roma una Delibera di Iniziativa Popolare per l’approvazione di un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni. L’attenzione di Arena era focalizzata soprattutto sulle normative e i Patti di collaborazione, strumenti ritenuti indispensabili a far avanzare i concetti chiave della condivisione di impegno e responsabilità tra soggetti diversi.
I beni comuni, ricordava il giurista, sono quei beni che, se arricchiti, arricchiscono tutti e, se impoveriti, impoveriscono tutti. Una ricchezza non certo misurabile solo in euro, ma generata da tipologie di risorse molte diverse tra loro. Non a caso, aveva precisato Arena, per l’amministrazione la responsabilità è un dovere, mentre per i cittadini ha il valore aggiuntivo di una scelta. Non si tratta certo di un elemento trascurabile, in un paese che ha una lunga e nefasta storia di “menefreghismo”. Ne deriva, per fare solo un esempio, che non solo l’attività volontaria dei genitori ma l’intera scuola, un bene comune per natura, può diventare bene comune anche per scelta, attraverso la partecipazione ma soprattutto attraverso la condivisione.
Particolarmente significativa la citazione di un dialogo rimasto indelebile nella memoria del fondatore di Labsus. Un dialogo che racchiude in sé buona parte dell’ispirazione e un tratto davvero essenziale di questa peculiare forma di movimento nelle scuole: “Ricordo bene quando, molti anni fa, passeggiando nel grande cortile della Di Donato, Gianluca Cantisani mi disse: ‘Vedi questa scuola? Dalle 8 alle 16 è un bene pubblico, mentre dalle 16 alle 22 diventa un bene comune”. Cantisani, il più carismatico tra i fondatori dell’Associazione dei genitori della Di Donato, è ancora oggi, pur impegnato come presidente del MoVi, il tessitore più infaticabile della trama fitta delle Scuole Aperte in giro per l’Italia. Un impegno di straordinaria rilevanza, se si tiene conto che nella scuola la partecipazione attiva dei genitori è destinata, per la sua stessa natura, a passare la mano con la crescita dei figli. Il protagonismo dei genitori, insomma, a differenza di quello dei presidi o degli assessori, contiene un antidoto democratico in sé.
La dilatazione del tempo di utilizzo di uno spazio pubblico indicata da Cantisani, nella straordinaria ricchezza che da 15 anni segna l’esperienza della Di Donato, si accompagna alla dilatazione dello spazio. Lo ricordava, proprio nell’apertura dell’incontro e in modo assai efficace, Silvia Stefanovichj, attuale presidente dell’Associazione dei genitori della scuola dell’Esquilino e coordinatrice del progetto ScApPaRe: “Non dobbiamo dare per scontata questa nostra ricchezza accumulata in 15 anni. La nostra vera ricchezza è la rete, il valore relazionale di una crescita comunitaria”.
Se oggi appare sensato sostenere come i cambiamenti profondi nella scuola possano generarsi molto più in ogni classe che diventa piccola comunità del fare-insieme che non attraverso una riforma ministeriale, è altrettanto vero che ogni scuola dovrà prendersi cura dell’apertura al mondo del suo cuore, il muscolo da cui ogni giorno fluisce la circolazione delle relazioni interne ed esterne all’istituto, la crescita della comunità che educa. “Da noi alla Di Donato”, ha detto Silvia in uno dei laboratori, “il cuore è il nostro cortile”.
Un cortile che, giorno dopo giorno, inventa mondi nuovi e nuove relazioni sociali, un cortile che ha saputo diventare piazza, riportando così anche i bambini nella città. È stato così che alla dilatazione del tempo e dello spazio, nella scuola aperta e condivisa, si è unita la velocità del sogno. Viviamo in un tempo in cui i cittadini più piccoli sono spinti a pensare la strada solo come ambiente portatore di minacce, un simbolo diseducativo per antonomasia. Sarà probabilmente proprio quel cortile-cuore-piazza, invece, il cortile dei giochi spontanei e dei sogni da rincorrere insieme, che li potrà difendere da una cultura dominante che li vuole solo impegnati in attività decise dagli adulti o immersi fino al collo negli schermi dei videogiochi. La scuola dovrà continuare a essere un po’ meglio della società ma, intanto, può cominciare a cambiarla profondamente.
giuseppe campagnoli dice
C’è già un manifesto per una scuola diversa, diffusa, partecipata e senza muri. Un manifesto per una intera città educante. Uniamo gli sforzi e le idee. Non sparpagliamoci! https://comune-info.net/2018/07/manifesto-educazione-diffusa/