di Paolo Moscogiuri*
È sotto gli occhi di tutti che la società italiana stia attraversando una forte fase di chiusura e auto isolamento. Isolamento non solo collettivo, ma anche individuale. Quella nostalgica immagine delle strade piene di bambini giocosi e urlanti, di parchi pubblici utilizzati per concerti o teatrini delle marionette, di piazze piene di gruppi di persone che si scambiano idee e punti di vista, o di comizi pubblici, ecc., è ormai relegata a illustrare solo qualche libro di storia. Ma se il passato non si può far tornare indietro, bisogna però cercare di capire dove ci porta il presente, perché non è detto che sia sempre migliore.
L’educazione scolastica è rimasta per me, l’ultimo baluardo capace di bloccare questa brutta trasformazione sociale verso l’isolamento e la robotizzazione delle nuove generazioni. Trasformazione che utilizza il sistema della competitività, della prestazione e della falsa meritocrazia, e che rende
“l’apprendimento una gara, una corsa ad ostacoli che non può dedicare tempo sufficiente alla riflessione critica” (Massimo Recalcati, L’ora di lezione).
L’isolamento fisico dell’infanzia è iniziato alla fine degli anni Cinquanta con la trasformazione delle città in parcheggio diffuso. Da allora e per gradi, i bambini che da sempre sono stati i padroni assoluti della strada, delle piazze e dei cortili, sono stati spinti in spazi chiusi e controllati, così come tutta l’utenza più debole.
Ecco allora che per riportare la città a quell’uso relazionale che la rende viva e non agonizzante come ora, è fondamentale, a mio avviso, che la scuola si faccia artefice anche della riappropriazione degli spazi urbani in favore dei bambini, affinché inizi una nuova fase di ricostruzione del tessuto sociale ora lacerato, e in grado forse di condizionare le scelte politiche sulla scuola e sull’educazione.
Per questo è necessario che la scuola esca dai suoi spazi chiusi e confinati, e sia in grado di fare lezione anche nelle piazze, nelle strade e nei luoghi pubblici, mettendo in gioco tutti e cinque i sensi, e viceversa che la “città” entri nella scuola.
https://comune-info.net/2018/05/semi-di-scuola-diffusa/
Nel primo caso si può cogliere l’occasione per trasmettere ai bambini i modi di giocare all’aperto utilizzando le risorse del luogo: disegnando per esempio in terra il gioco della campana seguendo la forma della pavimentazione (fosse anche piazza della Signoria o piazza san Marco), far navigare una barchetta di carta nella fontana pubblica (fosse anche quella del Bernini), rincorrersi e prendersi, con salvataggio se si sale su un gradino o su una pietra bianca o se si tocca un particolare materiale o parte di un edificio; le regole sono infinite e tutte a scelta o inventate dai bambini stessi, così come i giochi basati sul riconoscimento delle dimensioni, del concetto di quantità e qualità, di relazione, di memoria, di profondità e di spazio.
https://comune-info.net/2017/06/una-scuola-oltre-le-mura-educazione-diffusa/
Nel secondo caso, sarà la “città” a entrare nella scuola, quando i suoi spazi, cortili e palestre rimangono a disposizione dei cittadini nelle ore di non lezione, come nel felice esempio, per citarne uno, della scuola multietnica Federico Di Donato, a Roma.
https://comune-info.net/2018/05/aperto-cortile-della-scuola/
Ma non posso e non voglio sostituirmi al pedagogo, ma solo suggerire, perché l’architetto ha bisogno dei bambini per calibrare i suoi interventi a misura di tutti, e i bambini e gli insegnanti hanno bisogno di luoghi dell’educazione adeguati e stimolanti; e quali migliori delle nostre piazze rinascimentali o medioevali?
I bambini italiani posseggono sotto casa i più bei luoghi del mondo per esprimere se stessi in continuità con la Storia e in contiguità con la Scuola. Ogni gioco si può facilmente trasformare in occasione di insegnamento, ma nel contempo di riappropriazione di uno spazio pubblico, imparando a conoscerne le forme e i materiali e trasformando piazza della Signoria o piazza Navona o quella più modesta del paese, da parcheggio o “turistificio” a luogo vero, quello dove la vita sociale ha lasciato tracce e stratificazioni e dove il “genius loci”, mandato ora in pensione, possa riaffacciarsi e far parte nuovamente della vita cittadina. Sarà impossibile poi, nelle giornate di non scuola, impedire ai bambini di tornare nei luoghi pubblici per proseguire i giochi e gli apprendimenti iniziati; e la riappropriazione si avvia.
Scrive Vittorino Andreoli in Dalla parte dei bambini:
“…il luogo più naturale della commedia umana è la strada, un luogo in cui ci si trova già e in cui non è necessario recarsi. È il marciapiede davanti al portone dell’abitazione, dove ci si può incontrare casualmente e si può recitare. Lì si potranno esprimere i propri desideri uscendo da una concretezza che è difficoltosa o, talora, penosa per entrare nel libero e impegnativo gioco della fantasia”.
*Architetto, autore di La città fragile (ed. ilmiolibro)
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