di Miguel Martinez*
Immaginiamo un giardino normale dove io – se sono proprio bravo – butto i rifiuti in un bidone. Poi, mesi dopo, pago le tasse. Che per uno strano giro arrivano a una ditta che incarica un’altra ditta di incaricare una cooperativa di svuotare quel bidone. Tutte azioni non hanno alcun rapporto evidente tra di loro.
Da noi, invece, il bidone lo mettiamo noi, lo svuotiamo noi… e quindi ci accorgiamo che esistono i rifiuti, anzi che sono il principale prodotto di tutto il sistema di cui facciamo parte. È la puzza e il peso che fanno sì che ci pensiamo, mica le chiacchiere degli ecologisti. Insomma, nasce una particolarissima combinazione tra l’attenzione che il privato ha per le cose sue, e lo spirito del bene comune che dovrebbe essere del pubblico.
È una cosa molto piccola, una goccia d’acqua, però dentro potenzialmente c’è un mondo: perché si impara ad affrontare le cose senza bisogno di complicazioni ideologiche. È un modo concreto di agire, che alla fine tocca tutto – società, economia, ambiente, identità, paesaggio – e che definiamo con termine inglese, commoning. Un modo che non rientra nei due poli riconosciuti, lo Stato e il Mercato, il pubblico e il privato.
In realtà, il termine commoning l’abbiamo scoperto dopo, prima l’abbiamo fatto e vissuto.
Sono interessanti le critiche che questi miei racconti ricevono qui.
La prima è, “non esiste”.
Esistono i Politici e gli Individui. Gli Individui eleggono i Politici ogni cinque anni e i Politici decidono. Altro, non s’è mai visto (a parte qualche Giudice). Che dire? Il commoning è diffuso da un capo all’altro del mondo; solo che chi pensa a vivere insieme agli altri, non ha la mentalità del pubblicitario, non ha niente da vendere e non ha le famose idee, nel senso di fissazioni personali da imporre agli altri. E quindi, non è che non esiste; è che si fa sentire pochissimo. Non fa spettacolo.
La seconda critica è, “certo che esiste, ma non dovrebbe”.
O c’è lo Stato (in Francia, direbbero con un sospiro devoto, La République) che da Trapani a Tarvisio (o da Lisbona a Varsavia) ha il controllo totale e in ogni momento sulle persone, oppure c’è la mafia e la legge della giungla, i tagliagole, il Medioevo, l’australopiteco insomma. Il Cittadino ha un problema? Si rivolga al Giudice in carta bollata, e si paghi l’avvocato, che è stato formato apposta. È un’obiezione un po’ terrificante. A parte precisare che tagliamo gole molto di rado, è oggettivamente difficile rispondere a gente così sicura di sé. Magari far notare umilmente che se la gente è spesso cattiva, perché mai quelli che comandano sulla gente dovrebbero essere buoni?
La terza è, “in Oltrarno voi siete gente ragionevole, cooperativa, volenterosa, capace, nel resto del mondo non è così e quindi la vostra esperienza non conta”.
Grazie dei complimenti, ma non siamo così eccezionali, e non siamo nemmeno un simpatico villaggio da cartolina. Anzi il nostro è uno dei contesti più urbani della storia. Ed è multietnico dai tempi dell’immigrato armeno Miniato, che quando i romani lo decapitarono, si prese pazientemente sottobraccio la propria testa, attraversò l’Arno a guado e risalì la collina. Nasciamo in un quartiere devastato dalla speculazione, lottando contro uno squalo particolarmente feroce e con un contorno di politici di cui preferisco non parlare. A queste circostanze, si è opposto un gruppo di toscanacci talmente scontrosi che hanno letihato tutti tra di loro e quando si incontrano per strada, evitano ostentatamente di salutarsi. Noi siamo sopravvissuti a questo manicomio, e invece di litigare ci siamo messi a costruire.
Con alcuni bambini che appena pianti l’orto si divertono a saltarci sopra a piè pari, mamme che fumano in faccia ai bambini e guai a dire loro qualcosa, figlioli che rubano le scarpe agli altri e li ficcano dentro il cesso, gente che butta le cartacce per terra… insomma, un’umanità assolutamente normale. Però abbiamo risvegliato anche l’altro lato dell’umanità, antico e naturale quanto il lato antipatico: la parte ragionevole, cooperativa, volenterosa (leggi anche Il giardino magico di Firenze) e capace, per capirci. Esatto, le medaglie hanno due lati.
L’obiezione terza e mezza… “dicevamo, la vostra esperienza non conta, perché l’umanità è spesso cattiva, e non basta essere ragionevoli, cooperativi, volenterosi e capaci, per difendersi dai pericoli…”
Certo, ma è un buon inizio per difendersi dai cattivi. Meglio essere in parecchi e svegli, che singoli e addormentati.
E qui arriviamo all’obiezione più seria: “Boh, da voi sarà così, da noi qui certamente no, quindi la vostra stranezza toscana non ci interessa, grazie”.
Qui c’è un fondo di verità: perché da noi è possibile, e da voi no? Dipende da cose molto concrete, tutte in bilico. Airbnb, ad esempio, sta svuotando il quartiere dei suoi abitanti, e alla fine non ci sarà forse nemmeno un’umanità che possa fare comunità. Ci sarà soltanto una ditta che incassa 30 miliardi di dollari gestendo un banale sito web e qualche indigeno che si gode i suoi precari guadagni altrove, mentre la gente semplice viene cacciata di casa per farci venire una folla di vaevieni con il trolley che fa tricchetracche sui marciapiedi la notte. Però, adesso, qui ci possiamo ancora incontrare tutti, fisicamente, per strada. Poi abbiamo a disposizione un giardino, in cui – per un bizzarro caso di donazioni storiche – possiamo filtrare gli ingressi: vuoi suonarci il violino, benvenuto… vuoi farci la rave party, fuori, non hai il permesso di entrare. E questa piccola crepa nel cemento, permette alla vita di rinascere.
Qui arriviamo al vero punto. Sono le politiche – nel senso più ampio della parola – che rendono possibile o impossibile il commoning. Prendiamo il sistema dello zoning tipico degli Stati Uniti (e ampiamente riflesso da noi), dove c’è la zona residenziale per ricchi, quella residenziale per sfigati, quella per i centri commerciali, quella per le scuole, tutte collegate da affollate piste per automobili. Lì le persone non potranno mai incontrarsi, se non dentro spazi che appartengono a qualcuno che non sono loro (discoteche o grandi magazzini, ad esempio).
Ma pensiamo anche a una piccola norma burocratica che prevede che il funzionario statale che concede l’uso di uno spazio pubblico, sia responsabile della mancata messa a reddito di tale spazio, se lo fa usare alla comunità anziché a privati che pagano.
A questo punto, capiamo che la vera domanda è, vogliamo o no una politica che favorisca i Commons? E qui bisogna proprio cambiare testa.
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Piccolo esempio di fantasia: un giardino viene meglio messo a reddito se ci si apre un bar che paga qualcosa al Comune. È vero, son più soldi per le istituzioni. Ma gli avventori buttano le bottiglie per terra, e bisogna mandarci gli spazzini; le famiglie scappano dal giardino e inquinano e consumano strade pubbliche per portare i figli ad attività a pagamento da qualche altra parte; e poi, siccome c’è troppo casino, si trasferiscono in periferia e per andare al lavoro, la nuvola di particelle sottili che le loro auto producono fanno aumentare le degenze negli ospedali.
Chiude il negozietto sotto casa che dava lavoro a una famiglia intera; e in periferia si forma il quartiere delle villette dei bianchi e quello dei palazzoni con dentro i marocchini, e poi bisogna mandare la polizia a fare controlli un giorno sì e l’altro pure, ed entrano in panico i bianchi, e poi si spende tutta la rendita dell’affitto del bar per pagare una cooperativa di sfigate neolaureate a fare inutili prediche contro il bullismo e la xenofobia.
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