Donald Trump non deve dar molto peso alla storia. Probabilmente ignora il fatto che quasi cento anni fa Richard Lansing, un geniale segretario di stato degli Stati Uniti, intuì che c’era un modo per controllare e tenere in stato di profonda subordinazione il Messico senza spendere soldi né mettere a rischio soldati. Bastava prendere in carico la formazione dei giovani che sarebbero diventati presidenti. Avrebbero fatto loro quello che gli Usa ritenevano necessario più facilmente e meglio di un cittadino statunitense, imposto magari attraverso una sanguinosa invasione. Controllare un presidente imperiale oggi non basta più ma la classe politica che governa il Messico ha ancora la stessa formazione ideologica. Chi la combatte avverte però che il capitalismo non è più soltanto un modo di produzione o una forma di organizzazione sociale. Comprende tutti gli aspetti della vita sociale ma anche psicologie ed emozioni, comportamenti e atteggiamenti, desideri e aspirazioni. Non è soltanto nelle mani dei padroni dei mezzi di produzione e dei loro amministratori dello Stato ma ha permeato la società intera penetrando ovunque. Non si tratta, tuttavia, di un monolite onnipotente e onnipresente. La resistenza è sopravvissuta, continua a crescere con il malcontento e comincia a capire che il nemico più pericoloso è quello che portiamo dentro
La pressione dall’esterno è formidabile e continuerà ad aumentare. Ma il nemico principale è all’interno… spesso completamente interiorizzato.
Qualche giorno dopo che Carlos Salinas si insediò come presidente (1988, ndt), uno dei suoi collaboratori più prossimi mi disse: “Abbiamo valutato tutte le variabili e tutte le opzioni. L’unica uscita dal pantano in cui siamo finiti è salire sul treno statunitense, anche se dovessimo farlo come carro merci“. E questo hanno fatto. Non hanno esitato a pagarne il prezzo: un aggressivo smantellamento del paese che è tuttora in corso.
Miguel de la Madrid aveva già imboccato quella strada. Due successivi colpi di stato gli avevano permesso di tradurre in canto del cigno il proclama di nazionalismo rivoluzionario formulato da José López Portillo, colui che si auto-definiva l’ultimo presidente della Rivoluzione. Portillo fu coraggioso nel dire di No al Gatt, nonostante le immense pressioni, come anche nel nazionalizzare le banche private. Ma fu lui stesso a chiudere questa strada quando designò il proprio successore.
Miguel de la Madrid era stato fino ad allora un grigio funzionario del Ministero delle Finanze e della Banca del Messico. Da presidente mantenne entrambe le funzioni, la seconda risultò terribilmente dannosa.
Fin dagli anni ’40 del secolo scorso questa mafia preparò lo schema che oggi ci mantiene nel disastro. Perfino prima di andare a dirigerla, don Rodrigo Gómez concepì un fondo fiduciario della Banca del Messico che avrebbe permesso di rendere realtà quello che era il sogno di Richard Lansing, segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, nel 1924: “Il Messico è un paese molto facile da dominare, perché basta controllare un uomo solo: il presidente. Dobbiamo abbandonare l’idea di nominare alla presidenza messicana un cittadino statunitense, perché questo ci porterà di nuovo alla guerra. La soluzione necessita di più tempo: dobbiamo aprire a giovani ambiziosi le porte delle nostre università e fare lo sforzo di educarli al modo di vivere statunitense, ai nostri valori e al rispetto del ruolo guida degli Stati Uniti. Il Messico avrà bisogno di amministratori competenti. Con il tempo, quei giovani occuperanno posti importanti ed eventualmente s’impadroniranno della Presidenza. Senza bisogno che gli Stati Uniti spendano un centesimo o sparino un solo colpo, essi faranno tutto ciò che vogliamo. E lo faranno meglio e in modo più radicale di quanto lo faremmo noi”.
Come aveva previsto Lansing, la strategia richiese parecchio tempo… ma funzionò. Miguel de la Madrid fu tirocinante presso don Rodrigo… ad Harvard. Carlos Salinas e Felipe Calderón furono addestrati ad Harvard, Ernesto Zedillo a Yale e Vicente Fox alla Coca-Cola.
Questo schema è certamente logoro. Non funziona più la cosiddetta “presidenza imperiale”: non basta controllare il presidente. Il governo ha smesso di avere amministratori competenti, come ai suoi tempi fu Ortiz Mena. Ma la classe politica è tuttora dominata dai “primi statunitensi nati in Messico”, come li chiamava Monsiváis. Le loro debolezze e corruttele sono tante che il governo degli Stati Uniti ha sentito il bisogno di investire qualcosa di più che pochi centesimi e molte armi per continuare a mantenere il controllo, con programmi come l’Iniciativa Merida o Fast and Furious.
Prova delle inclinazioni di quella classe politica è il Trattato di Libero Commercio per l’America del Nord. Al contrario di quello che pensa il signor Trump, non si è basato nell’astuzia messicana, ma nella convinzione di Salinas e compagni che fosse indispensabile sottomettersi agli Stati Uniti. Il TLCAN è stato un disastro per il Messico, sotto tutti gli aspetti. Ma là in alto non è concepibile abbandonare uno degli strumenti principali della nostra subordinazione. Ancora meno possono immaginare che la lotta attuale sia necessariamente anticapitalista. Non c’è partito o candidato a una carica pubblica qualsiasi che osi dirlo, o persino pensarlo.
La lotta dei giorni nostri, quella che dobbiamo sferrare per sopravvivere di fronte a minacce senza precedenti, è inevitabilmente contro il regime dominante. Non si tratta solo di espropriare gli espropriatori, come si diceva un secolo fa. Il capitalismo non è più soltanto un modo di produzione e una forma di organizzazione sociale. Comprende tutti gli aspetti della vita sociale, inclusi psicologie ed emozioni, comportamenti e atteggiamenti, desideri e aspirazioni. Non è soltanto nelle mani dei padroni dei mezzi di produzione e dei loro amministratori statali. Ha permeato la società intera penetrando in tutti i pori.
Non si tratta però di un monolite onnipotente e onnipresente. La resistenza è sopravvissuta in molti spazi della nostra realtà. E’ impossibile incontrare qualcuno che non soffra di un certo grado di contaminazione, ma esistono ancora, soprattutto tra i popoli originari e nel loro spirito comunitario, modi di essere e di pensare che sono portatori di una vocazione anticapitalista. Allo stesso tempo, l’immensa onda violenta e distruttiva che caratterizza ciò che molti considerano la fase finale di quel regime, quella che fa della lotta attuale una lotta per la sopravvivenza, sta moltiplicando gli spazi nei quali la lotta contro il capitale comincia nel cuore, nella testa e nelle mani di persone sempre più scontente di quello che avviene. E così si sta formando una forza sociale in grado di dare uno sbocco politico trasformatore alla ribellione e all’indignazione che sono sempre più diffuse.
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