di Michele Meomartino*
Gli aspiranti nonviolenti cercando di mettere in pratica gli insegnamenti di Gandhi e di Capitini hanno appreso che la pace si costruisce anche nel piatto. Il cibo che compriamo, i nostri acquisti, ciò che mettiamo nel carrello della spesa non sono azioni ininfluenti. Francuccio Gesualdi, tra i “padri” del consumo critico, paragona l’acquisto al voto.
Nel bene e nel male possono cambiare la nostra vita e il futuro del Pianeta perché i nostri stili di vita possono favorire un processo verso una nuova civiltà che abbracci anche il mondo animale e vegetale, oppure, al contrario, accelerare l’attuale deriva catastrofica, con il surriscaldamento climatico globale che sta mettendo seriamente a rischio la sopravvivenza del pianeta.
Sia Gandhi che Capitini adottarono una dieta vegetariana come regime alimentare. Secondo autorevoli storici, le due grandi novità del secolo scorso furono la scoperta dell’atomica, con tutte le ben note conseguenze che conosciamo, e la nonviolenza che ha indicato un’altra strada per la risoluzione dei conflitti e per vivere in pace e in armonia.
Ricchi sono i documenti sul pensiero e l’azione del Mahatma, meno nota è l’influenza, che avuto nella diffusione di una cultura della pace, del pensiero di Aldo Capitini, ma l’opera del filosofo umbro è di fondamentale importanza per comprendere la modernità. A riguardo qualche informazione è doverosa.
Il 12 settembre 1952, a Perugia, Capitini, con altre persone, fondò la prima associazione vegetariana (Società vegetariana italiana). Fu la naturale conseguenza della sua scelta nonviolenta che lo portò qualche anno dopo (24 Settembre 1961) ad organizzare la marcia della pace Perugia–Assisi. Il professore perugino riteneva che nella costruzione di una società nonviolenta, la scelta vegetariana e l’antimilitarismo erano i primi due gradini da percorrere. Fu anche il fondatore del Movimento Nonviolento (10 gennaio 1962). Ma ritorniamo alla scelta vegetariana in relazione alla pace e in particolare alla mia piccola testimonianza che porgo a tutti nella speranza che si generi una maggiore e più matura consapevolezza.
Inizia tanti anni fa dal ricordo, ancora vivido, della solitudine dei maiali, e dalla depressione che si abbatteva su queste bestiole, quando, proprio in prossimità delle feste di fine anno, iniziava la loro terribile mattanza. La mia ipersensibilità di bambino fu sconvolta nel constatare che, dopo l’assassinio del primo con il suo carico di strilla e di angoscia, il resto della “comunità dei porci” viveva nel terrore della morte imminente.
Le povere bestiole cadevano in depressione e rifiutavano di cibarsi; il pastone che fino a qualche giorno prima mangiavano avidamente li lasciava indifferenti, tant’è che il macellaio di turno si affrettava a compiere il triste rito per timore che perdessero troppo peso. Aveva fatto tanto per ingrassarli!
Per me fu impossibile dimenticare gli occhi di quelle creature e la loro sofferenza, che emanavano tanta tristezza, tutte le volte che li vedevo trasformati in succulenti anelli di salciccia e cosce di prosciutto!
Ancora oggi, tutte le volte che vedo qualche animale schiacciato ai bordi delle nostre strade mi sento male. Ma ognuno ha la sua sensibilità, e lungi da me qualsiasi giudizio su scelte diverse dalla mia, perché non vorrei mai mancare di rispetto per eccesso di zelo, specie in certi ambiti dove nessuno si può sostituire alla propria coscienza, e ognuno, si sa, ha i suoi tempi, i quali, come si sa, sono ignoti, sconosciuti ad ognuno. E quindi, non potendo e volendo violentare la coscienza altrui, non ci rimane che instaurare con tutti una sana, sincera e proficua dialettica.
Alcuni anni fa mi colpì una detto attribuito al grande Leonardo da Vinci. È una frase molto illuminante che recita:
“Verrà il giorno in cui si conoscerà l’intimo animo delle bestie ed allora uccidere un animale sarà considerato un delitto come uccidere un uomo”.
Siamo ancora lontani dalla realizzazione di questa umanità: le culture, le abitudini, la pigrizia, la golosità, l’insensibilità, ci fanno accettare la violenza come un dato di fatto ineluttabile. Un gesto normale che tutt’al più provoca in noi qualche reazione emotività, ma incapace di produrre un cambiamento sostanziale. Tuttavia una crescente coscienza animalista ci lascia qualche ragionevole speranza che il sogno di Leonardo non fu un vaneggiamento.
Come non fu una chimera il sogno del profeta Isaia, che osò profetizzare la pace, quasi 2.700 anni fa. Con uno sguardo d’aquila, il figlio di Amoz, narrò la sua visione con una tenerezza struggente:
”Allora il lupo pascolerà con l’agnello, la pantera s’accovaccerà con il capretto e il vitello e il leone pascoleranno assieme…”
Ma che cosa ha spinto Leonardo ed Isaia a fare queste preconizzazioni, mentre intorno a loro emergeva e si imponeva ben altro? Che cosa ha spinto i due uomini ad immaginare l’inimmaginabile? Cosa poteva significare il semplice parlare di un’ era di pace in una Gerusalemme assediata dalle truppe del re d’Assiria Sennacherib, quando l’unica legge che si stava affermando con prepotente evidenza, era quella del più forte e del più violento e si faceva la conta delle teste mozzate!
Quale peso potevano avere le parole di Leonardo nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, mentre si accatastavano fascine per il rogo del domenicano fra Girolamo Savonarola e in tutta Europa l’inquisizione decretava lo sterminio di alcune specie di animali, tra cui i gatti perché ricettacoli privilegiati dell’incarnazione del maligno.
Isaia e Leonardo, due profeti disarmati, non due profeti di sventure, non due Cassandre. La profezia non è solo preveggenza, ma è anche uno sguardo senza sconti sulla nuda realtà che viviamo.
Ma che cosa avrebbe ispirato il genio e il profeta? Qual è sarebbe stato il varco che ha permesso loro di uscire dal vicolo cieco fatalista della violenza? Potevano arrendersi alla presunta ineluttabilità dei fatti, ai disegni misteriosi ed imperscrutabili della Vita, ma non l’hanno fatto.
Non si sono lasciati annichilire dal presente, ma hanno sognato ed espresso con nitore desideri elevati, si sono sforzati di immaginare il tempo nel suo farsi e nel suo eterno divenire. Hanno semplicemente disegnato quello che avevano nel loro cuore e immaginato una dimensione e un piano oltre il contingente, nella lenta e crescente consapevolezza dell’umano verso la sua meta.
Al di là della loro grandezza, a me piace ricordare Isaia e Leonardo anche per questa dilatazione percettiva temporale, oltre ogni apparenza. Un aspetto non secondario.
Mai ammazzare l’utopia, mai tarpare le ali ai sognatori perché quello che oggi fatichiamo ad immaginare, un giorno potrebbe diventare realtà. Un sano pragmatismo è indispensabile per vivere, ma senza il respiro della speranza saremmo condannati al fatalismo. Saremmo prigionieri di un mortale immobilismo.
E l’utopia? Essa delinea un orizzonte di riferimento comune verso cui tendere, consapevoli che questa linea non è un punto di arrivo, ma un continuo approdo verso altri lidi. Per quanto possa essere immaginaria, l’utopia ha il pregio di spingerci all’azione. Il bisogno di infinito insito nel cuore dell’uomo non si cheta facilmente e ha bisogno continuamente di espandersi.
Ma i sogni, la possibilità di modificare la realtà in meglio, devono essere condivisi, altrimenti rischiano di essere confinati nell’irrilevanza e infine s’insteriliscono.
La società è obbligata ad organizzarsi se vuole essere protagonista del proprio destino. Deve creare momenti di unità e di sintesi per non rimanere divisa e frammentata in tanti piccoli aggregati sociali che non comunicano tra di loro. Quindi, occorre un grande sogno collettivo, una visione alta, unita ad una profonda capacità politica di governare, non senza fatica, le situazioni, a partire dal contingente. Solo così, forse, scorgeremo, finalmente, il volto di una nuova umanità e il sogno di Isaia e Leonardo non sarà più tale.
Letizia dice
Francesco Gesualdi, non Francuccio, prego di correggere il refuso.
Redazione di Comune dice
In realtà Letizia, da molti si lascia chiamare Francuccio.
Cinzia Baggio dice
Come possiamo nutrire l’utopia? Rendendola reale, ognuno nel nostro piccolo, ognuno sulla propria tavola.
Concordo in toto, al 100%. No, di più.
Eccome.