La Tunisia conosce una specie di dittatura “morbida” che potrebbe aprire la strada a misure economiche decisamente impopolari. Intanto scompaiono dai media mainstream la repressione della polizia, la tortura che ancora si pratica nei commissariati e nelle prigioni, e i processi ai giovani che continuano ad amare la rivoluzione. Lasciano posto ai titoli sulle performance del governo tecnico. Il vecchio apparato repressivo di Ben Alì resta sostanziamente intatto, i giornalisti si autocensurano e ignorano gli attentati alle libertà fondamentali mentre si favoriscono in ogni modo la diffusione di false informazioni e la diffamazione, cioè i metodi tipici del passato. Negli ultimi 4 anni, il numero dei poveri è cresciuto del 30 per cento mentre il 10 per cento della popolazione detiene l’80 per cento delle risorse. Nessuno sembra avere più la forza di protestare, neanche quel che resta della sinistra politica. Cresce il vuoto nelle periferie e nelle regioni dell’interno del paese,che diventano facile preda delle nuove mafie e dell’estremismo religioso
di Patrizia Mancini
Il 5 febbraio 2015 il nuovo governo presieduto da Habib Essid ha ottenuto la fiducia della nuova Assemblea dei rappresentati del Popolo, uscita dalle urne lo scorso novembre. Un governo che nasce dall’alleanza fra partiti cosiddetti “modernisti” (e liberisti), Nidaa Tounes, Afek Tounes, UPL e il partito islamico, e liberista, Ennahdha. Tale alleanza ha provocato malessere e malumore sia all’interno di Nidaa Tounes che aveva basato la propria campagna elettorale sul “voto utile” contro la “minaccia islamica”, sia all’interno di Ennahdha che, secondo alcuni suoi membri, avrebbe stretto un patto contro natura con i rappresentanti della passata dittatura benalista. La parte più consistente dell’opposizione è rappresentata dai 15 deputati del Front Populaire (coalizione fra partiti di sinistra e nazionalisti arabi). Per alcuni osservatori, la “grosse koalition” rappresenta l’unica possibilità di dare al paese una certa stabilità, per altri si tratta di azzittire ogni forma di dissenso e instaurare una “dittatura morbida” che favorisca l’attuazione di una lunga lista di misure economiche decisamente impopolari.
Ma nel paese reale che cosa sta accadendo?
Possiamo dire che già il precedente governo dei “tecnocrati” sembrava aver magicamente appagato la sete di “modernità e di libertà” di quanti avevano combattuto ferocemente l’”oscurantismo islamico”, arrivando a invocare uno scenario all’egiziana anche per il loro paese. La repressione poliziesca, la tortura ancora in vigore nei commissariati e nelle prigioni, i processi ai giovani rivoluzionari (Tunisia :Liberate tutti i giovani della rivoluzione!) scompaiono dai media mainstream per lasciare il posto alle supposte performance del governo “tecnico”. Citerò solo un esempio flagrante di cui sono stata diretta testimone, il processo d’appello ai poliziotti che nel 2012 avevano stuprato una giovane che si era appartata in un luogo isolato con il fidanzato. Il 6 novembre 2014 eravamo solo in 6/7 persone a sostenere Myriam Ben Mohamed (nome fittizio), mentre, con gli islamisti al governo, centinaia di persone si radunarono di fronte al tribunale di Tunisi per sostenere la ragazza di fronte ai suoi violentatori, in particolare eleganti signore dei quartieri chic della capitale.
All’indomani poi del successo alle legislative del novembre 2014 che ha dato la maggioranza relativa a Nidaa Tounes, un’aura benefica sembra avvolgere la Tunisia e …zittire i sinceri democratici di un tempo. Chi dava la colpa a Ennahdha persino per le periodiche inondazioni che affliggono da sempre alcune fra le regioni più povere del paese (per la mala gestione del territorio e per decenni di incuria) o chi strillava a difesa della libertà di espressione e di stampa (nonostante la maggioranza dei media fosse schierata contro gli islamici al governo), ora si scopre silente di fronte a una serie di episodi che obiettivamente rivelano come il vecchio apparato repressivo sia rimasto intatto, collateralmente a un giornalismo che non solo si autocensura, tacendo su tutta una serie di abusi e tentativi di attacco alle libertà fondamentali, ma che, nei casi peggiori e in particolare durante la campagna per le presidenziali, attacca con gli stessi metodi usati durante la dittatura, cioè diffamazione e diffusione di false informazioni (ne è uno squallido esempio questo articolo uscito sul quotidiano online Businessnews contro alcuni intellettuali che invitavano a votare per Moncef Marzouki, oppositore di Beji Caid Essebsi).
Innumerevoli gli attacchi all’Instance Verité et Dignité, la commissione eletta dall’Assemblea Costituente e incaricata, nell’ambito della giustizia di transizione, di indagare su abusi e crimini commessi dal 1955 fino alla data della sua entrata in funzione (finora sono stati raccolti quasi 7000 dossier). Una campagna subdola che tenta di affossare la memoria di un intero paese.
Il 24 dicembre 2014, all’indomani dell’elezione di Beji Caid Essebsi alla presidenza, Yassine Ayari, uno dei bloggers più attivi durante la rivoluzione, viene arrestato al suo arrivo all’aeroporto di Tunisi: le accuse sono: diffamazione e oltraggio di ufficiali dell’esercito e quadri del Ministero degli Interni, propagazione di insulti e false informazioni atte a perturbare le unità militari, accuse non provate di corruzione e abusi amministrativi e finanziari nei confronti di alcuni dirigenti.
Ayari, figlio di un ufficiale ucciso nel 2011 in uno scontro con alcuni terroristi, aveva criticato ferocemente l’esercito sulla sua bacheca Facebook. Verrà condannato da un tribunale militare il 20 gennaio 2015 a un anno di prigione, senza attenuanti. Il processo d’appello si terrà il prossimo 24 febbraio. Ma nel frattempo i sinceri democratici di un tempo tacciono o, ancora peggio, arrivano a giustificare che, in tempo di pace, un tribunale militare possa giudicare un civile. Human Rights Watch denuncia questa condanna come un attentato alla libertà di espressione e sottolinea come il diritto internazionale, applicabile in Tunisia, vieti ai tribunali militari di processare dei semplici cittadini. Ma Ayari è una figura che disturba con le sue simpatie per alcuni ambienti islamici e, per la “nuova” opinione pubblica, a lui si applicano i principi della cosiddetta “democrazia a geometria variabile”.
Così come, per alcuni militanti di sinistra, “la dittatura militare egiziana è stata utile a cacciare dal potere i Fratelli Musulmani, ma è da condannare se uccide la giovane militante socialista Chaaima Al-Sabbagh (affermazione di un militante del Front Populaire, durante un sit in di protesta davanti all’ambasciata egiziana a Tunisi).
E non è sotto la dittatura islamica che un cittadino svedese è stato condannato a due anni di prigione perché omosessuale, senza che nessuno chiedesse la revisione dell’articolo del codice penale (in vigore già sotto Ben Alì) che prevede tale sanzione.
Ma quello che colpisce maggiormente è la mancanza di reazione della società tunisina di fronte alla sanguinaria repressione di alcuni sollevamenti popolari avvenuti in questi giorni a Dheibha, (cittadina al Sud della Tunisia, vicina al confine con la Libia) che è costata la vita al giovane Saber Malyen, colpito da un proiettile sparato dalla polizia l’8 febbraio. Numerosi feriti sono stati ricoverati negli ospedali della zona perché colpiti da pallettoni da caccia, gli stessi usati nella repressione della rivolta a Siliana alla fine del 2012, sotto il governo a maggioranza islamica, rivolta che, a quel tempo, registrò una grande solidarietà da parte della maggioranza della popolazione.
A differenza di allora, oggi gran parte dei media giustifica l’azione poliziesca perché, si afferma, i ribelli incalliti sarebbero manipolati dai contrabbandieri e perché vengono incendiate sedi della Guardia nazionale o del Governatorato (fatti smentiti da una serie di video girati da alcuni cittadini, vedi http://www.webdo.tn/2015/02/09/des-tunisiens-de-dhiba-creent-leur-media-dehibat-24-limage-de-france-24/). Eppure le motivazioni della rivolta di Siliana furono simili a quelle che ora fanno insorgere Dheibha e Ben Guerdane, dove il contrabbando rappresenta per molti l’unico mezzo per sbarcare il lunario. E anche allora si assalivano i luoghi simbolo del potere… Solo che nel 2012 governavano i “barbuti ”, mentre ora vanno difesi il prestigio dello Stato…e la sua polizia. Finita la ricreazione, si ritorna alla normalità, anche perché la lotta al terrorismo esige la pace sociale.
Sono le motivazioni di sempre che covano sotto la cenere e che si arrivano a comprendere leggendo una recente ricerca compiuta dal “Centre des études économiques et sociales” in collaborazione con l’Università di Tunisi dal quale si evince che il numero dei poveri è aumentato negli ultimi 4 anni del 30 per cento e che il 10 per cento della popolazione detiene l’80 per cento delle risorse della Tunisia.
Di fronte alla inedita alleanza dei due liberismi, quello di Nidaa Tounes e quello di Ennahdha, possiamo solo sperare che il Front Populaire sia costretto a ricoprire degnamente il ruolo di opposizione, magari con uno sguardo verso l’altra parte del Mediterraneo, cioè alle esperienze di Podemos in Spagna o di Syriza in Grecia, ma anche arricchendo il proprio patrimonio culturale con l’approccio ai diritti umani, quelli di tutti e di tutte.
Perché sarebbe il compito di una sinistra degna di questo nome dare voce alle lotte sociali e alle rivendicazioni rivoluzionarie, invece di lasciare il vuoto nelle periferie e nelle regioni dell’interno del paese, rendendole facile preda delle nuove mafie e dell’estremismo religioso.
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