di collettivo Scup (Sport e cultura popolare, spazio sociale di Roma)
Scup, in realtà, è molto antico. L’abbiamo scoperto guardandoci indietro. Ci siamo messi alla ricerca delle nostre radici, e in questo percorso ci siamo imbattuti nel libro di Pino Ferraris, “Ieri e domani”, al quale rimandiamo per ulteriori approfondimenti. Con questo testo siamo andati tanto lontano nel tempo da arrivare agli albori del movimento operaio europeo, sarebbe a dire in un’epoca in cui tutti i lavoratori erano precari e senza diritti. Infatti nella seconda metà dell’Ottocento le garanzie che oggi ci troviamo a perdere, come il contratto di lavoro collettivo e lo stato sociale, non esistevano proprio. Per farla breve, insomma, i lavoratori non erano tutelati né sul posto di lavoro, né fuori. A fianco delle leghe professionali – la prima forma di sindacato – e poi delle camere del lavoro, nascevano le società di mutuo soccorso e le cooperative. La volontà di indipendenza e autonomia dei proletari li portò ad autorganizzare le forme di tutela di cui sentivano il bisogno, anziché chiederle allo Stato, e a liberarsi così anche dei meccanismi propri della carità e del paternalismo.
L’organizzazione popolare di quegli anni poteva assumere grossomodo due forme: una riguardava la sfera della vita, la “sfera della riproduzione”, e che comprendeva tutte quelle attività legate all’approvvigionamento di beni e servizi e alle assicurazioni economiche in caso di disoccupazione, incidenti, malattia. L’altra era correlata alla sfera della produzione, cioè del lavoro in senso stretto. Unassociazionismo PER – quello delle cooperative e del mutuo soccorso – e un associazionismo CONTRO – le leghe, le camere del lavoro e, in seguito, i sindacati. Nel loro essere associazionismo per, le cooperative e le varie forme di mutualismo messe in campo dagli operai dell’Ottocento rappresentavano lo sforzo di farsi società, e di passare da un mutualismo familiare o verticale, gerarchico, alla solidarietà orizzontale tra uguali. L’associazionismo contro, invece, incarnava la volontà di strappare diritti e migliori condizioni di lavoro alle controparti padronali attraverso gli scioperi. Queste di forme di autorganizzazione non erano scollegate fra loro, pur facendo fronte ad esigenze diverse. Anzi, non di rado si trovavano a interagire e sostenersi a vicenda, come nel caso emblematico del Belgio.
In Belgio, infatti, i lavoratori di un cooperativa produttrice di pane sostennero lo sciopero dei minatori garantendo loro cibo per oltre un anno. L’ambiguità di fondo insita nelle forme di mutualismo sopra descritte sta nel fatto che, da un lato, arginando gli effetti devastanti dell’industrializzazione e del capitalismo, esse fanno da tappo al malcontento popolare – ed è per questo che la borghesia si è spesso trovata a sostenere le forme del mutualismo nate in seno al proletariato; ma, dall’altro, questi luoghi autogestiti e autorganizzati sono terreno fertile di crescita politica individuale e collettiva, e sono stati e sono potenzialmente ancora oggi i luoghi in cui nascono le rivendicazioni sindacali e politiche dell’associazionismo contro.
Nell’operazione di statalizzazione, infatti, un elemento di queste esperienze non è mai stato integrato nella macchina burocratica, a partire dal modello indicato da Bismarck che, mentre crea lo stato sociale tedesco, contemporaneamente proibisce gli scioperi. L’unica cosa che la burocrazia non ha mai potuto includere nelle forme dello stato sociale è stata la pratica dell’autogestione. E questo perché proprio l’autogestione è il cuore dell’indipendenza e della vitalità di queste forme di lotta, che scongiura il sonno delle coscienze costringendole a un confronto quotidiano con i limiti e le potenzialità del loro agire: è nel fare, più che nel narrare, che l’autogestione esprime tutta la sua forza.
In questo viaggio a ritroso nel tempo, ci hanno colpito le similarità tra la condizione ottocentesca e la nostra, pur tenendo conto delle inevitabili differenze. Nell’Ottocento, in fondo, i lavoratori creavano un welfare autogestito in assenza di uno stato che intervenisse a loro tutela; noi, invece, ci troviamo a creare un sistema di servizi e di autoreddito in un momento in cui lo stato si sta ritirando dalle sue funzioni sociali. Noi dunque facciamo un welfare senza stato in uno stato senza welfare. Ma anche oggi, come allora, lo facciamo in maniera autorganizzata e autogestita, avendo come obiettivo quello di farci comunità.
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