Un articolo dell’autore di «Un grillo qualunque» (Castelvecchi), a proposito dei toni e degli argomenti contro lo ius soli del Movimento 5 Stelle.
di Giuliano Santoro
Dopo che il leader del MoVimento 5 Stelle ha rispedito al mittente ogni progetto di legge sullo ius soli, mi hanno contattato i volontari del Naga, storica associazione antirazzista milanese. “Ogni volta che Grillo parla di migranti usa i toni e gli argomenti della destra xenofoba e populista – mi hanno detto, più o meno – Ciò nonostante, viene da sinistra almeno un terzo dei voti che ha conquistato alle elezioni politiche”. Da qui, è nata l’idea di ragionare attorno a questa contraddizione. Il dialogo che trovate qui sotto è stato pubblicato sulla NaGazzetta, giornale online del Naga, del mese di maggio (potete scaricarlo qui).
La cittadinanza italiana è requisito indispensabile per iscriversi al M5S. Secondo il non-statuto, per esercitare con un clic il diritto di voto attivo e passivo bisogna essere italiani. Come nell’agorà ateniese, Grillo tiene fuori lo straniero dalla sua “piazza”. Perché?
Rispondo raccontando questo episodio. A una delle presentazioni del mio libro è venuto un neoparlamentare del Movimento 5 Stelle. Abbiamo poi scoperto che questa persona viene dal mondo dell’altraeconomia, dal giro largo del movimenti sociali, dunque probabilmente aveva voglia di rendere conto del suo recente passato. Bene, quando gli abbiamo chiesto il motivo delle posizioni ambigue quando non apertamente xenofobe di Grillo e del M5S sui migranti ha risposto in maniera disarmante e con candore: “Ne abbiamo discusso, ma abbiamo capito che quel tema divide gli italiani”. Ecco: se ci fate caso Grillo è attentissimo a questo. Non dice mai cose che potrebbero aprire conflitti interni al “popolo”, che deve essere Uno e in lotta contro un Nemico che è quasi sempre un’entità esterna alla “Gente”. L’”unità del popolo” presuppone che non si possano fare discorsi articolati, complessi, magari controcorrente. I migranti, il loro essere in-between tra culture e paesi, sono la quintessenza della molteplicità, la figura paradigmatica della globalizzazione. Sono l’osso duro indigeribile per i banalizzatori. Chi vuole ridurre il Tutto ad Uno li ignora o li avversa.
Il programma del M5S tace sui migranti. In campagna elettorale Grillo aveva liquidato lo ius soli come un’arma di distrazione di massa. Ora minaccia “bel referendum” nel caso – assai remoto – che la ministra Cécile Kyenge convinca il suo governo a migliorare la legge sulla cittadinanza. Qualche parlamentare 5Stelle ha timidamente preso le distanze dal Capo. E gli elettori?
Grillo sa usare le parole e soprattutto è un maestro dell’ambiguità. Questa ambiguità si riversa nel M5S: dentro c’è tutto e il contrario di tutto e la cosa paradossale è che tutti si sentono a loro agio, come se il Movimento gli fosse stato cucito addosso. Una di quelle regole del marketing che Gianroberto Casaleggio deve conoscere molto bene, prevede che per vendere un prodotto questo debba essere appetibile agli occhi di diversi tipi di target. Allo stesso modo, il M5S prende voti sia a destra che a sinistra: ognuno ci vede quello che preferisce. L’elettore “di sinistra” sarà rapito dalla promessa (vaga e mai chiarita) di un reddito garantito. Quello di destra sarà attratto dal Principio del Capo, dalla retorica sulla Pulizia e degli italiani che si riprendono l’Italia. In tutto ciò, i diritti dei migranti fanno una pessima fine. Ma ciò non impedisce, e questo è il paradosso principale di questa vicenda paradossale, che nel M5S ci siano convinti antirazzisti, che magari chiudono un occhio davanti a certe posizioni imbarazzanti perché bisognosi di un punto di riferimento politico dopo il collasso dei partiti novecenteschi.
Dopo Rosarno e dopo gli sbarchi dal Nord Africa, Grillo sul suo blog aveva tuonato contro “il trionfo della globalizzazione degli schiavi”. Nella sua visione, i migranti non hanno alcuna autonomia e soggettività, non si muovono per cercare una vita migliore. Sono solo vittime, pedine mosse a piacere dal capitale, esercito industriale di riserva sottopagato, giocato contro i lavoratori autoctoni. Un’argomentazione in apparenza “di sinistra” usata da tutti i populismi “di destra”.
È proprio così. Queste posizioni, come è evidente, non hanno nulla di innovativo o rivoluzionario. Sono le cose che la gran parte dei politici italiani va ripetendo da anni. Facciamo un esempio che pochi ricordano. Quando nel 2008 esplose la fantomatica “emergenza sicurezza”, una campagna stampa aggressiva e razzistoide mise d’accordo il centrodestra e il centrosinistra sulla necessità di arginare un inesistente allarme microcriminalità con politiche contro i migranti. Grillo – che pure si vanta di essere autonomo dagli inciuci bipartisan – si guardò bene dal dissociarsi da quel clima velenoso, anzi alzò la posta straparlando di un’inesistente “invasione” di extracomunitari e accreditando la relazione (del tutto falsa) “più migranti, più illegalità”.
Per il M5S i partiti sono il male, la comunità è il bene. La comunità del web, innanzitutto. Ma anche di quelli che fanno la spesa a chilometro zero, riciclano, non sprecano e, al limite, si muovono il meno possibile. Il comunitarismo, giustamente criticato quando a praticarlo sono i migranti, viene riscattato dalla decrescita felice, di cui Grillo è paladino. La decrescita felice postula che ognuno resti dov’è, è insidiata dall’urto delle migrazioni. “Aiutiamoli a casa loro”, dice Grillo. Anche questa l’avevamo già sentita.
La decrescita è un tema controverso. Molti di quelli che sostengono che si debba smettere di perseguire la religione della crescita economica lo fanno in buona fede e spesso danno vita a pratiche di vita quotidiana esemplari e ammirevoli. Tuttavia, non si può negare,che l’ideologia della decrescita sia leggibile anche “da destra”, che serva a esaltare le piccole comunità chiuse e a considerare i migranti pedine in preda a una megamacchina, non soggetti in grado di intraprendere percorsi autonomi di fuga dalle miserie, dalle guerre, dallo sfruttamento e capaci di mettere attivamente in discussione i confini e la divisione del lavoro globale. La colpa, forse, è anche della sinistra, che non ha mai sciolto alcune incertezze sul tema. Una certa idea di decrescita si presta a far da impalcatura ideologica alle retoriche “né di destra, né di sinistra” di Beppe Grillo. Attraverso questa visione distorta della critica al fallimento del capitalismo, il M5S riesce a portare su un terreno “neutro”, non schierato, alcune parole d’ordine ambientaliste o la battaglia (spesso giusta) contro le Grandi Opere. E tuttavia, se fossi un ecologista o un cittadino impegnato in difesa del proprio territorio mi darebbe molto fastidio essere strumentalizzato in questo modo da Grillo e Casaleggio. E’ una questione che dobbiamo porci, soprattutto adesso che il M5S incamera il comprensibile malcontento causato dal governissimo dell’austerità.
Articolo pubblicato anche su suduepiedi.net.
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Giuliano Santoro | 22 febbraio 2013 | 13 Commenti
L’autore del libro «Un Grillo-Qualunque» ci ha inviato questo racconto. Fatelo girare
Il «nazionalismo dal basso» di Grillo
Giuliano Santoro | 15 febbraio 2013 | 2 Commenti
Una lucida analisi sulla complessa maschera comico-politica di Grillo
Luca N. dice
Bell’articolo, vorrei solo fare una puntualizzazione su uno degli ultimi concetti espressi, in particolare “Tuttavia, non si può negare,che l’ideologia della decrescita sia leggibile anche “da destra”, che serva a esaltare le piccole comunità chiuse e a considerare i migranti pedine in preda a una megamacchina, non soggetti in grado di intraprendere percorsi autonomi di fuga dalle miserie, dalle guerre, dallo sfruttamento e capaci di mettere attivamente in discussione i confini e la divisione del lavoro globale.”
Ecco, sinceramente non so cosa dica la decrescita à la M5S (si fa presto a parlare di decrescita ma ce ne sono vari tipi), ma non è questo che intende la decrescita del Movimento della Decrescita Felice. Il punto è che nell’ipotetica (forse, ahimè, utopica) società basata interamente sulla decrescita, la stragrande maggioranza delle miserie, delle guerre e dello sfruttamento non esisterebbero, almeno non nelle misure in cui le viviamo (noi come umanità) al giorno d’oggi. Gran parte della miseria nei paesi poveri è dovuta al fatto che li deprediamo delle loro risorse, che le nostre multinazionali li tengono sotto giogo per assicurarsi un basso costo per la produzione di merci per noi, che è nostro preciso interesse mantenere poveri i paesi poveri, che probabilmente non stavano così male prima che col colonialismo li trascinassimo nel tunnel del nostro sistema economico. In una logica decrescente, loro produrrebbero direttamente i prodotti per loro stessi, noi li produrremmo per noi, e ci scambieremmo solo quello che non possiamo produrre dalle nostre (o dalle loro) parti, non volendoci rinunciare (ad esempio zucchero di canna, tè o banane). Detto questo, nessuno esclude un migrante dalla comunità, non ce n’è ragione, menchemeno in ambito di decrescita, se il signor Grillo lo fa, mi dispiace ma non vedo cosa c’entri la decrescita felice. I liberismo, il capitalismo e la globalizzazione sono i principali nemici della decrescita, e secondo me dovrebbero esserlo della società intera, e sono guardacaso le principali cause delle differenze tra ricchi e poveri sia a livello di stati sia a livello sociale.
Giulianon Santoro dice
Ciao Luca,
sono d’accordo con molte delle cose che scrivi. Solo che dire che in una società giusta ognuno produce “per sè” e non ha motivo di spostarsi da casa presta il fianco alla destra. Io penso che dovremmo immaginare una società meticcia, in cui ognuno è libero di varcare confini e scambiarsi prodotti e idee. Il punto è che questo scambio non dovrebbe essere gestito dal mercato (e dai profitti).
Quando parlo dell’autonomia dei processi migratori mi riferisco proprio al fatto che le migrazioni, per fortuna, non avvengono solo per esigenze materiali, tutt’altro. Stesso ci si sposta perché si vuole realizzare un progetto di vita. Ci sono studi che dimostrano che alcuni migranti per dei periodi si fanno mantenere dai familiari che sono rimasti nel paese di provenienza: investono sulla capacità del loro familiare, sulla sua voglia di conoscere il mondo e di andare oltre le culture locali, che non sempre sono belle e pure, a volte sono retrive, maschiliste e violente.
Questo Grillo non lo capisce, o fa finta di non capirlo. Dovremmo capirlo noi per non preparargli il terreno, per di più inconsapevolmente…
Luca N. dice
Posto in questi termini sono perfettamente d’accordo, ma la decrescita non si oppone a questo. Si oppone all’assurdo sistema economico che fa rendere più conveniente schiavizzare un contadino in Ecuador per produrre un alimento che verrà confezionato in Thailandia e spedito in Italia piuttosto che produrlo direttamente nelle campagne limitrofe. Si oppone alla globalizzazione ed al liberismo, non al contatto tra i popoli. Alcuni prodotti vengono importati ed esportati nelle stesse quantità, altri non vengono prodotti in loco perché non conviene per astruse leggi di mercato, equesto è l’assurdo che bisognerebbe invertire per evitare inutili sprechi, in questo senso la decrescita punta ad una politica più “autarchica”. Ripeto: lo scambio può esserci ed è bene che ci sia, ma che non vada contro il buonsenso! I motivi per migrare devono essere individuali, non imposti dalla povertà dovuta ad un mercato illogico, malato e schiavista. Il mercato deve essere un nostro strumento, non il contrario, ma se non lo si cambia restiamo suoi strumenti sia noi che i migranti purtroppo e l’individualità personale si perde. Il decrescista vuole essere un individuo in una comunità che sa fare e che può vivere autonomamente, ma nulla gli impedisce di migrare se vuole farlo!
Un ambientalista dice
Aprire le frontiere a una quantità indiscriminata di immigrati e permettere che si insedino stabilmente significa, oltre alla scomparsa di noi autoctoni – verso cui la sinistra ha già ripetutamente mostrato la propria indifferenza, come se gli autoctoni esistessero solo nel terzo mondo – che l’Italia e l’Europa saranno costruite a tappeto fino all’ultimo palmo per fornire strutture e infrastrutture all’aumentata popolazione, per la gioia dei costruttori, dei proprietari di ipermercati e dei fautori dello sviluppo in generale, e a danno di tanti ingenui che si dicono ambientalisti ma preferiscono ignorare il problema.
Da queste considerazioni si è sviluppato un ambientalismo – che da un lato torna con coerenza a interessarsi dei temi più classici della difesa dell’ambiente, da un altro scopre una vena identitaria nella difesa non soltanto dell’ecosistema, ma delle popolazioni locali che lo abitano – che non si sente più rappresentato dalla sinistra e non si riconosce nella sua evidente mancanza di logica, ed è passato ad altri partiti. Il movimento di Grillo vede solo l’ovvio che altri preferiscono farsi sfuggire.
Luca N. dice
Peccato che l’Italia stia già venendo costruita fino all’ultimo centimetro quadrato di terra e che un’enorme quantità delle case costruite restino invendute. A Roma su 1.700.000 abitazioni ce ne sono circa 200.000 invendute, eppure continuano a cementificare. I negozi chiudono perché continuano ad aprire centri commerciali, i paesi sono abitati ormai solo da qualche anziano. È evidente che il problema qui non sono gli immigrati, ma la miope società della crescita indiscriminata. Il suo mi sembra un ambientalismo “nazionalista” (che infelice associazione di parole!): è ovvio che se la famiglia araba si costruisce una casa in Iran o a Roma non cambia nulla a livello ambientale, e l’ambientalismo non può che essere associato al cosmopolitismo. Se la sua è la paura di essere “sommerso”, penso che dovrebbe combatterla lottando contro le cause che forzano l’emigrazione dai “paesi del terzo mondo”, non chiudendo le frontiere. Ad esempio sostenendo il commercio equo e la rilocalizzazione di ciò che si può rilocalizzare, e non comprando dalle multinazionali. Come detto sopra: la libertà di migrare ci deve essere, ma non deve essere forzata dal mercato.
Comune-info dice
A proposito di «immigrati», «noi autoctoni», «culture», nazionalismi e frontiere, ci viene in mente un brano dell’antropologo e archeologo statunitense Ralph Linton (testo citato in diversi libri tra cui «L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco», La Nuova Italia Scientifica, 1995).
«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani.
Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo. […]
Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare le mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. […]
Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giornale, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano».
Un ambientalista dice
@ Comune-info
Tante parole ben condite di illustri citazioni, ma non una risposta al problema a cui ho accennato, e cioè la sopravvivenza dei popoli autoctoni *attualmente* esistenti, quale che ne sia stata la storia e l’origine dei caratteri che ne definiscono l’identità.
Quale appartenente a una minoranza che un tempo era la maggioranza nel proprio territorio, prima che l’immigrazione interna lo riempisse di “italiani indifferenziati” e la politica dello stato unitario portasse a compimento una silenziosa pulizia etnica contro le culture e le popolazioni delle Alpi e della Val padana, è ovvio e logico che desideri la continuità dell’etnia in cui mi riconosco, così com’è qui ed ora, piuttosto che com’era nel medioevo o nel’età del bronzo o in qualsiasi altra epoca.
Ci si può chiedere – è una delle prime obiezioni che viene naturale ai progressisti, maestri nel girare le frittate e inventori del relativismo due pesi e due misure – quale senso abbia volere un tale tipo di continuità, ma allora per analogia dovremmo chiederci che senso abbiano la conservazione dell’individuo e della specie, che senso abbia esistere, perché preferire vivere piuttosto che morire, vincere piuttosto che perdere… essere o non essere è la stessa cosa? Un osservatore esterno può essere indifferente alla mia esistenza, ma perché dovrei esserlo io?
Un ambientalista dice
@ Luca N.
Per quanto riguarda la cementificazione l’origine del problema è lo sviluppo, l’economia basata sulla crescita. L’immigrazione, con il conseguente aumento della popolazione, aggraverebbe semplicemente il problema vanificando ogni possibile soluzione. In particolare la soluzione che verrebbe da sé con la diminuzione in atto della popolazione nei paesi industrializzati.
Luca N. dice
Sarà un mio limite, ma continuo a pensare che le istituzioni ed in generale la suddivisione in stati debbano avere funzioni amministrative e non costituire un limite al contatto tra i popoli e le culture. Il testo sopracitato porta alla luce come il contatto tra le culture porti solo ad un arricchimento su tutti i fronti. A me se il mio vicino è arabo o italiano non mi interessa, sempre di un mio conspecifico si tratta. Se ha delle diversità culturali benissimo! Vorrà dire che dal nostro contatto potremmo uscirne entrambi migliorati.
La continuità etnica di cui parla è priva di fondamento scientifico, dato che il patrimonio genetico e la cultura è perfortuna impensabile che siano rimasti inalterati nei secoli, in una storia fatta di contatti tra popoli e culture.
Una cultura statica è una cultura morta.
Quello che continua a non tornarmi è che differenza possa fare un palazzo costruito qui o in un altro stato. In questo senso dicevo prima che il suo mi sembra un “ambientalismo nazionalista”, perché posto in questi termini vuole proteggere solo il territorio in cui si vive. A quanto so in Italia la deforestazione è in negativo, in senso che le foreste aumentano. Ma questo semplicemente perché non coltiviamo e prendiamo legno e prodotti agricoli da altrove. E cosa cambia a livello ambientale? Sarà più bello il nostro paese, ma se continua la deforestazione senza freni della foresta pluviale stiamo nella merda anche noi. L’ambientalismo non può che essere associato al cosmopolitismo, perché dobbiamo essere tutti uniti per un fine comune: poter continuare a sopravvivere, noi e gli altri esseri che popolano il pianeta. E questo non c’entra nulla con i confini statali.
L’immigrazione non aumenta il problema della sovrappopolazione, semplicemente sposta la popolazione e sposta se vogliamo il problema da un altra parte, ma il problema sarebbe reale anche se gli immigrati restassero “a casa loro” e cementificassero “a casa loro”. Il vero problema restano la crescita, la globalizzazione ed il PIL, che causano in gran parte la povertà e la subordinazione dei paesi “del terzo mondo” e la necessità di venire da noi, nella nostra fantasmagorica società industriale, sperando in un futuro migliore. Se vengono da noi forzati dal mercato, la colpa è nostra che causiamo la povertà da loro.