Sulle pagine di Territori Educativi, racconti di esperienze e spunti di riflessione, a volte molto differenti tra loro, intorno al concetto di comunità educante si alternano da tempo. C’è, ad esempio, chi parla di società educante e chi, pensiamo all’universo delle scuole aperte e partecipate, preferisce ragionare su come la difesa della scuola di tutti può essere accompagnata dalla partecipazione degli abitanti di un territorio che smettono di delegare, non per sostituirsi agli insegnanti, ma per contribuire in diversi modi alla costruzione del bene comune. Di sicuro l’espressione comunità educante – sempre più utilizzata dai grandi media ma anche dal carrozzone dei bandi – annega spesso in retorica o astrattezza. In questo articolo Daniele Novara prova a concentrarsi su uno degli aspetti di quel concetto, il bisogno di affrontare la crescita della povertà educativa e di trasformare al tempo stesso l’idea di educazione. E individua tre proposte molto concrete per cominciare a farlo
Sulla comunità educante c’è una grande retorica. Tutti ne parlano ma in modo tautologico, qualcosa che diventa una consunzione puramente semantica, specialmente l’idea (i patti territoriali, gli accordi di programma, il tentativo di mettere assieme insegnanti e genitori…). Il risultato è che le famiglie sono state trasformate in un enorme doposcuola, un opificio di compiti con tutti i genitori alle prese col loro analfabetismo di ritorno, lo stiamo combattendo, genitori che di notte ripassano disperatamente l’algebra per riuscire ad aiutare il pargolo… e questa la chiamano la comunità educante.
Non è questo: la comunità educante non è un puzzle da mettere assieme, i pezzi mancano. Si potrebbe parlare di un puzzle se i pezzi ci fossero. Cito Conchita de Gregorio: “Chi sa di tv, quelli che studiano le curve dell’ascolto pregano gli ospiti di non parlare di scuola e di ragazzi perché sono temi che fanno calare l’audience. È diventata una raccomandazione di routine, come mettere il telefono in modalità aereo…”.
Personalmente ne so qualcosa perché è obiettivamente molto complesso parlare di determinati temi. Costruire una comunità educante è costruire qualcosa che manca, non mettere assieme, questo è un equivoco di cui dobbiamo liberarci. Vi faccio partecipi di alcuni dati che sono purtroppo inequivocabili. Il mio è un intervento leopardiano. A scuola ci dicevano: Leopardi è pessimista ma c’è un fondo di speranza. Anch’io faccio un intervento di questo tipo, con un fondo di speranza. Possiamo farcela. La crescita delle nuove generazioni, la loro educazione non è all’ordine del giorno. Magari ci sono le loro patologie.
La frequenza ai Nidi in Italia è qualcosa di assolutamente drammatico: siamo sotto la media europea del 34,2% e sotto gli obiettivi minimi (33%) fissati dal Consiglio europeo a Barcellona nel 2002 per il 2020. Tra il 2018 e il 2019 la frequenza è calata dal 28,6% al 26,3%. Scende a 23% se si tolgono gli anticipatari e i frequentanti le ludoteche e le Tagesmutter (dati Istat).
I dati relativi al costo di un figlio nel primo anno di vita sono drammatici: per Feder Consumatori va dai 7000 ai 14000 euro. Vero che c’è l’assegno unico che però copre solo le famiglie con Isee basso.
Altro caso drammatico è quello dei centri estivi. È un’idea molto interessante, ma nell’estate 2022 sono costati in media 150 euro a settimana per un solo bambino. Se una famiglia ha tre figli e deve mandarli ai centri estivi su due mesi paga 4.000 euro. L’alternativa? Qualcuno potrebbe rispondere: i videogiochi. Oppure i nonni… Come si fa a pretendere che le famiglie mandino i figli ai centri estivi senza un bonus?
La scomparsa delle Scuole dell’Infanzia è drammatica. La si sta vivendo nell’inconsapevolezza. Tuttoscuola.com nell’ottobre 2021 segnala che 1300 paritarie sono scomparse in 8 anni, il 13% di quelle del 2012-13. È un dato inquietante. L’Italia era molto apprezzata a livello internazionale perché fino a vent’anni fa tutti i bambini nella fascia 3-6 anni frequentavano la scuola dell’infanzia. Era una tradizione molto importante. Improvvisamente si è passati dal 98% di frequenza al 91-92% di oggi. Chi ne fa le spese? I bambini stranieri che non frequentano le Scuole dell’Infanzia. Non dimentichiamo che in questa fascia 3-6 anni si decide la vita sociale dell’individuo. Siamo nel periodo dell’attaccamento sociale dove i bambini imparano a litigare con gli altri e creano i sistemi di autoregolazione. Se stai con la nonna, impari a fare i capricci con la nonna, non impari a vivere con gli altri.
Le retribuzioni degli insegnanti sono imbarazzanti. Il dato più agghiacciante è relativo alle insegnanti delle Scuole dell’Infanzia: 5.000 euro in meno rispetto alla media UE (sempre fonte tuttoscuola.com). Da sempre sostengo che gli insegnanti della prima infanzia (0-6) devono essere pagati di più degli insegnanti delle Superiori perché c’è una responsabilità enormemente maggiore. Con dei bambini 0-6 puoi fare dei danni che restano tutta la vita. Se non sai spiegare Hegel non è mai successo nulla a nessun alunno, sopravvive; ma se abbiamo una maestra che urla tutto il giorno con i bambini, il bambino non se la passa bene.
Ci vuole la qualità. Nel resto d’Europa gli stipendi per la Scuola dell’In-
fanzia sono ben più alti.
Finita l’emergenza sanitaria, ci si accorge del malessere di bambini e ragazzi. Vi racconto questo aneddoto: a giugno vado a prendere il mio nipotino alla Scuola dell’Infanzia che frequenta da due anni. Lo vedo assieme a una signora. Improvvisamente tutti erano senza mascherina: giugno, all’aperto… Nel dubbio chiedo se sia la maestra. Me lo conferma un po’ offesa. Chiedo scusa giustificando il mio non averla riconosciuta con l’uso della mascherina da ben due anni. Al che ribatte: “E certo sono io!” e si tira su la mascherina. I bambini per due anni – quasi tre ormai – si sono relazionati con le maestre in questo modo, senza vederle, senza un sorriso… Ma davvero ci stupiamo se adesso manifestano del malessere? Stacci tu a scuola due anni con una maestra che non vedi. Non nego che queste maestre abbiano fatto miracoli, però il volto è il volto. Tutte le ricerche hanno dimostrato che non ci si riconosce solo dagli occhi. Ci vuole il volto. Quindi questo malessere viene strumentalizzato per un’ulteriore medicalizzazione di cui non avevamo bisogno. Ormai il dato della 104 è abbastanza inquietante: siamo al 3,8% di alunni con certificazione 104 di disabilità. Non parliamo poi dei DSA di cui le classi sono piene. Hanno bisogno di una normale organizzazione educativa. È la normalità educativa che salva i bambini e le bambine, lo vediamo in studio dove riconsegniamo i basilari educativi.
Alcuni giochi che facevo da bambino erano utilissimi per imparare a utilizzare una penna. Sicuramente molto più semplici e immediati di infinite sedute di psicomotricità. Oggi i bambini hanno problemi con la penna. Se poi ci aggiungiamo che incominciano fin da neonati a picchiare le dita sulla tastiera invece che sui giochi spontanei, allora lì le ricerche sono spietate perché si crea un ritardo nell’ambito della letto-scrittura che è anzitutto una funzione motoria.
C’è bisogno di “normalità”, la terapia è fare sport, innamorarsi, vivere la sessualità, litigare bene… Non abbiamo bisogno di patologizzare le nuove generazioni. Ma di una normalità educativa, come un percorso liberante dalle etichette. Non c’è bisogno di costruire pseudo alleanze scuola-famiglia. Per cui cosa succede? La scuola si diverte a mandare le note “Informiamo la famiglia di cosa il disgraziato che hanno prodotto loro combina nelle aule scolastiche”. E giù note… L’anno scorso trovai un bambino che aveva una collezione di 25 note… Da farci un libro. Alcune sono davvero esilaranti. È questa la comunità educante? Il tema spasmodico del controllo, un elemento che è diventato ossessivo. Non è questa la strada, in questo modo non si va da nessuna parte. Non dobbiamo trasformare l’educazione nel controllo di vicinato. Non ho nulla contro il controllo di vicinato, ma i figli, le figlie e gli alunni non hanno bisogno di avere sicurezza. Questa si crea con una buona organizzazione educativa, con insegnanti preparati.
Pensiamo che ogni anno aumentano gli insegnanti di sostegno, che vuol dire più medicalizzazione. Dietro a ogni insegnante di sostegno ci sono più neurocertificazioni. Sappiamo tutti che, tra gli insegnanti di sostegno, almeno 1 su 3-4 non ha la preparazione specifica. A che pro? Ma l’importante è controllare.
A fronte di questo sosteniamo l’idea di un apprendimento basato sulla conflittualità, cioè su una comunità educante che consente la divergenza, che consente l’emergere di vari punti di vista. Oggi i ragazzi non fanno più discussioni a scuola, non esiste più la tradizione di discutere. È una tragedia. Come faranno a imparare la democrazia se non imparano a discutere? E no, devono ascoltare.
In altri convegni ho segnalato che ascoltano a tal punto che hanno inventato lo sguardo catatonico. Ti guardano senza ascoltarti.
Facciamo una scuola viva, una scuola esperienziale dove si sta bene, non la scuola dell’ascolto. Dico che per fare questa comunità ci vogliono proposte forti, che rompono l’indifferenza e questa deprivazione educativa. Siamo ancora fermi all’idea che il bambino educato è il bravo bambino, tutto tranquillo, che dove lo metti sta. Il bambino educato è invece quello vivace, che si butta, quello curioso, che entra in una casa e cerca di fare domande.
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Le mie proposte sono dei sogni.
Mettere a disposizione di tutti i genitori all’uscita dal reparto di maternità un manuale sulle fasi educative nella crescita dei figli e delle figlie. Lo sto dicendo da sei anni, ma non c’è stata una città, nemmeno un paesello… Costa troppo! Ma in questo modo si salvano bambini e genitori se si forniscono loro le informazioni giuste. Altrimenti che pretese hai? Che si informi sul blog Mamma coi tacchi a spillo o dalle influencer? Questa proposta è ormai un sogno perché un’idea così banale non si riesce a concretizzare.
Allora io alzo il tiro e aggiungo: Affiancare al pediatra di famiglia anche il consulente educativo (parent counselor). Visto che tanto non ci ascoltano sulle cose semplici, proviamo a proporre qualcosa di veramente unico nel mondo. A volte all’italiano piace fare le cose in anticipo sui tempi, come la chiusura degli ospedali psichiatrici oppure la legge contro le classi differenziali. Siamo stati i primi in assoluto a dimostrazione che le cose semplici ci risultano difficili e quelle complicate potrebbero risultarci più semplici.
Torniamo ad avere un presidio pedagogico in ogni istituto scolastico. Mi sembra un’idea banale, peraltro c’è sempre stato. Ovvio che la scienza dell’educazione e dell’apprendimento è questa. In Italia abbiamo avuto la più grande scienziata dell’educazione dei tempi moderni: Maria Montessori. Ma la sua scienza, la pedagogia, non l’abbiamo più. È solo una prolissità accademica dove devi passare se vuoi diventare insegnante dimenticando che in realtà è una scienza come l’architettura, come la medicina, come la giurisprudenza. È una scienza pratica, non filosofica. È un equivoco. Dobbiamo uscire dall’idea che a scuola l’alunno difficile sia disturbato o che abbia una malattia gravissima. Facciamo le cose giuste e avremo la possibilità di costruire questa comunità educativa dove l’obiettivo sia star bene tutti, stare felici.
Pubblicato sul trimestrale Conflitti del CPP, diretto da Daniele Novara. Dal 2023 la rivista è diventata digitale per gli iscritti alla Newsletter. Tutte le informazioni sulla rivista e su come sostenere il suo prezioso lavoro ventennale sui temi educativi sono leggibili qui.