Abbiamo fatto sparire bambini e adolescenti dai territori. Abbiamo scelto di vivere nel tempo dell’orologio in cui non c’è spazio per il “tempo perso”, quello dei ritmi lenti, della curiosità e della creatività, della noia, della ricerca e dell’esperienza. Abbiamo trasformato le città in spazi destinati soltanto al lavoro, alle merci, ai grandi palazzi dormitorio, alle scuole chiuse da cancelli, burocrazie, saperi astratti, banchi immobili, ossessioni per le valutazioni. Per questo portare bambini e bambine, ragazzi e ragazze a giocare, ad apprendere, a vivere ogni giorno gli spazi urbani sarebbe un’occasione straordinaria per ripensare l’apprendimento ma prima di tutto il nostro modo di stare nel mondo. Occorre tornare nella strada, per dirla con Gaber, per restituirla alla sua funzione vitale di spazio di incontro, conversazione, gioco, ristorazione all’aperto, ribellione, in modo da rivendicarne il carattere di cuore sociale e affettivo della comunità. Una conversazione con Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli che più di altri negli ultimi anni hanno dedicato attenzioni ai temi dell’educazione diffusa

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Fammi giocare. La città e il gioco
I bambini e le bambine, con le loro attitudini e i loro desideri, limiti e talenti, i loro corpi e il loro modo di scoprire il mondo attraverso il gioco, possono contribuire alla vita di una comunità, in particolare nei contesti urbani? In che modo?
[Giuseppe Campagnoli] La vita urbana se è privata di alcune sue componenti vitali, cioè anziani, bambini e ragazzi, e si svilisce e si trasforma sempre più in uno scenario vuoto e caratterizzato da “segregazioni” generazionali e non solo. Il concetto di zonizzazione, inventato per dividere le città funzionalmente, oggi pare diventato totale. Il contesto urbano, sia esso centro storico che periferia, oggi resta un non luogo. Se ci fosse relazione esperienziale continua tra chi abita, chi lavora e chi sta crescendo nell’apprendere, in un teatro dei luoghi rivalutati o trasformati in modo partecipato, magari anche attraverso giochi attivi e creativi, le periferie non sarebbero più tali e i centri storici non resterebbero spazi suddivisi tra mercanti, banche e invasioni di turismo insostenibile. Se le imprese, i teatri, i quartieri, le piazze, gli ateliers, le botteghe e tanti altri spazi, magari ri-costruiti in un grande gioco partecipativo – come suggeriva Giancarlo De Carlo in un testo del 1969, La città come esperienza educativa -, diventassero luoghi di apprendimento e di incontro tra persone di tutte le età e di ogni provenienza, ciascuno potrebbe essere attore, spettatore, educatore ed educando, creatore e realizzatore insieme, anche con lo strumento del gioco che. come si sa. dovrebbe investire tutti in ogni momento della vita. Tolstoj fece un grande elogio della vita urbana elevandola ad educatrice dei giovani e degli adulti forse meglio della vita rurale. Se bambini e ragazzi insieme agli adulti e agli anziani non contribuissero partecipando, come in un grande gioco dell’oca di scoperte, di prove, di simulazioni, di esplorazioni, ad esperienze esistenziali, continuamente, durante tutta la giornata, mancherebbe, come in effetti manca, una gran parte dell’essenza vera della città che, come sta già avvenendo, si atrofizzerebbe ancor di più in ogni sua parte. Un’educazione diffusa nella città incrementerebbe, nella sua fase sperimentale, in rete tra la scuola o le associazioni educative organizzate, e i diversi soggetti del territorio – dai comitati di quartiere ai centri sociali e centri anziani, dai musei ai teatri… – il contributo attivo e a tempo pieno alla collettività. Mi viene in mente una riflessione scritta da Silvano Agosti nella prefazione del libro Educazione diffusa: “L’Essere Umano andrebbe lasciato in pace nel territorio di crescita che la natura gli offre e lasciato libero nella pratica completa e totale del Gioco. Sì, sempre a parere strettamente personale, il solo desiderio di ogni Essere che viene al mondo, per ora dalla nascita fino ai cinque anni di età, è unicamente quello di giocare, giocare e giocare. Naturalmente se nell’infanzia i giochi saranno semplici, già dalla prima adolescenza ogni essere umano fruirà dei vari linguaggi creativi che traggono origine dal gioco ovvero la pittura, la danza, la musica, la letteratura, la recitazione, il cinema etc. come voi stessi proponete nel vostro progetto educazione diffusa. Importante è che ognuno scopra la propria unica, rara e irripetibile creatività finora completamente estinta da qualsiasi esperienza scolastica”, e non solo aggiungerei.
[Paolo Mottana] Ritengo da tempo che uno dei peggiori misfatti della nostra civiltà consista nell’aver fatto sparire i bambini e gli adolescenti dalla città e dai territori rinchiudendoli nelle scuole e nella case a fare i compiti per la maggior parte del loro tempo. Da un lato questa è un’imposizione che confligge con la naturale predisposizione dei più piccoli a muoversi, a curiosare, a esplorare e a vivere esperienze attraverso il loro corpo nel proprio territorio. Dall’altro priva tutti noi di una presenza vivace, colorata, spontanea, creativa, ludica e affettuosa di cui abbiamo bisogno come il pane. La presenza dei corpi e dei volti dei bambini nel mondo sarebbe una terapia per molti mali. Primo, il male di stare rinchiusi e immobili che una civiltà malata ha concepito per loro ma dall’altra anche la possibilità di vivere con loro una comunicazione, una convivenza, un gusto d’infanzia che per tutti noi, soggetti al lavoro e all’affaccendamento, potrebbe essere uno stimolo a ricomporre le nostre parti calcolatrici e strumentali con una sensibilità diffusa, ludica appunto ma anche semplicemente curiosa e emozionata. Bambini che giocano, bambini che domandano, bambini che intrattengono, bambini che partecipano e collaborano, come nella prospettiva dell’educazione diffusa che da anni sostengo con Giuseppe Campagnoli, sarebbero un’occasione straordinaria per ripensare il nostro modo di stare nel mondo.
Di certo grandi e piccoli, nelle città hanno molto bisogno di rallentare, di imparare a vivere la passione del qui e ora. La pandemia e la crisi climatica non sembrano per ora aver messo in discussione l’ossessione della velocità e del fare… Quale idea di tempo può aiutare a ripensare il rapporto dei bambini con la città?
[GC] Per riportare la vita urbana a una tempistica coerente con l’essenza della città che dovrebbe crescere e trasformarsi per lentezza e meditazione, senza i diktat dell’urbanistica e dell’architettura frenetiche e mercantili, bisognerebbe rivalutare il “tempo perso”, quello dei ritmi lenti, della curiosità e della creatività, della noia, della ricerca dell’esperienza, dell’apprendimento per choc educativi, rispetto al “tempo speso bene” della corsa ad ostacoli, della competizione, della misurazione, della meritocrazia. Le emergenze, spesso create o implementate ad arte, pare abbiano, contro ogni logica anche solo di buon senso, messo il turbo a tutte le attività in una accelerazione a spingerle verso obiettivi sempre più numerosi e sempre più utilitaristici e a vantaggio di pochi. Le città e le metropoli ne sono la spia più evidente, specie se confrontate con i ritmi, per fortuna ancora decisamente più lenti, di piccole entità urbane, borghi e paesi. Anche il rapporto degli anziani con le città è estremamente distorto come quello di bambini e ragazzi. Imporre collettivamente un drastico rallentamento in ogni attività e in ogni luogo sarebbe già un bel punto di partenza. L’idea del tempo che “fugit irreparabile” deve essere domata dalle persone perché comincino a muoversi e a fare insieme a ritmi distesi e coordinati tra educazione, lavoro, gioco e scoperta. Si può ripensare in sinergia – magari simulando e sperimentando in rete – un insieme lento e disteso di tempo-scuola, tempo-casa, tempo-lavoro e tempo libero permeandoli di quella noia giocosa e di quel fare d’esperienza proprie di quell’educazione tesa a una intera città educante fatta non solo di luoghi ma di persone, attività, movimento, occasioni diffuse di apprendimento il tutto rigorosamente lento pede.
[PM] Sicuramente le nostre città, nel tempo, si sono dimenticate di molti dei propri cittadini. Sono cresciute solo per ospitare il lavoro, le merci e i grandi palazzi dormitorio. In esse possono circolare soltanto gli adulti e i mezzi di trasporto sempre più veloci e pericolosi. I borghi e le città fino a qualche decennio fa ancora rigate dallo sfrecciare dei bambini e degli adolescenti sulle loro biciclette, sui loro pattini, o semplicemente a piedi, i crocchi di adolescenti o di anziani, le scorribande di ragazzini, i giochi in strada, sono stati cancellati per fare spazio solo ai flussi di merci, di cui gli uomini ormai sono pienamente parte. Il tempo di vivere si è trasformato in tempo del profitto. Ricostruire i territori con l’attenzione necessaria a ospitare di nuovo tutti questi segmenti sociali rinchiusi significherebbe restituire vita e piacere ai contesti urbani. Significherebbe obbligare un po’ tutti a rallentare e intensificare il proprio tempo di vita. Anzitutto con una ciclopedonalizzazione diffusa e sicura, non certo disegnando qualche linea tratteggiata gialla ai margini delle corsie stradali senza protezione, con l’invenzione di percorsi, di ponticelli pedonali e ciclabili, con l’impedimento al traffico ovunque possibile per restituire ai ragazzi e ai bambini luoghi di gioco e di libera socialità, giardini atelier, dove studiare, creare, incontrarsi, piazze e parchi dove fermarsi e riposare senza il fracasso dei mezzi di trasporto, oasi vere e proprie che permettano a tutti di vivere insieme e non segregati nei parchi gioco poco più grandi degli spazi riservati ai cani. Questa sarebbe la città viva, con i suoi tempi differenziati, dove poi le infinite possibilità di esperienza venissero organizzate per renderla anche educante.
È giusto considerare la strada prima di tutto come luogo degli incontri, delle sorprese e delle scoperte?
[GC] Scrive Colin Ward in L’educazione incidentale:“Quando Charles Dickens camminava lungo le strade di Camden Town per andare a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, la passeggiata era un costante imbattersi ogni sorta di luoghi e di esseri umani…”. Generazioni intere nel passato hanno avuto una parte dell’educazione per strada. Io stesso lo ricordo fino agli inizi degli anni Settanta. La giornata era suddivisa tra sei ore a scuola, tre a casa e fino a sei per strada, piazza, cortile. La città nel tempo si è liberata della funzione indispensabile che avevano le strade urbane, specialmente nelle metropoli e quindi si è privata della libertà stessa della città per quell’ordine atto a mantenere tutto e tutti una sorta di mixer tra sicurezza, controllo e organizzazione tassative. La strada non è solo un percorso e un tragitto strumentale. La strada è un luogo della ricerca e della scoperta, è parte della spina dorsale di una città che è organismo vivente dialogante con chi la vive, come ha spiegato Aldo Rossi, in ogni sua parte finché resta viva e non si trasforma in una sommatoria di opifici del danaro e del potere connessi da vie indifferenti e meramente funzionali. Da qui la sua libertà che consiste nel superamento della convinzione degli adulti a controllare, dirigere e limitare il libero fluire della vita organizzando spazi a senso unico senza alcun grado di libertà. Il gioco una volta affrancati certi spazi aperti “connettivi” e collettivi come le strade, le piazze, i cortili diventa protesta, esplorazione e pretesto di rianimazione e trasformazione. Se i bambini e i ragazzi scelgono per il gioco proprio quegli spazi che ci appaiono più provocatori e meno “sicuri” è segno che il gioco è esso stesso protesta ed esplorazione insieme oltre che crescita. Oggi occorre trasformare la strada radicalmente o riappropriarsene partendo dal basso per restituirle il fantastico ruolo di vita e non di semplice passaggio da un punto a un altro della città. Lo stesso dicasi per piazze, cortili, spiazzi, larghi e radure. Inventandosi incontri, flash mobs, eventi, gare senza premi e senza competizione ma piene di “dietro l’angolo” e oltre le regole imposte. Ho visto poco tempo fa ridisegnati in una via di un arrondissement a Parigi che ho ritrovato come esperimenti anche in diverse nostre città, i giochi che una volta erano strumenti di divertimento per bambini e ragazzi: la campana, la lippa, le biglie… L’importante è che non siano occasionali ma, se possibile, integrati con nuove invenzioni in una accezione di spazi riappropriati tra esperienze e chocs educativi, giochi cooperativi senza competizioni, creatività di strada.
[PM] La strada è un vettore di comunicazione sociale, un tracciato per congiungere paesi, persone, luoghi. Non può essere solo la lacerazione del territorio, capace a volte di scindere quartieri, villaggi e città, a fini di commercio abitata dal tumulto dei mezzi di trasporto sempre più grossi e rumorosi. Occorre tornare nella strada, come diceva Gaber, per restituirla alla sua funzione vitale di spazio di incontro, conversazione, gioco, ristorazione all’aperto, in modo da rivendicarne il carattere di cuore sociale e affettivo della comunità.
Il piacere di giocare, di creare, di stare da soli ma anche con gli altri è legato alla possibilità di abitare ogni giorno piazze, cortili, strade, porticati, spiagge, boschi, parchi ma anche botteghe, mercati, bar, officine… Quale educazione diffusa occorre promuovere in tanti modi diversi in questo tempo difficile?
[GC] Occorre promuovere quella educazione che noi chiamiamo diffusa, e che è una sola e totale, ben rappresentata per esempio anche in un gioco di personaggi e di situazioni nella Commedia della città educante dove la storia di un’idea contrastata racconta semplicemente anche che cosa si potrebbe fare, come, dove e con chi, magari oltrepassando le burocrazie, le ambiguità di finte innovazioni e la confusione attuale di troppe proposte spurie in campo educativo. Non solo boschi, prati e radure, non solo all’aperto. Tutta la città e il territorio sono luoghi di per sé educanti. Pochi adattamenti volendo, solo volendo, garantirebbero libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in luoghi significativi, educanti aperti o protetti ma ampi. Non vi è un momento storico migliore di questo per sperimentare e mettere alla prova opportunità che si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente praticata nelle sue chances innovative. Abbiamo spesso detto e scritto come si potrebbe fare, abbiamo seguito esperimenti che si sono rivelati virtuosamente efficaci. L’ultima fatica, del mio amico Paolo Mottana rappresenterà concretamente l’idea di un sistema dell’educazione diffusa da promuovere e sperimentare perché ricomprende tutto ciò che è sul tappeto: il gioco, la città e i suoi luoghi e passaggi, le persone, i tempi, in una accezione di società educante. Una città educante, che comprende senza meno il gioco in tutte le sue aree d’esperienza, potrebbe concretizzarsi con esperimenti in contesti pubblici e privati, anche un po’ da carbonari. Così si comincerebbe a superare la separazione che la città ha subìto dopo il medioevo, soprattutto a partire dall’industrializzazione quando ha recintato, non solo idealmente, aree funzionali separate per il lavoro, la cura, la residenza e l’istruzione. Tale separazione potrà essere risolta riunendo vari ambiti e magari integrandoli nell’”abitare”, ogni giorno, mischiandosi, tutti i luoghi possibili.
[PM] Per me l’educazione diffusa è l’unico modo di ripensare seriamente l’educazione avendo in vista la vita dei bambini e dei ragazzi e non mete sociali spesso manipolate dagli interessi dei gruppi di potere che governano la nostra società. Occorre restituire ai bambini e ai ragazzi il piacere e il gusto di crescere insieme a tutti gli altri, in un reticolo di esperienze intense che solo la realtà concreta della vita sociale può offrire. Bambini che si muovono liberi nel territorio, adolescenti che offrono servizi, che lavorano per assaporare l’esperienza di rendersi utili e di produrre qualcosa che a loro interessi, bambini e ragazzi che abitano il mondo con il loro sguardo acuto, attento, sensibile, in grado di prendersi cura dei luoghi pubblici, della natura, che si esprimano in situazioni sociali con i loro talenti, facendo e fruendo di teatro, musica, danza, arte. Dobbiamo riaccogliere questo popolo bello, vivo, pieno di energia perché ci aiuti a ritrovare il senso di abitare poeticamente il mondo ma anche il gusto di aiutarli, ognuno per come può, a individuare le loro vocazioni, le loro forme di espressione, il loro sentiero.
Per quanto sia difficile e limitato, cosa possono fare gli insegnanti per cominciare a proporre esperienze di educazione diffusa e il gioco come dimensione privilegiata di esplorazione della città?
[GC] Molti insegnanti lo stanno già facendo in alcune esperienze eccezionali di messa in campo di aspetti dell’educazione diffusa. Loro potrebbero raccontare cosa si può fare fin da ora soprattutto in relazione con la città e il territorio. Da Cagliari, a Pisa a Gubbio arrivano le testimonianze di come la città riprenderebbe lentamente la sua vita attraverso le esperienze di educazione diffusa impregnate di gioco, di movimento, di corpi, di apprendimento incidentale e non solo. Il gioco dà l’impulso a trasformazioni di grande impatto rispetto alla mera istruzione, perché propone in ambito educativo un’ azione nell’area dell’immaginazione e della curiosità riscoprendo anche il nesso profondo a volte separato a forza tra mente, corpo e ambiente e anche tra le persone e la città non più passiva. Anche la scuola stessa attuale, in una fase transitoria per riscattarsi e trasformarsi radicalmente, potrebbe porsi come mentore complesso nelle iniziative sociali ed educative di ogni parte di città e territorio. Molti di fatto già chiamano tutto questo, a volte magari anche con una certa approssimazione, sul piano pedagogico e del disegno urbano, educazione diffusa. Anche in questa idea di educazione è importante il ruolo dell’architettura che è la scena fissa delle vicende dell’uomo, carica di sentimenti, di generazioni, di eventi pubblici, di “fatti nuovi e antichi” come scriveva il mio mentore Aldo Rossi nella sua visione collettiva della città come locus di memoria, di cultura viva e, in definitiva, anche di gioco.
[PM] Gli insegnanti debbono piano piano sbarazzarsi della “scuola interna”, e cioè l’idea fallace che si impari attraverso la scuola, quella scuola fatta di saperi astratti, banchi immobili, verifiche e di valutazioni. Sconfiggere quella scuola è la cosa più difficile. Comincino a uscire, con i loro allievi, assicurandosi che i genitori accordino loro il permesso di portarli in giro senza rischiare provvedimenti troppo gravi se succede qualche piccolo incidente. Comincino a vivere insieme a loro il mondo, dimenticando le esigenze arroganti dei curricoli ma semplicemente godendo il piacere di stare insieme ai bambini e ai ragazzi nella natura, nei campi da gioco, negli atelier di pittura, in una sala da ballo, in un cortile. Progressivamente intuendo e praticando possibili esperienze da fare con le persone che vivono nel mondo e insieme ai più piccoli, chiamandoli anche a partecipare e collaborare, dall’artigiano, dal panettiere, dal giostraio, al circo, nel laboratorio di riparazioni delle biciclette, istituendo squadre di pulizia dei giardini e delle strade, partecipando alla vita di una fattoria, allestendo piccole fioriere, coltivando orti, suonando e cantando e ballando per strada, coinvolgendo in giochi, in cacce al tesoro, semplicemente consentendo ai bambini e ai ragazzi di sprigionare la loro energia e il loro affetto verso gli altri. Tutto questo richiede tempo, energia, programmazione, organizzazione, quella appunto contenuta nei diversi testi dedicati all’educazione diffusa da Giuseppe Campagnoli e da me. Non è per niente difficile ed è incredibilmente rigenerante, specie se si è stufi di fare i vigilanti della disciplina in classe. Ma la prima cosa da fare è mettere in discussione quell’idea malsana, per sé e per i bambini, che la scuola in quella forma possa essere la soluzione per crescere e divenire, se possibile, ciò che si è. L’educazione avviene fuori, a contatto con l’immenso repertorio di persone, di luoghi, di esperienze, di attività, belle e brutte, buone e cattive, che il mondo offre per crescere, accompagnati ovviamente da qualcuno che sappia comprendere, proteggere, sostenere e incoraggiare questa grande avventura.
Ordinanze sul decoro contro il gioco libero. Giochi nei parchi tutti uguali, pensati per le paure degli adulti. Ma anche giochi dominati da tecnologie, deliri di competitività e profitti… Cosa possono fare genitori, educatori, amministratori locali, dirigenti scolastici… per cambiare l’ordine delle cose?
[GC] Se il gioco è e deve essere un’attività scelta in modo libero da bambini, ragazzi come anche adulti e non viziata dal dominio del mercato, della tecnocrazia o dalle paranoie di una burocrazia securitaria, è necessaria un’alleanza sempre più stretta, senza dispersioni o competizioni esibizioniste, verso una società educante, tra tutti gli attori possibili in una alleanza dove la creatività e l’attitudine critica siano i mezzi e i fini fondamentali dentro una scena che è sempre la città tutta e i suoi territori. Ribellarsi affinché la città e le sue parti non diventino altrettanti recinti è fondamentale, considerato anche che la città stessa può mettersi in gioco come entità vivente che suggerisce, a saperla leggere, ai suoi abitanti come trasformarsi e crescere magari non ad libitum, per non divenire il famigerato feticcio urbano di Mitscherlich che è una sommatoria di monumenti, di luoghi per recludere, speculare, sfruttare e istigare alla violenza. L’unica strada è pertanto ribellarsi agendo per mettere in pratica prove ed esperimenti nei territori urbani o rurali che siano. Si può partire dai condomini, dalle insulae, dai quartieri e insieme alle istituzioni volonterose e coraggiose, fondare gruppi di progettazione, trasformazione e gestione degli spazi per il gioco totale, dalle piazze, ai giardini, ai parchi, alle strade, alle corti. Se ne possono adottare il più possibile, di spazi pubblici e privati, in forma di cooperativa sana o di gruppi di volontariato, per costruire una rete di eduluoghi e di ludoluoghi connessi dalle linee sostenibili di vie riservate al camminare, al pedalare, al muoversi in modo compatibile. Ricordo con nostalgia un esperimento cui partecipai quando in una unica occasione da “uno e trino “ (preside, assessore e architetto) nell’ambito di un progetto denominato Ascanio, alla fine degli anni Novanta, spingemmo bambini, maestri, studenti di un istituto d’arte e amministrazione comunale a progettare, realizzare e gestire uno spazio verde polifunzionale, un giardino per giochi e non solo che da una scuola materna sfondò i recinti verso la città. Purtroppo spesso quando cambiano i governi, anche delle città e dei paesi, è difficile difendere e mantenere anche quello che di virtuoso si è costruito. Quanto ai ludoluoghi virtuali degli schermi e degli screen, dove il gioco spesso è alienante quando non aberrante, occorrerebbe uno sforzo tra insegnanti, politica, educatori e famiglie per ricondurre le trajet virtuel che ormai sta permeando tutta la nostra vita in modo quasi esclusivo, al trajet rèel, il viaggio e lo spazio non solo immaginario ma anche fisico e sensuale per giocare con le persone e le cose usando tutti i sensi, magari insieme, per una volta. Con l’educazione diffusa questo potrebbe avverarsi.
[Intervista di Gianluca Carmosino]
Paolo Mottana (docente di Filosofia dell’educazione e di Emeneutica della formazione e pratiche immaginali all’Università di Milano Bicocca) e Giuseppe Campagnoli (architetto, già insegnante e dirigente scolastico) sono autori, tra l’altro, di La città educante (Asterios) e Educazione diffusa (Terra Nuova ed.). Numerosi loro articoli sono leggibili qui (Mottana) e qui (Campagnoli).
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