Gli arresti del 7 Aprile 1979, il ruolo dei giornalisti e dei fotografi, le paure del Palazzo, la repressione dei movimenti… Una conversazione con Tano D’Amico
di Pas Liguori*
A quarant’anni dagli arresti del 7 Aprile 1979 eseguiti a carico di esponenti e membri di Autonomia Operaia, ho creduto importante contattare il fotografo per eccellenza di quegli anni. Tano D’Amico (che mi onorò della sua attiva presenza all’inaugurazione della mostra “Borgate” alla Casa della Memoria e della Storia di Roma), si è gentilmente reso disponibile per una chiacchierata iniziata davanti a un caffè al bar e proseguita poi in ulteriori appuntamenti. La cosa si è estesa e ho dunque deciso di riordinare al meglio gli appunti e pubblicarli anche perché credo che non si sia ricordato abbastanza quello scandalo politico e giudiziario non così lontano. Devo dire infatti che, nel corso dei colloqui, l’argomento “7 Aprile” si è poi rivelato un varco per guadagnare territori ampi per riflessioni e spunti di carattere civile, sociale e sul ruolo politico della produzione fotografica.
È complicato “intervistare” Tano. Non solo e non tanto per la mia inadeguatezza all’insolito ruolo, quanto perché è estremamente attento all’uso del linguaggio riconducendo l’interlocutore, quasi con pignoleria, alle esatte terminologie da lui enunciate per i singoli, specifici fatti ricordati. Concetti ben ponderati e riluttanti a elaborazioni e post-produzioni che ne possano minare l’asciuttezza con cui sono stati espressi. Insomma, pensieri trasferiti come una stampa fotografica analogica a contatto, senza bisogno di mediazioni e alchimie.
Non soltanto fotografia, però. Intense meditazioni formano la base delle esperienze descritte. Nomi e cognomi vengono talvolta accuratamente evitati non per vezzo omertoso ma per dar fiato alla descrizione di uno scenario storico e politico ampio che trascenda atti miseri o nobili di questo o quel singolo protagonista. Gli aneddoti sfuggono a logiche situazioniste o pettegole, costituendo ponti di collegamento modulari tra vari elementi di una testimonianza che molto oggi meriterebbe di esser diffusa e condivisa.
Desideravo dialogare con te sull’esperienza 7 Aprile, su quei tempi che hai potuto vivere molto da vicino…
Sai, mi è capitato proprio di recente, a un incontro con altri fotografi, di citare il 7 Aprile. A riguardo, sentii il bisogno di ricordare il tradimento della stampa, della fotografia. Sì, fotografi e giornalisti hanno tradito il popolo.
Cominciamo bene…
Credo di averlo detto con un tono se vuoi anche solenne. Mi si ribatté che andavo a riesumare il 7 Aprile davanti a una sala gremita perlopiù di giovani che non potevano conoscere quegli avvenimenti e quindi disinteressati.
Invece, occasione quanto mai giusta, coi tempi che corrono, per riprendere quella storia. A cosa ti riferivi parlando di tradimento?
Tra noi relatori, un ex collega-amico mi rinfacciava anche che da 40 anni non lo cercavo più e lì ho dovuto ribadire che questa cosa risaliva al momento in cui lui stesso per mettersi il cuore in pace aveva sostenuto “ma qualcosa debbono avere pur fatto gli imputati del processo 7 Aprile”. Desolante per me che gli esprimevo il mio dolore e le mie perplessità sulla vicenda.
Vicenda inquietante con ombre densissime che proiettano sino a oggi…
Penso si fosse creato allora in Italia lo stesso clima delle retate che vennero effettuate contro gli ebrei. Colpevoli di tutto come gli ebrei, quelli del 7 Aprile avevano commesso tutto: scioperi selvaggi, banda armata, rapimento Moro, insurrezione e così via. Ora, proprio per chi come me aveva vissuto con passione quei tempi per lavoro, per vita, questo era assurdo. Era noto chi avesse rapito Moro. Magari, non si conoscevano i responsabili ma già allora si sapeva che fra gli arrestati del 7 Aprile non ci fosse nessuno direttamente e realmente coinvolto.
Ricordi dove ti trovavi il 7 Aprile?
Era poco prima di Pasqua ed ero con mia moglie in Maremma. Trascorrevamo qualche giorno di vacanza in un piccolo albergo. Amo quei posti. Ti parlo di Sovana, Sorano con antichissime chiese… Ora non ci risiede più nessun abitante originario. Semmai, ci ritrovi gli inglesi…
Come venisti informato della retata?
Lo appresi dal telegiornale. I tg aprivano sparando la notizia. Secondo me, per la stesura di quei telegiornali, qualcuno esperto di informazione si era rifatto proprio alla stampa, ai filmati sulla caccia all’ebreo in Germania e in Italia. Nei servizi proposti campeggiavano volti degli accusati con sorriso scomposto. Mi ricordo in particolare il ghigno di uno degli arrestati del 7 Aprile accompagnato dalla voce dello speaker che narrava del rapimento Moro, delle stragi.
Operazione lombrosiana…
Goebbelsiana, direi. Gli arrestati venivano rappresentati come veri e propri mostri. Sai, un prodotto confezionato per suscitare stigma verso i super-delinquenti ebrei ricchi e usurai, affamatori di popoli.
Che riflessioni facevi tu, professionista e fotografo, su quell’immagine, su quella comunicazione?
Si trattava di un meccanismo che ho combattuto per tutta la vita smontando le montature fisiche tendenti a “mostruosizzare” gli oppositori reali o potenziali. E lì, ripeto, sembrava una strategia di stampo nazista. Per questo, oggi, i telegiornali di quei tempi non vengono mai più riproposti nelle ricostruzioni di repertorio. Non li vedi nemmeno su Rai Storia. Erano come le riviste di regime che sostenevano le leggi razziali in Italia e prima ancora in Germania. Tipicamente concentrate sull’aspetto fisico delle persone, ricordavano molto gli orribili filmati, le vignette che venivano usate per stimolare la soppressione degli anormali.
Torniamo ai protagonisti del 7 Aprile. Quali erano i tuoi rapporti personali con loro?
I personaggi di questo scandalo erano amici. Quando mi hai contattato per incontrarci è stato come il riaprirsi di una ferita. Ho passato delle brutte ore. Mi sono ritornate in mente tante cose a cui io stesso mi ero rifiutato di dare il giusto peso.
Cosa intendi per “giusto peso”?
Il 7 Aprile era stato preparato da molto tempo.
Sei gentile a dettagliare?
Dobbiamo tornare indietro almeno al ‘77 quando, a differenza del ‘68, ci furono per le strade i giovani. Tutti i giovani, dagli intellettuali ai giovani braccianti. Ci furono le donne e io penso che il Paese, inteso qui come il Paese che comandava, ebbe veramente paura.
Hai ricordi prevalenti tra i numerosi altri che hai vissuto per strada a quei tempi? In particolare, sulle dinamiche e sulle emozioni ed energie sprigionate dai movimenti?
Non riuscirò mai a dimenticare le manifestazioni notturne delle donne che si davano appuntamento in centro qui a Roma. Per esempio, in Piazza di Spagna dove si radunavano in massa. Il traffico cittadino si allontanava dal centro e la polizia rimaneva distante. Mi ci recavo pur essendo uomo ma purtroppo non c’è molto materiale su questi fatti. Altri colleghi fotografi erano raramente presenti. Allora, prova a immaginare: il centro che si riempie di donne al buio, di notte. Si mettevano in marcia e quello che ricordo è il silenzio così assoluto che si poteva sentire il fruscìo delle loro vesti. In questo silenzio, una ragazza molto giovane urlava. Con voce delicata, ma acuta, che si incrinava nello sforzo di urlare “donna, lo sai la forza che hai?”, seguito poi da centomila assieme “sì, lo so, la forza che ho!”… A me sembrava che i palazzi romani, intesi sia in senso fisico che figurato, tremassero.
Palazzi impauriti nei quali però si preparava una reazione, evidentemente.
Si organizzarono sul come mandare a casa le donne che appartenevano a qualsiasi ceto ed era proprio questo che costituiva pericolo per il palazzo: c’erano figlie di persone importanti, fidanzate di poliziotti, studentesse, figlie di grandi giornalisti, donne del popolo e borghesi.
È chiaro che descrivi una composizione sociale, un panorama dei movimenti alquanto differenti rispetto a esperienze precedenti…
Il discrimine nelle razzie compiute il 7 Aprile è tra intellettuali di movimento schierati con il ‘77 e quelli che pur avendo aderito e vissuto il ‘68 si schierarono contro il movimento stesso. Pensa che io che lavoravo soprattutto per il giornale Lotta Continua proprio nel ‘77 pur avendo dei rapporti personali molto intensi con tutti, di fatto quando andavo al giornale e sentivo delle discussioni anche accese, notavo che al mio apparire tutti cessavano di parlare. Conoscevano la mia simpatia per i giovani, le giovani e anche meno giovani che scendevano in piazza in quei giorni. Se andiamo a vedere le collezioni di Lotta Continua non è affatto vero che le mie foto più belle venivano lì pubblicate.
Interessante. Se ben comprendo, veniva adoperato un bisturi selettivo nei confronti delle tue scelte fotografiche?
Racconto fatti poi ognuno li giudichi come vuole. Ancora adesso sono legato da profondissimo affetto alle persone che lavoravano in quel giornale. Debbo dire che le mie immagini ritraevano sentimenti umani, bellezza, cultura e dignità delle persone che scendevano in strada, ma non venivano sempre pubblicate dal mio giornale. Anzi, venivano usate e acquistate altre immagini in cui i giovani in strada potessero apparire in qualche modo come belve assetate di sangue, prive di grazia e bellezza.
In effetti, una narrativa fotografica largamente adottata e associata a quegli anni, con le dovute eccezioni quali la tua.
Lì per lì, uno non vuole vedere certe cose. Per mio carattere ed esercitando il mio mestiere, non mi sono mai eretto a giudice delle immagini altrui valutando alcune scelte dei colleghi come sbagliate. Erano loro scelte. Ancora adesso, chi mi conosce, sa che non entrerò mai nelle scelte culturali di altri perché è come mettere le mani nell’anima di altre persone.
La tua fotografia ha comunque documentato quegli anni con toni differenti rispetto alle immagini cliché…
“Documentato” è troppo poco… Mi sono sforzato per una fotografia il più possibile aderente a quell’epoca, quella che interpretasse di più quegli anni.
È vero. Le tue foto sono “differenti”, intrise di una densa poetica seppur maturate in contesti di drammatico dinamismo.
Bisogna dire che le poche mie immagini pubblicate si vedevano molto. E si vedono tutt’ora. Sembra che abbiano dissolto altre immagini di quell’epoca che con l’alibi della spettacolarizzazione erano volutamente sgradevoli per allontanare gli avvenimenti di strada dai cuori delle persone. Quindi, comincia nel ‘77 una divisione tra buoni e cattivi, tra sommersi e salvati.
Sembra questo lo sfondo essenziale della tua ricostruzione.
I sommersi e i salvati è il titolo di un libro di Primo Levi e riferisce ad episodi accaduti tra i reclusi nei lager. Analogamente, chi stava con il movimento del ‘77 sarebbe stato sommerso. Chi, invece, si dava da fare per combatterlo sarebbe stato salvato.
Cosa succedeva?
Il potere, chiamiamolo così, si andava organizzando per fare rientrare in casa tutto un popolo che si era abituato a vivere fuori. E tutti noi conosciamo i frutti di questo vivere fuori: le poche, grandi riforme che il Paese ha avuto. La mentalità, minacciosamente per il potere, cambiava.
Non dimenticando la crudele strategia della tensione…
Serviva appunto per mandare a casa il popolo. Ma preferisco parlare delle esperienze che in prima persona ho vissuto. Vorrei ritornare a quel discorso che accennavo sul mio giornale, Lotta Continua. Nei dieci anni precedenti, proprio per le condizioni con cui svolgevo il mio lavoro, sempre in strada, volevo bene a tutti i colleghi. Tutti in redazione facilitavano il mio lavoro. Amavo stare a tavola con loro ma nell’interpretazione di alcuni fatti c’erano divergenze di opinione.
Puoi ricordare qualcosa di specifico?
Cito quello che mi veniva rimproverato con affetto, ma rimproverato, di essere amico degli autonomi. E lo ero. Questa cosa mi è stata rinfacciata anche molto ma molto dopo perché erano diventati pericolosi anche altri miei affetti ad esempio quello per gli zingari, per il popolo rom. Una volta, un alto esponente della polizia intervistato dal quotidiano La Stampa, riferendosi a me, dichiarò “è vicino alle minoranze razziali più pericolose del nostro Paese”. L’articolo, va detto, stroncava ogni ombra o insinuazione a mio carico ma il fatto che mi si imputava di stare vicino alle minoranze pericolose del mio Paese è una costante della mia vita e del mio lavoro.
Tutto questo contesto come si ricollega all’aneddoto per cui al tuo arrivo in redazione a Lotta Continua, di colpo smettevano di parlare?
Ti racconto questo: tornando al ‘77, il direttore di Lotta Continua discutendo amabilmente mi chiese “Tano ma tu davvero pensi che la storia del mondo passi per il cortile dell’Università di Roma?”.
Era la tua seconda casa in quel periodo…
Gli risposi “Sì, certo”. Ma lo dissi quasi per ripicca, forzando un po’ gli elementi. La cosa incredibile è che una trentina d’anni dopo mi telefonò dall’America. In piena notte: “Tano, sto leggendo un saggio di Chomsky dove si sostiene che il socialismo reale ha cominciato a tremare nel cortile dell’Università di Roma”. Sentì di dovermi informare subito, trent’anni dopo… Questo per dire chi è stato vittima delle razzie del 7 Aprile: quel ceto intellettuale che si era posto al fianco del movimento del ‘77. E che la linea dei sommersi e dei salvati attraversasse anche il mio giornale era dunque un fatto.
La linea alla base di quell’improvviso silenzio che calava sulle discussioni in atto, quando arrivavi al giornale…
Succedeva perché eravamo diversi ed eravamo diventati diversi nelle intenzioni. Non entro nell’anima dei miei colleghi ma si vedeva dalle cose che scrivevano e rappresentavano, dalle immagini che sceglievano che erano contro i giovani che scendevano in strada. Mi colpì un articolo scritto molto bene che sembrava però qualcosa che stava a metà tra la cabala e la smorfia napoletana: in esso si mostrava che il ‘68 era buono e il ‘77 cattivo.
Saresti dunque stato individuato come fotografo portavoce, schierato a favore del ‘77?
Non me lo chiedo. Ognuno pensi quel che gli pare. Io ero così, non ero stato “individuato”, parteggiavo per i giovani e si vedeva nelle mie immagini. Loro cercavano un’altra cosa. Nulla di orribile, ma questo era e questo accadeva allora.
Intanto, il processo agli imputati del 7 Aprile era finalmente iniziato dopo la vergognosa, interminabile carcerazione preventiva.
Sì. Continuavano ancora i processi del 7 Aprile e proprio in quel periodo era apparso su Prima Comunicazione un articolo in cui si affermava che ero stato un fotografo omertoso e bugiardo. L’uso delle parole è stato molto infelice ma devo dire che il concetto era reale.
In che senso?
Si percepiva questo. Qualcuno aveva fatto caso che in tanti anni di lavoro, pur occupandomi di ciò che succedeva in strada, di quelli che per alcuni erano reati commessi in strada, le mie immagini non avevano mai contribuito a condurre in carcere qualcuno. Quindi, “omertoso e bugiardo” perché quelli che erano assassini per la stampa venivano ritratti nelle mie immagini come esseri umani con la loro bellezza e la loro dignità. Le mie immagini pur rappresentando delle persone che stanno commettendo reati non hanno mandato mai in carcere nessuno. Sono apparso diverse volte a testimoniare in tribunale e i giudici hanno dato retta alle mie ricostruzioni perché ho rappresentato i fatti e anche i reati in modo da far intravedere anche le cause, le motivazioni e le istanze. In una delle mie immagini più gettonate, quella del volto di una ragazza con due carabinieri di spalle, qualcuno potrebbe ravvisare almeno tre reati: la ragazza ha il volto coperto, non obbedisce alle ingiunzioni della forza pubblica di allontanarsi e, infine, con una mano distanzia un carabiniere. In quell’immagine però quello che prevale è la bellezza delle motivazioni che la spingevano in strada.
Perché dici che quell’accusa di omertà in quel commento avrebbe un fondo reale? È difficile riconoscere un carattere omertoso nell’azione fotografica, nelle scelte che hai adottato.
Il fondo di verità nell’accusa rivoltami è che non si vede una cronaca dei fatti. E appunto, c’è qualcosa di più. Qualche volta il giudice confrontava mie immagini con quelle della polizia: vincevano sempre le mie immagini. Che differenza passa tra una mia immagine e un’immagine scattata dalla polizia? Nelle mie immagini si vede dell’altro e anche un giudice se ne convince. Ripeto, si vede la bellezza delle motivazioni. E allora, di fronte alle motivazioni, alla grandezza, alla gravità e alla bellezza delle motivazioni, il reato è ben poca cosa.
Ricordi altre tue immagini che hanno emozionalmente consolidato e testimoniato questa tua ricerca?
Molto più che per la foto della ragazza ora descritta, rimasi in dubbio se pubblicare un’immagine di donne intente a difendere le loro case e i loro figli. In opposizione a loro, la foto ritrae una fila di carabinieri che avanza lanciando candelotti lacrimogeni che, raccolti, venivano rilanciati ai militari. Un reato direi piuttosto grave. Ci pensai per giorni, ma alla fine pubblicai lo scatto. Il perché è presto spiegato: in quella fotografia si scorgeva dai movimenti, dagli angoli delle loro membra e dalle linee dei loro volti che queste donne avevano dormito in macchina per settimane coi loro figli. La scelta dell’immagine non è poi tanto quello che parte da me, ma come può essere vista da altri. È lì che devi cogliere queste cose: un conto è voler dire qualcosa, altro è dirla.
La fotografia, nel chiaroscuro di luce e tenebre…
Il mondo della fotografia è certamente anche mondo di tenebra. Parliamo della cosa cruciale. Negli ambienti della fotografia non si visse l’evento 7 Aprile come scandaloso, molti lo vissero come una liberazione.
Mi par di poter affermare che questa “liberazione” di cui parli si collochi nelle tenebre.
Nel periodo successivo ai fatti del 7 Aprile, scrissi una lettera. Vedevo che il mio giornale cambiava, il Paese cambiava e cambiava per il modo in cui la stampa compreso il mio giornale si comportava. La stampa si era staccata dal popolo soprattutto nelle immagini e ti spiego. Agli inizi della mia carriera, ho fatto anche foto per copertine di riviste femminili. Andavo nei mercati romani all’aperto e lì facevo ritratti di donne. Tra venditrici e compratrici trovavo dei volti bellissimi su cui potevo insistere per eseguire poi un ritratto che potesse andar bene. Nessuno si meravigliava di questo: c’era un rapporto stampa/fotografi/persone in cui i fotografi venivano vissuti come compagni di strada. La criminalizzazione di quella parte di popolo più viva che scendeva in strada, deteriorò quel rapporto e la fotografia veniva vissuta come un pericolo.
A chi era diretta la lettera?
Scrissi al mio amico direttore e argomentavo sulle strade del Paese divenute come quelle della Grecia dei colonnelli e della Spagna di Franco. Ormai, mentre svolgevo il mio lavoro, venivo guardato con preoccupazione dalla gente. Il direttore pur non condividendo del tutto i contenuti, prende la lettera e decide di farci una pagina intera di Lotta Continua come se fosse un mio articolo firmato, associandolo a una mia foto eseguita mentre lavoravo con lui come a dire “quello che scrive fa queste immagini”.
Posso chiederti quale immagine venne scelta?
Era una mia foto che aveva dissepolto un omicidio bianco commuovendo gran parte del Paese. Fu un successo per il giornale, erano morte delle donne. Molte giornaliste telefonarono piangendo, avevo fatto quest’immagine in un’inchiesta che avevo svolto proprio col mio direttore nel nostro tempo libero, di domenica. Ma il punto è che l’articolo si associava bene alla questione che in molti avvertivamo di un Paese in cui qualcosa non andava. E si capì cos’era. Ci fu l’intervento massiccio di un’organizzazione invasiva, facoltosa e violenta il che voleva dire esercizio di potere sui mezzi d’informazione per togliere il Paese dalla strada e mandarlo a casa. Questa organizzazione era la P2.
Che legame ha questa tua lettera/articolo con quel senso di liberazione di cui mi parlavi e che, se ho ben capito, veniva avvertito da molti a seguito del 7 Aprile?
Quel mio intervento sul giornale ebbe risonanza simbolica e venni invitato a un convegno sul reportage fotografico nella cornice maestosa del palazzo dei Dogi a Venezia ai primi di Settembre, a pochi mesi di distanza dalla retata. Due miei splendidi colleghi, Uliano Lucas e Carla Cerati, mi telefonarono per invitarmi a relazionare sui contenuti espressi nella lettera/articolo. Nel periodo a partire dal 7 Aprile il flusso di danaro riempì le casse di noti giornali come il Corriere della Sera permettendo la nascita di ulteriori iniziative editoriali. Rizzoli e Mondadori moltiplicarono le loro testate. Uscirono riviste su tutto. Sul tempo libero, sulla bellezza, su come far soldi mettendoli in banca. Che cosa voleva dire questo? Per i miei colleghi si trattava di opportunità economiche, possibilità di lavoro.
Insomma c’era un’atmosfera euforica…
Scorrevano fiumi di danaro. Finivano i tempi magri e cominciavano le vacche grasse. Venivano dati soldi e concessi vantaggi ai giornalisti.
Difficile immaginarti in questo contesto.
A fianco avevo Lucas e la Cerati e iniziai il mio intervento riprendendo la denuncia descritta nel mio articolo pubblicato su Lotta Continua. Venni subito sommerso dai fischi. La cosa mi fece male: fischiavano e urlavano persone con cui ero cresciuto professionalmente, umanamente. Feci per andarmene e, nel tentativo di alzarmi dalla sedia, venni bloccato dalla mano di Uliano che premeva su un ginocchio. Contemporaneamente, Carla mi indicava di continuare fino alla conclusione “deve rimanere agli atti che non ci hanno comprato tutti per due lire”.
Che epilogo ebbe questo biasimevole episodio?
Parlai fino in fondo tra fischi e schiamazzi. Una volta terminato l’intervento, mi aspettavo che le persone che mi avevano fischiato venissero da me perché rendessi conto di quello che dicevo. Nessuno venne da me. Tutti intenti a salutare l’art director di un nuovo giornale L’occhio. Era seduto, per stringergli la mano bisognava chinarsi. Ero a due passi e ho potuto constatare come distribuisse incarichi e missioni ai giornalisti ossequiosi. Insomma, questo era il clima in cui si svolse il convegno.
Mi hai raccontato dell’impegno morale che c’è nel fare fotografia in anni così difficili. In anni che mutavano in maniera così pericolosa e che non colpivano soltanto i detenuti del 7 Aprile. La manipolazione nemmeno così occulta della società mi sembra una componente dolorosa delle tue ricostruzioni.
Desidero riportarti altri elementi a supporto di quello che dicevo. È accaduto qualche anno fa di essere invitato a un dibattito sul ‘77 assieme a un vicedirettore di Repubblica. Si dialogava e lui fa “eh ma poi è venuto il riflusso…”. A ciò reagii con “il riflusso è stato inventato”. Risero tutti, credo con scherno. Fatto sta che l’aneddoto raccontato a una cena dallo stesso vicedirettore suscitò l’interesse di un suo commensale, un giornalista che chiese del mio numero di telefono.
Chi fu la persona così incuriosita?
Paolo Morando, stimato giornalista che peraltro insegnava a Trento. Fu colpito dal mio appunto sull’invenzione del riflusso. Molto più giovane di me, stava scrivendo un libro su quegli anni. Conduceva da tempo molte indagini e si era convinto che il riflusso era una creazione della P2. Era chiaro, si percepiva molto bene il coinvolgimento del Corriere della Sera che pubblicava in prima pagina corsivi sui sentimenti umani, sull’amante che per Natale non può stare con il suo uomo perché l’uomo sta con la famiglia, e così via… Cose reali, per carità, ma usare il privato contro la realtà storica è come usare la fame contro la sete, cioè porre in contrasto due bisogni è disonesto. In questo scenario complessivo rientrava l’operazione 7 Aprile.
Quindi Morando studiava le misure attuate per contrastare il movimento, la piazza attraverso la leva emotiva e della sicurezza.
Dancing days edito da Laterza è un libro sul riflusso. Molti personaggi protagonisti di quel periodo erano già morti e Morando andò a parlare con i figli di queste persone riportando i dialoghi che si facevano nelle case. Molti erano figli di giornalisti. Morando sostiene che anche la musica giovanile era cambiata: prima basata su una struttura di 7 battute da quel momento diventa di 5 battute. C’è semplificazione. Nella nostra cultura non esistevano le discoteche. Vennero importate dalla P2, dall’America. I giovani dei movimenti inizialmente si ribellarono e si scagliarono contro le discoteche. Volavano molotov…
Inizialmente, e poi?
È qui che il libro descrive il colpo di genio: i teorici del riflusso ingaggiavano i ragazzi di movimento e affidavano loro la sicurezza delle discoteche. Veniva data loro possibilità di lavoro e vita. Infatti, cose che passano per esser considerate delle rivoluzioni culturali erano in realtà delle operazioni strumentali come le stesse “Estati romane”. Agli oppositori del potere veniva data l’opportunità di guadagnare concessioni per fare ristorazione o controllo degli accessi alle varie manifestazioni in calendario eccetera. Tutto orchestrato da grandi esperti americani. Morando mi disse che gli fecero addirittura vedere il documento progettuale del riflusso. Sessanta pagine che ebbe il tempo solo di sfogliare. C’era un piano ben preciso e in questo piano era incluso il 7 Aprile che si sbaglia a vedere come evento isolato, a sé stante.
Tano, di elementi foschi, profondamente inquietanti è piena questa vicenda. Dicevi di esser rimasto parecchio scosso nel ricordo che ho sollecitato invitandoti a ripercorrerlo assieme.
C’è una cosa molto brutta in questa storia che in 40 anni non ho mai voluto troppo approfondire. All’epoca dei fatti, avevo i massimi accrediti, permessi. Tra l’altro possedevo una tessera che abilitava a lavorare in condizioni critiche, conflitti a fuoco, eventi naturali. Come fotografo indipendente la ottenni dimostrando di lavorare per tre giornali regolarmente venduti in edicola. Nei momenti più drammatici la si poteva esibire unitamente all’applicazione di un bracciale bianco recante il timbro della Repubblica e il numero identificativo. Ebbene, venni convocato in un ufficio dove mi fu chiesto “lei ha la nostra tessera?”.
Siamo all’epoca del processo?
Siamo nell’80. È un ufficio stretto e lungo, con piante lussureggianti, adornanti un ambiente cupo. A ricevermi una dirigente, “Lei ha la nostra tessera? Ce la fa vedere?”. E ponendovi la mano sopra “La teniamo noi”. “Ha anche il bracciale?”. Naturalmente lo avevo. Lo portavo nell’astuccio dei miei occhiali di scorta e nemmeno potevi prestarlo a colleghi, sarebbe stato reato. “Lo teniamo noi”. Non lo avevo mai usato. Restai profondamente turbato e chiesi “Perché?”. La dirigente sconcertata dalla mia reazione “Io non debbo dirle niente, non debbo farle vedere niente”. Così facendo, aprì una cartelletta e mentre mi guarda negli occhi, la girò dalla mia parte e mentre la ruotava abbassai gli occhi e vidi come un compito scritto a mano. Disse “Non le ho fatto vedere niente”. E io “Signora, non ho visto niente”. Questa cosa mi ha lavorato dentro per molti anni.
Cosa voleva comunicarti questa signora?
Pensava che riconoscessi quella grafia, per declinare ogni sua “cattiva” responsabilità. Temo che volesse farmi capire che il lancio della palla arrivata a lei era stato fatto da qualcuno molto vicino a me, che io potessi riconoscere. In effetti, eravamo in pochi al giornale a preferire la scrittura a mano. E quella grafia non era certo la mia.
Ritorna quel concetto dei sommersi e dei salvati.
Sì, i sommersi e i salvati. Buoni e cattivi. Chi erano i buoni? I buoni erano quelli che indicavano i cattivi.
Il solerte suggeritore veniva cioè dal tuo ambiente…
Una persona molto vicina a me. Quest’ultima cosa la penso da poco tempo. Non l’ho mai voluta pensare. È stato un affare molto ampio. Corruzione di massa della stampa, corruzione di massa fra i fotografi… E qui si chiude il cerchio del nostro dialogo: quando ho rivisto di recente quella platea di colleghi fotografi. Partendo dal 7 Aprile, in questo viaggio di tenebra, si comprende meglio adesso quel mio “la fotografia ha tradito”.
*Fotografo. Ha aderito alla campagna “Ricominciamo da tre“
Guido Viale dice
Le prime due riunioni del comitato 7 aprile e dalla redazione dell’omonima rivista si sono svolte, subito dopo gli arresti, a casa mia, nella casa occupata di viale Piave. 9 a Milano. Poi qualcuno ha pensato di illustrare il secondo numero della rivista con un’enorme foto del culo di una donna con una penna di gallina infilata nell’ano. Le donne che partecipavano all’iniziativa (e non solo loro) si sono incazzate e hanno disertato le successive riunioni. Il comitato si è dissolto e con esso la campagna di sostegno agli arrestati a cui stavamo dando vita