Quando si parla di autonomia scolastica domina uno strabismo che non vede tutto ciò che ostacola alcuni possibili aspetti positivi della sua applicazione e, al tempo stesso, rimuove i tagli, i profondi squilibri tra scuole e territori, l’ossessiva competizione tra istituti scolastici trasformati in aziende

La legge 107/2015 del governo Renzi ha riformato l’autonomia delle strutture scolastiche (introdotta nel 1997). La legge dà capacità alle scuole di organizzarsi in maniera autonoma, circa la loro offerta curriculare e formativa oltre che aumentare i poteri e le responsabilità del dirigente scolastico. Le scuole sono chiamate a una maggior flessibilità, trasversalità curriculare e a implementare un curriculo per competenze che segua le famose indicazioni nazionali del 2012. Le scuole dovrebbero quindi diversificare la propria offerta per adeguarsi alle necessità del territorio dei propri alunni. A livello organizzativo, una complessità organizzativa di collaboratori e funzioni strumentali è chiamata a redigere report, applicare a progetti e a supportare il dirigente nelle sue funzioni amministrative e burocratiche. Eppure, nonostante sia positivo e apprezzato, il fatto di avere la libertà di organizzarsi a seconda delle proprie esigenze e bisogni, per come è stata istituita questa legge, e per una serie di meccanismi organizzativi e dinamiche che si attivano, è un’autonomia incompiuta e tutt’altro che equa.
Per quanto sia ampia a livello pedagogico e curriculare – ad esempio ampia libertà data al singolo docente e alla scuola nel definire la propria programmazione curriculare e approccio educativo (PTOF; POF etc. etc.), viene meno a livello scolastico, una autonomia reale, che consente di applicare e utilizzare questa autonomia in maniera efficace. Manca una reale autonomia dal punto di vista manageriale e finanziario. Il/ la dirigente non possono scegliere né assumere il loro personale specializzato, supplenze, o figure di cui hanno bisogno dal punto di vista amministrativo, hanno a che vedere con costanti tagli al budget per attivare corsi in più, dovendo rendicontare fino all’ultimo centesimo, o non possono gestire ed essere responsabili dei loro spazi e strutture scolastiche, che spesso e volentieri andrebbero riformati o resi adeguati alle trasformazioni in atto.
Il lavoro organizzativo dei comitati interni, di figure strumentali, e amministrative, è spesso e volentieri distante dai singoli docenti riguardo alle proposte o ai processi di rendicontazione, aumentando la distanza tra corpo il docente e quello dirigenziale. In più, la mancanza di figure ATA e DSGA in molte scuole, che dovrebbero supportare il/la preside in ambito amministrativo, rende la gestione dei fondi, della programmazione triennale e rendicontazione estremamente laboriosa e complessa, aggravo burocratico che spesso e volentieri ricade su docenti e sul loro lavoro, senza avere le adeguate competenze, retribuzione o tempo nel poterlo fare. Non dovrebbe poi stupire il livello di frustrazione, burn-out che si riscontra tra il personale scolastico, o i limitati spazi di confronto o discussione inerenti alla pedagogia o la didattica.
Ed è così che l’uso dell’autonomia, o meglio la de-responsabilizzazione di tutta una serie di questioni, ricade in mano alla scuola, spesso senza le dovute risorse professionali, strutturali o materiali per metterla in atto efficacemente. Si genera inoltre una situazione di profondo squilibrio tra quelle scuole che si attivano, in maniera autonoma, avendo una dirigenza stabile e lungimirante, ruoli ben definiti e un corpo docente stabile per lavorare e programmare a lungo termine – e che solitamente coincidono con scuole che si trovano in quartieri benestanti con utenza di livello socio-economico alta – e quelle scuole che invece per mancanza di continuità docente e dirigenziale, personale amministrativo, di risorse materiali ed economiche, o di spazi adeguati, fanno fatica ad attivare tutta una serie di progetti, contratti ed “offrire” una proposta curriculare e pedagogica che sia il più attraente possibile.
Altra dinamica che si genera è una competizione locale tra scuole per attrarre studenti e famiglie sulla base di progetti il più possibile all’avanguardia: sostenibilità, robotica, disabilità, cittadinanza globale, chi più ne ha più ne metta. Come fossero piccole aziende, le scuole che offrono i progetti più interessanti si accaparrano il maggior numero di iscritti, così aumentano il numero delle classi e quindi anche il personale docente. Ma la gestione di questi progetti richiede vision, leadership diffusa, fondi, strutture adeguate e partnership. E allora ecco che si attivano anche tutta una serie di collaborazione con enti esterni, spesso privati, che fanno entrare ulteriori competenze, personale, e materiale dentro la scuola.
La questione dell’autonomia scolastica è sicuramente complessa e ogni decisione andrebbe normata, ma è indubbio che senza l’adeguato supporto, potenziamento, competenze, strumenti o risorse in atto, rischia di gravare maggiormente quelle scuole che già annaspano, su docenti che si districano in ruoli e funzioni organizzative e burocratiche che non gli competono o andare ad alimentare dinamiche di libero mercato educativo e di privatizzazione, con profonde ricadute a livello di equità e segregazione educativa tra scuole.
Laura Mentini, ricercatrice presso l’Università autonoma di Barcellona e attivista/educatrice in progetti di educazione dal basso