L’impatto psicologico della malattia e della morte, l’esposizione alla paura e all’irrazionalità degli adulti, il mutare continuo delle regole di vita sociale, la privazione di alcune fonti essenziali di nutrimento emotivo quali il rapporto con i coetanei, il contatto fisico, i baci e gli abbracci delle persone care e persino i loro sorrisi… Quali tracce hanno lasciato queste esperienze e questi traumi, nella psiche di bambine e bambini? E come possiamo aiutarli ad affrontarli? Cosa hanno da dire, cosa pensano, cos’hanno taciuto ma brucia dentro? Un laboratorio di scrittura creativa, dice Chiara Ingrao, è un formidabile strumento per fare emergere questo non detto e per non rassegnarsi, ma anche per fare ogni giorno una scuola-comunità aperta al mondo. La prefazione di La nostalgia della speranza. Bambini e bambine raccontano la pandemia, edito da Memo – Multicentro Educativo del Comune di Modena
“Stanchezza. La nostalgia della speranza. Quando finirà…?”. Uno stato d’animo che tutti e tutte abbiamo vissuto, in questi terribili due anni, ma che raramente è stato detto con la stessa efficacia poetica: la nostalgia della speranza. Ad aver pensato questi versi sono Anita, Daniele e Sofia, “i mitici panda” della Quarta A che hanno partecipato, insieme a tutta la loro classe e alla contigua Quarta B, al laboratorio di scrittura creativa in una scuola di Modena che ho avuto il privilegio di animare tra gennaio e maggio del 2021, anche se purtroppo solo a distanza.
“Non conta la distanza
ma la voglia di raggiungerci”
hanno scritto Francesco, Ilaria e Laura, di un altro gruppo di poesia della Quarta A. Parlavano di sé stessi, dell’esperienza dolorosa del distanziamento sociale e della loro pervicace determinazione a non farsene schiacciare. Ma quelle parole dicevano anche di me, così ho sentito: della spinta da cui si è mosso questo progetto un po’ folle, e proprio per questo appassionante. Raggiungerci, raggiungerli: raggiungere quella zona interiore misteriosa e turbolenta che bambine e bambini si portano dentro da quando il virus ha invaso le nostre vite, ma che nei discorsi pubblici che li riguarda non è comparsa quasi mai. Didattica a distanza sì o no, possibilità di ammalarsi gravemente sì o no, vaccino sì o no: il dibattito nelle istituzioni e sui media si è concentrato quasi esclusivamente su questi dilemmi di natura sanitaria e organizzativa, certamente importantissimi, certamente imprescindibili, ma…
Ha preso le mosse proprio da quel “ma…”, il nostro progetto: da quel luogo dell’anima finora rimasto troppo nell’ombra, eppure cruciale per il benessere di ogni persona, soprattutto se quella persona è nella fase della vita che si chiama infanzia. L’impatto psicologico della malattia e della morte, l’esposizione alla paura e all’irrazionalità degli adulti, il mutare continuo delle regole di vita sociale, la privazione di alcune fonti essenziali di nutrimento emotivo quali il rapporto con i coetanei, il contatto fisico, i baci e gli abbracci delle persone care e persino i loro sorrisi… Quali tracce hanno lasciato queste esperienze e questi traumi, ci siamo chieste, nella psiche di bambine e bambini? E come possiamo aiutarli ad affrontarli, se in primo luogo non cominciamo ad ascoltare la loro voce? Cosa hanno da dire, cosa pensano, cosa raccontano e hanno raccontato, cos’hanno taciuto ma brucia dentro? Quali strumenti abbiamo, per fare emergere questo non detto?
La parola: non sarei scrittrice, se non credessi nel potere formidabile di questo antico strumento. Un potere terribile, come vediamo quotidianamente negli effetti devastanti dei discorsi d’odio sui social network e non solo. E per converso, se usata bene, sappiamo quanto la parola abbia anche il potere di risanare, di dare ali per liberarsi e librarsi in alto, tessendo fili invisibili per ricostruire una connessione fra noi quando la realtà ci separa. Non è un caso, se all’inizio di settembre del 2020, quando le classi finalmente si sono ritrovate in presenza, le loro insegnanti Viviana, Tullia e Barbara hanno proposto come prima attività una ricerca sulle parole che potessero dire il vissuto dell’anno scolastico precedente. Un lavoro collettivo, ma fondato su una prima fase di riflessione individuale, quasi segreta: emozioni e pensieri da affidare silenziosamente ad una propria busta, spesso anche lei tramutata in mezzo di comunicazione, con decorazioni e immagini.
Anche a distanza, quelle buste ho potuto aprirle tutte, una per una: con la stessa trepidazione con cui, alcuni mesi prima, avevo letto la raccolta di “parole regina” messa insieme nel 2020 dalla quinta B dell’I.C. di viale Adriatico a Roma, sotto la guida della loro splendida insegnante Simonetta Melchiorre. “La mia parola-regina è pensieri… è l’unica via di uscita per scappare da una prigione.” “Aria… L’ho scelta perché mi manca e sento ogni minuto il bisogno di respirarla.” E poi solitudine, amicizie, gabbia, ricordi, tempo… Ogni parola regina aveva dietro una capacità di riflessione che raramente si incontra, nel mondo adulto. “Ho capito che a volte non c’è bisogno, di rattoppare il tempo vuoto con cose da fare, a volte è bene lasciare il tempo vuoto come è, e godersi il niente, perché è da quello che siamo nati ed è di quello che viviamo”.
Tempo, vuoto o pieno del niente da cui siamo nati, in movimento o come sospeso. “Il Tempo si è fermato”, è il nome dato alla ricerca delle due classi di Modena da cui siamo partite per dare avvio al nostro laboratorio. Con il mio aiuto, le parole scelte da bambine e bambini a settembre sono state prima riordinate in tabelle secondo le loro “categorie funzionali” – concetti, emozioni, personaggi, ecc. – e poi discusse collettivamente da ogni classe, per decidere quali appartenevano solo al passato, con il lockdown e le video-lezioni e tutto il resto, quali anche al presente, con una pandemia comunque ancora in corso, e infine quali parole andavano aggiunte, per mettere a fuoco le novità del nuovo anno rispetto al vecchio.
Vaccino, zone suddivise dai colori, coprifuoco: alcune delle parole nuove erano certo prevedibili, nonché condivise da entrambe le classi. Più interessante sarebbe capire cosa ha spinto la Quarta B ad aggiungere fra i modi per dire il presente una parola forte come “povertà”, o a ritenere che tutte, proprio tutte, le parole usate per dire il passato andavano considerate valide anche per l’oggi. E perché la Quarta A, invece, ha cancellato la parola “morte” fra quelle del passato che rimanevano tuttora valide? Per una percezione “oggettiva”, dei dati forniti dal governo e dagli esperti, o per esperienze soggettive, di persone care portate via nella prima ondata del virus e non nella seconda? E perché, ancora, fra le nuove parole proposte da questa classe se ne è intrufolata una ahimè attualissima ma inquietante, come “diffidenza”?
Sono domande che non ho posto, e non solo perché il tempo a disposizione dei nostri incontri su Meet non era infinito; ma perché il mio compito in quegli incontri non era chiedere, era rispondere. Bambine e bambini inquadrati dal video, a volte in gruppo a volte singolarmente, a pormi una folla di domande immancabilmente precise, pensate, serissime, verrebbe da dire “professionali”, cui ho cercato di rispondere con la stessa serietà e con lo stesso rispetto per il loro ruolo di scrittori e scrittrici che loro dimostravano per il mio. Ore intense di discussione, sugli strumenti di lavoro della scrittura, su come verificare la credibilità e coerenza dei personaggi, delle trame, dei finali e degli incipit; o su come maneggiare il linguaggio se si decide di creare una poesia o invece un diario, un racconto fantastico o uno realistico.
E a scrivere in gruppo come si fa, cosa cambia rispetto ad inventare in solitudine, abbandonandosi a quello che ci salta in mente senza doverne dar conto ad altri? Era la domanda per me più difficile, perché non avevo e non ho nessuna esperienza diretta in merito (se non nella scrittura di documenti politici, che è cosa ben diversa da quella creativa). A quella domanda ho dunque provato a rispondere con onestà, cercando di mettermi nei loro panni e tenere bene in mente la cosa più importante di tutte: che questo laboratorio non avrebbe mai funzionato, se non fosse riuscito a decollare come luogo di divertimento e di libertà.
Libertà di lavorare senza essere giudicati, scrollandosi di dosso la voglia di compiacere gli adulti infarcendo i propri testi di ciò che si pensa loro si aspettino; libertà di tirare fuori non solo i buoni sentimenti, ma anche la rabbia e l’inquietudine; oppure di ridere di ogni cosa senza ritegno, o ancora di esprimersi con l’arte e le immagini, anziché con la scrittura. Immagine e immaginazione sono due parole cugine, dopotutto. Ed entrambe scavano in territori un po’ oscuri, come fanno i sogni: vengono dal nostro io più profondo, lo sappiamo benissimo, eppure spesso ci stupiscono, e non sappiamo spiegarli. Ci vuole coraggio, per avventurarsi in questa oscurità: anche questo andava detto. Il coraggio della sincerità, di guardarsi dentro anche se ci fa paura e di lasciarsi andare, esponendosi allo sguardo e al giudizio degli altri. Non tutti ce l’hanno, questo coraggio. E voi? ho chiesto. Ve la sentite di provare a tirarlo fuori? Quanto siete disposti ad ascoltare ogni opinione, e a dare e ricevere con tutta la generosità di cui c’è bisogno?
La generosità è la terza e forse la più importante, delle parole per lavorare insieme: perché nessun gruppo può funzionare, se chi ne fa parte punta a dimostrare di essere più bravo degli altri, a farsi vedere o al contrario a nascondersi, senza donare niente di sé e nessuna fatica. È proprio come in una squadra di calcio, ho detto – e non eravamo ancora in tempi di campionati europei. Ma la metafora valeva lo stesso, perché vale sempre. I goal non si fanno da soli, si fanno solo se quando è necessario si ha la generosità di passare la palla. E se si passa al momento giusto non conta poi chi ha segnato, ma quale squadra ha vinto la partita: se si perde si perde insieme, se si vince vincono tutti.
Hanno capito. Alla fine hanno vinto tutti e tutte, nelle meravigliose squadre della Quarta A e Quarta B: e la vittoria più grande non è nemmeno questo libro, per quanto bellissimo, ma il fatto di essere riusciti a pensarlo e illustrarlo e scriverlo davvero INSIEME, perfino quando le regole della scuola imponevano che insieme fisicamente nei piccoli gruppi non si poteva stare, e che per mantenere il distanziamento una grossa parte del lavoro andava fatta a distanza. Ce l’hanno fatta: ancora oggi stento a crederlo. Ce l’hanno fatta perfino senza litigare, cosa ancora più incredibile – o piuttosto, litigando quel tanto che è necessario per ascoltarsi e capirsi, perché nessuno si senta escluso, perché anche litigare a volte fa bene, se serve a raggiungere una soluzione condivisa davvero, in cui le diversità non vengono schiacciate ma riescono a farsi ricchezza.
Di questa ricchezza della diversità ne troverete tantissima, nel libro che state per leggere. Nei due gruppi di poesia della Quarta A, ad esempio, prevale il tono pensoso, e la voglia di scavare nelle emozioni, come nei due testi che ho citato all’inizio; mentre i poeti della Quarta B, Emma, Tommaso e Wafa, affiancano ed esorcizzano le emozioni con l’ironia, usando le iniziali delle parole più pregnanti per inventare un terribile Covid con la C che si chiama Carlo e vive in California, mentre il nemico che lo sconfiggerà, il Vaccino con la V…
“Si chiama Vincenzo,
gli piace il vento
e mangia le verdure…”
Molta voglia di ridere anche nei diari, in entrambe le classi. In Quarta B, la cronaca di Andrea, Caterina e Mohamed inizia il 23 febbraio del 2020, firmandosi ancora come terza B in una città rattristata, dove “al parco non c’è nessuno, solo le foglie galleggianti sulla riva del laghetto”; ma il tono melanconico non regge a lungo. Esattamente un mese dopo, il 23 marzo, la dura realtà scolastica della DAD è tratteggiata da una pennellata beffarda: “Nelle videolezioni alcuni intasano la chat e bisogna svuotarla con lo stura-chat ahahah!!!!!!!!!”; mentre a casa, qualche giorno prima, veniamo a sapere che “c’è il caos totale, non riusciamo a entrare il bagno perché lo stanno disinfettando, così ci stordiamo davanti alla TV cercando di non fare il tip tap della pipì”. Stessa abbondanza di ironia nelle Pagine di diario di Vittoria, Giulia e Marco (VGM), in cui nel giorno dei morti, “per tirarci su il morale dopo tanti mesi di pandemia”, si pubblica una lunga raccolta di barzellette; o in quello di Gabriele, M. Francesca, Matteo e Silvia, sempre della Quarta B, che fanno notare come “nelle famiglie si discute per chi deve andare a buttare la spazzatura perché tutti vogliono uscire”.
“In questo lockdown sono tutti impazziti – aggiungono Andreea, Leonardo e Lorenzo, questa volta della Quarta A – sono nate le mode di cantare dai balconi e di farsi crescere baffi e barba”. E per dare un tocco in più di follia, alla pagina seguente raffigurano la giornalista del tg come una specie di strega, il cui annuncio sui contagi quotidiani annichilisce un bambino spettatore tratteggiato solo con poche righe stilizzate, e una faccetta triste in stile emoji.
Impressionante anche l’immagine dei “VULCANI ERUTTA DIARI”, Francesca, Darren e Matteo della Quarta A: la foto di un grande monte di cartapesta, imponente e nerissimo, da cui scorrono fiumi accartocciati di lava scarlatta. Una vera e propria opera d’arte, con la quale Darren ha voluto dare il suo contributo creativo al gruppo, per catturare sin dal primo sguardo l’attenzione di chi legge; tanto più in quanto il diario inizia il 14 settembre del 2019, il primo giorno di un anno scolastico che ancora non si poteva immaginare sarebbe stato sommerso dall’eruzione del virus.
Le cronache di quella lunga eruzione, delle sue pause di speranza e delle sue dure recrudescenze, sono naturalmente diverse da diario a diario, come il lasso di tempo più o meno lungo che ogni gruppo ha scelto di raccontare; ma c’è qualcosa che mi sembra li accomuni tutti. È la frequenza con cui si fermano a narrare anche i dettagli più minuziosi, mescolando la straordinarietà della pandemia alla normalità dei litigi con genitori e fratelli, delle lezioni da imparare, della grammatica e delle divisioni in colonna: come se questo riscrivere COLLETTIVAMENTE il dipanarsi di una quotidianità vissuta ciascuno nel chiuso della propria casa, fosse anche un modo per “rileggerla”, non più come noiosa, solitaria e a volte apparentemente insensata, ma come esperienza comunitaria dotata di senso e di valore storico.
“Ma nel diario dobbiamo raccontare solo le cose successe davvero, o possiamo anche inventare?” mi hanno chiesto nel primo incontro Eleonora, Mayssae e Yassin, della Quarta A. Cosa ho risposto è facilissimo da indovinare, ovviamente. Meno facile, forse, indovinare il risultato strepitoso di quel via libera all’invenzione, con il virus che nel loro “Diario fantastico”, il 13 febbraio del 2020 (“un giorno come gli altri e stavamo facendo matematica…”) irrompe in classe dalla finestra, e…
…“all’inizio pensavamo fosse un piccione che si era scontrato contro il vetro, ma poi abbiamo visto che era un enorme palla viola a puntini verdi.
Noi ci siamo spaventati a morte e quelli che erano vicino alla finestra hanno addirittura urlato!
Pian piano la finestra si stava rompendo, e quando si ruppe, entrò il “coso” rotondo che disse ad alta voce: – Io sono il CORONAVIRUS e non mi sconfiggerai mai!”
Il virus si sbaglia, è chiaro. Verrà sconfitto, più e più volte in tutte le storie di entrambe le classi e in questo diario fantastico a sconfiggerlo è proprio la Quarta A, che arriva trionfalmente a un finale a sorpresa quasi filosofico sulla vera origine del virus, aiutata dalla magia e da un cane-camaleonte.
Cani, gatti, conigli, cavalli… Gli animali hanno quasi sempre un ruolo di primo piano, in tutti i racconti di tutti i gruppi, e non solo i piccoli animali domestici: anche un leone, un orso polare, e perfino… udite udite! Un pipistrello, inventato da Sara, Greta e Tommaso della Quarta A, che si chiama Benny e sfida tutti i pregiudizi già a partire dal suo luogo di nascita: non in Cina, ma nella vampiresca Transilvania. Che abbia o no parentele con Dracula, Benny comunque vuole dire la sua, su “un fatto straordinario che ha cambiato il mondo e a causa del quale moltissime persone si sono ammalate, poverette! Già, moltissime persone ma anche moltissimi animali, tra cui alcuni dei suoi carissimi amici. La cosa ingiusta è che hanno dato la colpa ai pipistrelli! A loro, che per primi hanno subito “l’attacco nemico”!”
Non è casuale, questa inversione totale dell’ottica dominante, che troviamo non solo nel “Club del pipistrello”, ma in tutti gli altri racconti. È un’inversione che riguarda soprattutto bambine e bambini, di cui gli animali sono alleati e proiezione fantastica, così come una vasta gamma di strumenti e personaggi magici. Un’inversione di ruolo: da vittime passive della pandemia e di tutto l’armamentario per affrontarla messo in campo dal mondo adulto, a soggetti attivi, PROTAGONISTI vincenti e “magici”, appunto, della lotta per sconfiggere il virus. Una lotta che secondo Alice, Giovanni e Serena, della Quarta A, conduce a trovare la cura del male fra i segreti dell’antico Egitto, secondo Elisa, Gaia, Matteo e Ulisse della Quarta B porta a scoprire che il Covid si nasconde nel bosco, e che anche il maestro è “uno scagnozzo del coronavirus”, mentre nella narrazione di Giulio, Lina, Sofia e Sofia, sempre della Quarta B, il nemico sono misteriose “strisce nere”, con i loro perfidi strumenti le “strisce pere”, e a sconfiggerlo, con l’aiuto magico di Lady Sofia, sono Giulio, Andrea e Margherita, tre personaggi di cui si narra, guarda caso, che “frequentavano la stessa scuola, erano in quarta B”.
L’immaginazione, insomma, si è trasformata nelle mani di questi piccoli scrittori e scrittrici in uno strumento formidabile per rovesciare l’impotenza: quell’impotenza da cui troppe volte noi adulti per primi siamo schiacciati. E questo si sente con forza anche nelle uniche due storie di stampo più realistico, in cui a combattere il virus non sono bambine e bambini con i loro alleati magici e/o a quattro zampe, ma scienziate e scienziati, come nella realtà. È il caso de “Il trio dei fantastici dottori”, di Elena, Kirsten e Nicolas della Quarta A, che comunque non a caso hanno chiamato i loro protagonisti in camice bianco con tre nomi che evocano i loro, Kristina, Niklas e Jennifer, e li hanno dotati di amici animali; ed è vero anche per “La famiglia Bitonzi”, di Chiara, Elisa, Emanuele e Maram, della Quarta B, che non è nemmeno storia di dottori ma di una famiglia più che normale, come illustrato molto bene anche dai disegni. Eppure, anche dalla narrazione di questa normalità familiare, così come in quella citata sopra, degli ospedali in prima linea, emerge un’incredibile capacità dei protagonisti a non rassegnarsi, a non piegarsi di fronte alle avversità: come il giovane studente Francesco e la sua innamorata Martina, decisi a riprendere in mano il controllo della propria vita per provare a costruirsi un futuro, nonostante tutto… Quanti adulti possono dire di aver fatto lo stesso, in questa Italia che cantava dai balconi la sua volontà di non farsi piegare, e oggi appare sempre più chiusa in se stessa, rancorosa e divisa?
“Noi che abbiamo detto sì ma volevamo dire no.
Noi che siamo andati avanti davanti alla nebbia più fitta
senza dire una parola”,
Così dice una delle canzoni di chiusura del testo della Quarta A, e nel leggerla non ho potuto non pensare ai tanti e tante, in Italia e non solo, che quel no invece lo hanno detto, e continuano a dirlo ancora. Adulti che immaginazione ne hanno davvero poca, e ancor meno capacità di guardarsi dentro; adulti che al senso di frustrazione sanno reagire solo con rabbia, proclamando a gran voce il loro rifiuto della realtà e della scienza, e perfino la decisione autodistruttiva di rifiutare per sé e per i propri cari la protezione del vaccino.
Un abisso, rispetto alla sobria volontà di resistere che si respira nelle pagine di questo libro e nei pensieri non solo di chi lo ha scritto, ma di tante e tanti come loro; perché noi non abbiamo scoperto un luogo di eccezionalità, con il nostro laboratorio. Abbiamo semplicemente puntato lo sguardo su un angolo di quel luogo più ampio, e troppo spesso narrato in modo distorto, che è la scuola italiana: quella scuola piena di difetti e di carenze, che ha arrancato e spesso sbagliato nel gestire la DAD, nel capire che fare e come farlo, nell’organizzarsi per far fronte collettivamente a una sfida che faceva tremare le vene ai polsi. Quella scuola che però, nonostante tutto, non si è rassegnata: che ha continuato ostinatamente ad ascoltare la voce di bambini e bambine, mettendosi in gioco fino in fondo per stare dalla loro parte. Quella scuola comunità, evocata nella canzone della Quarta A dalla semplice ripetizione di un “noi” che sa di non essere onnipotente, ma non per questo rinuncia a lottare:
“Noi che non siamo dei,
non abbiamo i poteri.
Non siamo maghi,
non abbiamo la bacchetta magica..
Non siamo fate,
non abbiamo le ali.
Noi che non siamo eroi,
altro che miti leggendari!
Noi che abbiamo combattuto, restando chiusi in casa.
Noi che siamo guerrieri senza l’elmo e la spada”.
Che altro può aggiungere, una vecchia pacifista come me, che gli elmi e le spade non li ha mai apprezzati ma ama appassionatamente il coraggio dei disarmati? Grazie, miei splendidi guerrieri e guerriere dell’anima. Grazie, grazie, grazie.
*Scrittrice e animatrice culturale