Il signor Galli della Loggia ha scritto nell’arco di pochi giorni due articoli per aggredire l’idea che la scuola possa essere un luogo migliore della società, nel quale tutti possono essere accolti, tutti e tutte possono stare insieme. Bisognerebbe trovare modalità, organizzazione e risorse con cui proteggere e rendere viva ogni giorno quell’idea, ad esempio formando, motivando e rendendo sempre più consapevole chi insegna. Quando questa idea resta soltanto un principio, scrive Daniele Ferro, insegnante di sostegno, occorre scavare intorno alle cause, non affossarla

Ogni giorno, per mettersi tutte in fila e andare ai servizi, Shifa si avvicina al banco di Melissa, le porge la mano, e splendente di gioia in viso la sostiene fino alla porta del bagno. Anche Melissa s’illumina di gioia. È ipovedente. Io le osservo, queste bambine di otto anni, ma a volte devo distogliere lo sguardo: non avrei parole per spiegare la commozione dinanzi a tale meraviglia.
«Maestro, posso sedermi vicino a Waqas per aiutarlo?». «Alessio, non me lo devi chiedere…vai!». I bambini stanno lavorando a gruppi, in un progetto di scrittura cooperativa. Siamo al terzo incontro. Mi chiedo se Azzedine – che tra le altre ha una grande difficoltà nel tollerare la frustrazione – oggi riuscirà a non abbandonare il suo gruppo, piangendo arrabbiato. Seguo la discussione, mentre i bambini si confrontano per inventare una favola. A un certo punto Azzedine esclama: «Io avevo un’altra idea, ma visto che voi siete d’accordo, accetto la vostra». Scatta l’applauso dei compagni.
I nomi dei bambini sono di fantasia. I fatti sono reali, avvenuti in anni e istituti diversi. Questa è la scuola italiana, piaccia o no, e la legge stabilisce che i bambini, di qualsiasi colore e capacità fisica o intellettuale siano, per crescere debbano stare insieme.
Le norme si possono criticare e anche disobbedire, se si è disposti a pagarne le conseguenze (come fece Alberto Manzi, che si rifiutò di vergare giudizi sui suoi allievi). La critica, tuttavia, anche quando è discriminatoria, va basata sulla conoscenza. Sui fatti. Se ve ne sono.
La pedagogia è una scienza, ed Ernesto Galli della Loggia, con il suo articolo sul Corriere «La falsa inclusività della scuola», ha dimostrato ancora una volta – dopo l’ideona anni fa del ritorno alla predella – di non essere un pedagogista; di non conoscere – o di ignorare volutamente – gli insegnamenti che ci hanno trasmesso i più grandi scienziati della pedagogia, da Quintiliano a John Dewey a Mario Lodi.
Approfittando della recensione di un libro, il professore di Storia Galli della Loggia scrive di «mito dell’inclusione»: «Sulla carta tutto è previsto, tutto funziona, e alla fine tutti sono promossi». Poche parole in cui – per proporre tra le righe un ritorno alle classi differenziali – vi sono falsità e luoghi comuni, mentre le Indicazioni Nazionali, norma di riferimento per il primo ciclo d’istruzione, sollecitano noi insegnanti a promuovere negli allievi il senso critico e il desiderio della ricerca, per combattere proprio gli stereotipi.
Non v’è dubbio che la scuola italiana, così com’è, non stia del tutto adempiendo alle leggi dello Stato. Non v’è dubbio che in tante scuole l’inclusività sia un termine declamato per pettinarsi. E allora ricerchiamone le cause. Pretendiamo dallo Stato le risorse necessarie affinché le leggi vengano rispettate. Altrimenti sarebbe come dire che la Costituzione repubblicana, essendo in buona parte inattuata, vada eliminata per il ritorno alla monarchia.
Se il professore e i suoi discepoli propugnano una scuola che divida ricchi e poveri, bambini italiani e di origine straniera, intelligenti e meno, non c’è problema: la libertà di espressione è un diritto che a scuola insegniamo. Ma lorsignori abbiano almeno l’onestà di esplicitare le proprie idee. I galli che con l’inchiostro dell’altezzosità scrivono sentenze sul mondo della scuola di oggi, senza averne esperienza, non si permettano di toccare i bambini e i ragazzi tutti, e in primis i più bisognosi. Se proprio intendono farlo, o trovino i fatti e il coraggio di ammetterlo, o prima tornino a scuola per studiare.