Un tempo le emozioni dei figli non erano al centro delle preoccupazioni dei genitori. Madri e padri dettavano legge e la parola dell’adulto non era in discussione. Si fa così perché lo dico io e forse i bambini non si permettevano nemmeno di chiederlo quel perché. Con il passare del tempo il sentire dei figli ha avuto maggior attenzione, l’infanzia ha ritrovato il suo spazio. Però, c’è un però. Questo spazio ha assunto via via dimensioni gigantesche e, a mio avviso, oggi i bambini entrano in confusione e rispondono alle necessità dei genitori affinché tutto vada sempre bene. E così, ora, capita di ritrovarsi dei bambini il cui sentire copre ogni cosa, il cui sentire diventa collante, risponde ai sensi di colpa – visto che adesso i genitori lavorano entrambi – per non esserci e talvolta tiene insieme coppie scoppiate o no.
Sento ribadire dai guru dell’educazione – che spesso sono uomini quando questa è delegata prevalentemente alle donne – quanto sia necessario insegnare la frustrazione ai propri figli ma credo che siamo noi a non averla imparata. Siamo noi a non riuscire più a mettere a fuoco. A reggere capricci, pianti, dispiaceri, rabbia… Siamo noi che entriamo in crisi appena i bambini (e ragazzi poi) manifestano un qualche disagio, invece di farlo semplicemente esistere. È il lavoro dei figli, soprattutto quando sono piccoli ma non solo, lamentarsi, chiedere attenzione continua, metterci alla prova.
Con questo naturalmente non voglio dire che prima l’educazione autorevole fosse giusta e corretta, anzi, ma vorrei fare una riflessione con voi per aiutare questi nostri figli che entrano in confusione, che piangono se si bloccano su un compito, che formulano frasi corrette con difficoltà, che sono poco autonomi nell’esecuzione di compiti e in quella personale. Noi anticipiamo, ci sostituiamo, se esprimono un malessere entriamo in paranoia e cerchiamo subito soluzioni ma soprattutto semplifichiamo. Credo sia questo l’errore maggiore.
Questi nostri figli devono occuparsi di farci stare bene, di farci sentire buoni genitori, di rispondere alle nostre mille opzioni, di contenere le nostre paure e, alla fine, si perdono dentro ai nostri bisogni, alle scelte – vuoi questo o quello, mangiare questo o quello, fare Karatè, danza o nuoto, metterti la felpa blu o gialla?… – che non sappiamo fare dentro la nostra adultità.
Forse dovremmo stare attenti a non rendere tutto quanto patologia e lasciar andare. Nel mio piccolo, tra l’altro, mi rendo conto che le frustrazioni sono soprattutto maschili. Non sempre, ma spesso.
Non ho alcuna volontà di giudicare, mi ci metto anch’io dentro a questa analisi e, per quanto mi riguarda, è un lavoro continuo e certosino anche se le mie figlie sono più grandi. È un lavoro quello di non perdermi dentro alle loro emozioni che salgono e scendono in un battito di ciglia, aiutarle ad accettare ciò che non va o non è andato anche nel loro passato e andare avanti. Talvolta mi dicono che non le capisco, chiudono le conversazioni, “mi sgridano”. A volte sbrocco ma ho imparato a non correre ai ripari, ho notato che reggendomi il carico del non rispondere alle loro aspettative, di non piacergli, per lo più funziona. Ridimensiona.
Se vogliamo che i nostri figli stiano bene dobbiamo accettare che non sempre siano felici e non analizzare ogni cosa, perdendo il vero centro, per questo dobbiamo puntare su di noi, al di là del loro ”volerci bene”. Quando ci pensano cattivi genitori, per assurdo, loro crescono.
Cinzia Pennati “Penny” è insegnante e scrittrice. Il suo ultimo romanzo è In famiglia tutto bene (Sperling & Kupfer)