Tanti territori e scuole hanno cominciato ad accogliere bambini e bambine in fuga dall’Ucraina. Insegnanti e genitori, per quanto possono, si prendono cura di loro e difendono così il loro diritto a vivere. Di quel diritto ragiona qui Ambra Pastore: nonostante le abbondanti retoriche sul riconoscimento dei diritti dei bambini e delle bambine e nonostante da molti anni i principali conflitti siano documentati – a differenza del passato, prima di tutto con la forza delle immagini -, ogni guerra con i suoi orrori continua a negare a ogni bambino il suo diritto fondamentale: il diritto a vivere. Oggi la guerra è la massima espressione di quanto siamo brutalmente anestetizzati verso l’infanzia. Per ripudiare la guerra e per creare mondi nuovi, qui e ora, dovremmo cominciare dal portare bambini e bambine lontano da ogni guerra
Può sembrare un’ovvietà soffermarsi sulla constatazione che ognuno di noi, in ogni parte del mondo, ha sperimentato e vissuto in profondità l’essere figlio/a, molti anche l’esser genitore. Condizioni che ci accomunano e ci avvicinano, pur se con culture e modalità differenti nei diversi Paesi. Il senso di responsabilità, i timori e le paure che qualcosa di ignoto, di non afferrabile possa accadere ai propri figli/e o ai propri genitori, il pensiero incerto di riuscire a garantire loro un futuro sereno costruito anche su quelle normative sociali sedimentate nel tempo e che con rappresentazioni diverse, appartengono comunque a ogni società e a ogni luogo. L’essere tutti, biologicamente (di fatto o potenzialmente) padri e madri, dovrebbe tradursi nell’esserlo universalmente per ogni bambino che nasce alla vita e che in quella nascita si dona al mondo, nelle braccia di una donna/madre, simbolo di fertilità e non di morte. Eppure, se queste esperienze generalizzate proprio perché appartenenti a ognuno di noi, le compariamo con gli “stati di guerra” presenti nel mondo ancora oggi, il pensiero di Nelson Mandela diventa giustamente atto di accusa: “Non ci può essere rivelazione più vera dell’anima di una società del modo in cui tratta i suoi figli“. “Ogni uomo che sceglie di privare della libertà un altro uomo, è in realtà prigioniero, a sua volta, dell’odio, dei pregiudizi e della limitatezza del suo spirito”.
Nonostante le abbondanti retoriche sul riconoscimento dei diritti dei bambini, ogni guerra con i suoi orrori e le sue brutalità nega a ogni bambino il suo diritto fondamentale: il diritto a vivere.
Anestetizzati verso l’infanzia
La guerra è la massima espressione di quanto siamo brutalmente anestetizzati verso l’infanzia, perdendo la nostra capacità di relazione umana con il prossimo, con l’altro e con noi stessi.
Sembra che la parola guerra non abbia una sua radice etimologica, ma è stata definita in diversi modi, fredda, civile, mondiale, religiosa, etnica ma mai dovremmo definirla una “guerra giusta”, logica e razionale, perché ogni guerra rappresenta invece esattamente il contrario: irrazionalità e illogicità, che ci riconsegnano solo orrore, brutalità e disumanità.
Se la guerra è ripudiata dall’articolo 2 della carta delle Nazioni Unite (e in Italia dall’articolo 11 della Costituzione), non capiamo perché siano, oggi, almeno sessanta gli stati al mondo coinvolti nelle guerre e non capiamo perché si continui a investire in un’economia di guerra. Non capiamo perché a distanza di trent’anni, dalla guerra in Bosnia ed Erzegovina (la prima dopo la seconda guerra mondiale) che ha provocato più di 104 mila vittime e più di 2 milioni di persone costrette a un esodo in Europa, si continui a perpetrare una storia di guerra anziché una storia di giustizia, di pace, di civiltà, di salvezza, per non precipitare in una condizione mondiale di “guerra permanente” (ogni guerra distrugge oltre al presente, un pezzo di futuro) dalla quale non potremo più tornare indietro e che ci renderebbe indifferenti, disumani, insensibili, amputando definitivamente ciò che ci rende umani.
Riconsegniamo ogni guerra ai mittenti del tempo indietro.
Ogni guerra chiama altre guerre.
La piccola Phuc
Noi oggi abbiamo esperienza di ciò che significa guerra solo attraverso le immagini e i racconti dei media e tra le guerre che abbiamo conosciuto indirettamente, perché le prime a essere documentate, come quella degli Stati Uniti al Vietnam. Fu la guerra più seguita giorno dopo giorno dalle telecamere portando una nuova intimità mediatica con la morte, la violenza e la distruzione. Poi seguì un flusso incessante mediatico negli anni a seguire. La foto più emblematica di quella guerra che tutti noi abbiamo ancora davanti agli occhi è quella scattata da Huynh Cong Ut nel 1972 che mostra i bambini correre, urlando e piangendo di dolore e di paura, lungo una strada, dopo che il loro villaggio era stato irrorato dal napalm, i loro vestiti e la loro pelle bruciata.
La fotografia, che tanti e tante hanno ancora scritta nella memoria, è diventata l’immagine iconica che ha rivelato al mondo l’orrore e la violenza della guerra del Vietnam. La piccola Phuc, la bambina che allora aveva nove anni e che gridava piangendo di dolore e di paura, tiene oggi conferenze in tutto il mondo come impegno per la pace globale e svolge opera di sostegno ai bambini vittime delle guerre. È diventata, inoltre, dal 1997 ambasciatrice dell’Unesco, e ha raccontato la sua vita in un’autobiografia intitolata Il fuoco addosso. Del resto, come spiega Gabriel Garcia Marquez, «gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé.
Meditazioni su una pace che sfugge
Scrive David Grossman in Con gli occhi del nemico: «Quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo essere più indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una “non persona”. Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia».
Wirginia Woolf pubblicò il suo libro Le tre ghinee nel 1938, dopo quasi due decenni di accorate condanne alla guerra. Il libro rappresentava una risposta alla lettera di chi le aveva rivolto la seguente domanda: “Cosa, secondo lei, noi dobbiamo fare per prevenire la guerra?”. Nel 1924, quattordici anni prima della pubblicazione Le tre ghinee, l’obiettore di coscienza Ernst Friedrich pubblicò Krieg dem krieg (Guerra alla guerra): 180 fotografie provenienti da archivi medici e militari tedeschi che mostravano balocchi e soldatini giocattolo per arrivare alla fine a immagini scattate nei cimiteri militari. Fotografie che, spiega Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, mettevano in mostra villaggi distrutti, obiettori di coscienza impiccati, soldati in agonia dopo un attacco con gas tossici, cadaveri di soldati ammucchiati a putrefarsi nei campi, soldati con la faccia sfigurata dalle ferite. Il libro fotografico denunciato da organizzazioni patriottiche, fu invece accolto da scrittori, artisti, intellettuali di sinistra e da associazioni pacifiste. Nel 1930 il libro aveva esaurito dieci edizioni in Germania ed era stato tradotto in molte lingue.
Documentare le condizioni dei bambini e delle bambine
Pensiamo ancora al fotografo Francesco Zizola, che ha documentato i principali conflitti mondiali concentrandosi sulle questioni sociali e umanitarie che definiscono la vita nei paesi nel sud del mondo e nei paesi occidentali, arrivando a pubblicare e documentare le condizioni dei bambini in tutto il mondo. Il suo lavoro gli ha dato l’opportunità di ritrarre attentamente crisi dimenticate e questioni rilevanti spesso ignorate dai principali media. Ha ricevuto diversi premi nel corso degli anni, tra cui dieci World Press Photo Award e quattro premi internazionali Pictures of the Year (POYi). Ha anche pubblicato diversi libri tra cui Born Somewhere (Delpire / Fusi Orari, 2004), un ampio lavoro sulle condizioni di vita di bambini provenienti da ventisette paesi diversi. Scelse di passare dalla fotografia di moda ad altre storie da raccontare, puntando l’obiettivo sull’infanzia negata e silenziosa del mondo: Calcutta, Bahia, New York, Quito, Israele, Zaire, Ruanda, Cambogia, ma anche i bambini soldato della Sierra Leone e i bambini senza gambe a causa delle mine antiuomo in Angola. Molte sue fotografie vennero rifiutate per assenza della violenza scenografica da prima pagina. E ancora: il fotografo iraniano Renza Deghati, durante la fuga dei profughi ruandesi in Zaire, riuscì con le sue foto esposte in diversi luoghi a far ricongiungere diecimila bambini con le loro famiglie (riferimenti da L’ occhio che uccide di Giovanni Fiorentino) .
Eppure questi “delitti”, perché così dovremmo chiamarli, sono messi fuori dalle nostre coscienze, collocate in un luogo buio, lontano dalle nostre rappresentazioni di “sereno focolare domestico”, incapaci di contemplare, riconoscere l’orrore, la violenza e la loro possibilità di esistere sulle vite dei bambini. Una delle censure più profonde in questa nostra modernità è quella verso l’infanzia, l’infanzia che abbiamo vissuto, la sua storicità che ci ha reso ciò che siamo da adulti, i sentimenti che abbiamo provato, spesso in solitudine, i pensieri coltivati per conoscere e comprendere quello che da bambino ci sembra l’unico mondo possibile, affascinante, seducente, nel quale riporre i nostri migliori sentimenti, quelli che ti aiutano a crescere, come la fiducia verso l’altro, verso l’adulto.
Ogni guerra chiama altre guerre
Sentimenti traditi, umiliati, offesi, negati e violentati dall’orrore che ogni guerra porta con sé. Non è solo la morte fisica, prima di questa c’è il dolore, l’angoscia, la sofferenza, la disperazione, la paura che ogni bambino porta dentro di sé come una ferita profonda che continuerà a sanguinare. Da adulto potrà avere le parole per dirlo, con la poesia, con la musica , con l’arte, per trasformarlo o per buttarlo fuori di sé, per oltrepassarlo, come fosse un confine da attraversare, ma un bambino è quello che sente dentro di sé, nell’incommensurabile integrità dei suoi sentimenti.
Ecco, vorremmo riuscire ad annullare questa “distanza di viaggio senza fine” che ci separa dai bambini, per riconoscerli tutti nostri figli e prendere le loro mani tra le nostre, per portarli lontani da ogni guerra e dai suoi lamenti di morte, per potergli invece continuare a donare melodie di vita. Possiamo farlo ripudiando le guerre. Ogni guerra chiama altre guerre. Ogni guerra uccide i bambini.
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