Una delle prime preoccupazioni di Paulo Freire è stata scardinare il sistema della lezione frontale e dell’insegnante come esperto di una materia. Freire, inoltre, ha dimostrato come qualsiasi processo di apprendimento, in particolare per le persone che vivono nei piani più bassi della società, ha bisogno di parole legate alla vita di ogni giorno, ma soprattutto come non si impara mai da soli. Di certo, secondo Freire, di cui nel 2021 ricorre il centenario della nascita, la scuola deve stare dalla parte di chi vuole cambiare il mondo e non del potere: è questa probabilmente la più grande e pericolosa novità da lui introdotta nella storia della pedagogia
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Gli anni Sessanta e Settanta rappresentarono un momento di grande trasformazione storica e sociale. Durante quella straordinaria fase di intensa attività culturale, attraversata dal più ampio movimento di contestazione dell’autorità e della gerarchia, anche la pedagogia si congedò dall’adesione critica e conformistica delle forme di potere esistenti passando dalla parte dei dissenzienti e dando vita a nuove forme di riflessione e sperimentazione.
La pedagogia, uno dei pilastri del potere, dell’esistente, del consenso organizzato, si staccava dal suo destino storico fatto di monitori, precettori e insegnanti più o meno autoritari, di sapere inquadrato e strutturato in canali ben definiti, per proporre visioni alternative di apprendimento e nuovi modelli di società.
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In questo contesto storico, in una delle regioni più povere del mondo, Paulo Freire, un intellettuale del nordest brasiliano e uomo di formazione giuridica[1], sperimentò con successo, partendo da istanze socio-politiche prima ancora che educative, delle forme innovative e straordinariamente efficaci per il riscatto culturale e umano dei più poveri e disperati.
Il pensiero di Paulo Freire è ancora molto attuale. Freire è l’educatore, tra quelli conosciuti a livello internazionale, che analizza con maggiore lucidità e criticità pedagogica il rapporto tra educazione e politica svelando e analizzando la commistione tra didattica e conservazione o trasformazione sociale.
La scuola, secondo il brasiliano, deve stare dalla parte del cambiamento e non del potere. Si tratta di una grossa novità nella storia della pedagogia, paragonabile a quella che fu, in Italia, Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, in cui, attraverso l’analisi dei dati sulle bocciature e sugli esiti scolastici, rivelò la natura classista e socialmente selettiva della scuola e si pose dalla parte di chi ne veniva escluso.
Freire, come don Milani, contesta i metodi scolastici che consentono alla stratificazione sociale di mantenersi all’infinito ed è indubbiamente mosso da forti passioni politiche e di riscatto sociale, ma è forse più interessante dal punto di vista pedagogico perché non solo contesta il sistema di potere, ma costruisce anche un vero e proprio strumento formativo alternativo.
Paulo Freire riesce, anche in maniera piuttosto intuitiva e involontaria, a realizzare due ordini di operazioni scientifiche: dimostra la fattibilità dell’apprendimento in età adulta e contesta la cornice metodologica dell’insegnamento tradizionale trasmissivo a favore di un processo di apprendimento che conduce alla coscientizzazione.
Freire assume il criterio della consapevolezza conflittuale, ossia della coscienza, come matrice generativa che porta l’educatore e l’educato a essere protagonisti non solo del loro apprendimento, ma della loro stessa trasformazione sociale.
Il metodo di apprendimento non è neutro
Alla fine degli anni Cinquanta, Paulo Freire fa una scoperta straordinaria: è possibile alfabetizzare un gruppo di adulti in quaranta-quarantacinque giorni. A quei tempi, le Facoltà di Psicologia dell’età evolutiva studiavano lo sviluppo del sapere e i processi di apprendimento solo fino a diciannove anni. Questa scoperta ebbe vasta risonanza nell’opinione pubblica dell’epoca dato che i sistemi scolastici tradizionali prevedevano invece una netta frattura fra il tempo della formazione scolastica e il lavoro. L’età adulta non era considerata età dell’apprendimento, chi entrava nel lavoro aveva praticamente chiuso con la formazione scolastica.
Freire dimostrò che proprio gli analfabeti, ossia la parte più arretrata della società, quella su cui più difficilmente si poteva immaginare di investire scolasticamente, in realtà era molto ricettiva e aveva grandi potenzialità. Paulo Freire denunciò e si attivò contro questo sistema di scolarizzazione. Anche perché si accorse presto che le caratteristiche dell’apprendimento in età adulta sono diverse da quelle in età infantile: mentre i bambini imparano perché mossi dal desiderio di imparare in quanto tale, agli adulti occorre una motivazione stringente, una necessità imprescindibile e pratica.
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L’educazione coscientizzante
Queste potenzialità devono trovare una collocazione all’interno di una cornice metodologica che esca dal binario tradizionale dell’insegnamento trasmissivo.
Freire scopre che non solo questo tipo di insegnamento è una fotocopia dei sistemi di riproduzione sociale a carattere verticale, ma che non è efficace dal punto di vista dell’apprendimento. Anzi, che la sua inefficacia consente la conservazione, ossia l’accesso solo a componenti sociali che possono permettersi un dispendio temporale significativo, mentre la lower class non può, data la condizione negativa della propria esistenza, permettersi di dedicare tanto tempo all’istruzione.
Una delle prime preoccupazioni di Paulo Freire è quella di scardinare il sistema della lezione frontale e dell’insegnante come esperto di una materia: organizza i circoli di cultura popolare e istituisce dei coordinatori o facilitatori dei processi di apprendimento. Freire si trova nella necessità di dover inventare una metodica veloce, motivante, efficace. Sono tre condizioni che sembrano – nel momento storico in cui si presentano – dei veri e propri ossimori, una elide l’altra; però Freire ha il merito di riuscire a metterle insieme e costruire un sistema che ottiene un grande successo.
Sul piano della motivazione utilizza due componenti essenziali che oggi sono universalmente riconosciute: una è l’aggancio all’esperienza vitale, ossia i contenuti non possono essere lontani dalla vita di chi su questi contenuti deve andare a costruire delle nuove forme di competenza culturale. Quindi l’alfabetizzazione, per entrare nel merito, deve partire dall’utilizzo di parole significative, legate alla vita concreta dei contadini del nordest brasiliano: mattone, terra, zappa, cavallo… Parole che creano una evocatività che non è quella tradizionalmente scolastica, cioè di un mondo artefatto lontano dagli interessi vitali, ma contingente che implica adesione profonda e vicinanza affettiva. Altrimenti la logica della pura e semplice ripetizione finisce con l’essere molto estranea, anche a livello neuronale al mondo degli adulti, ovviamente meno plastico e più rigido di quello infantile[2].
Il secondo passaggio metodologico riguarda la dimensione del gruppo: non si impara da soli, ma stando nel contesto della comunità intesa come gruppo di apprendimento. Si impara insieme, l’apprendimento non è un processo individuale, né individualistico. È l’unione delle persone interessate e desiderose di imparare che favorisce l’osmosi creativa che produce l’effetto che i neuroscienziati vedrebbero fortemente legato alla presenza dei neuroni a specchio[3]. In questo Paulo Freire si mostra particolarmente geniale, vista anche la sua formazione non certo scientifico-psicologica, riuscendo a garantire una straordinaria modernità al suo metodo di alfabetizzazione.
Questi due elementi, il partire dall’esperienza concreta e la dinamica gruppale, confluiscono nel processo di apprendimento problematizzante[4]. Si tratta di un processo di discussione, indagine e ricerca che coinvolge sia gli educatori che i partecipanti, e che comporta momenti di rilevamento e analisi delle situazioni e dei problemi individuali e sociali vissuti, nell’ottica non solo di capire meglio le situazioni, ma per poter agire trasformando la realtà e se stessi. È un lavoro di coscientizzazione che Freire intende come l’acquisizione di consapevolezza in merito a una situazione di oppressione e come azione di svelamento delle situazioni e rappresentazioni culturali responsabili dell’affermarsi dei processi di dominio.
Coscientizzarsi vuol dire compiere un percorso di liberazione culturale, ma allo stesso tempo è anche molto di più di questo: significa compiere un movimento interno diretto a sviluppare un pensiero e un’azione profondamente “aperti” e disposti al cambiamento e alla criticità che questo comporta.
Articolo di Daniele Novara, pedagogista e direttore CPP.
[1] Come spesso è accaduto nella storia della pedagogia contemporanea, le più grandi figure di riferimento – ad esempio Montessori, Dolci, Piaget – non provengono da una specifica formazione pedagogica.
[2] “Stavamo cercando una metodologia che fosse uno strumento dell’educando e non soltanto dell’educatore e che identificasse il contenuto dell’apprendimento con il processo stesso dell’apprendere”. P. Freire, Teoria e pratica della liberazione, Ave, Roma 1974.
[3] Si vedano: G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, Raffaello Cortina, Milano 2007; G. Rizzolatti, L. Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Zanichelli, Bologna 2007; M. Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[4] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971.