La scuola, ancora per gran parte, si rifà a una trasmissione di saperi frammentaria e riduttiva, dividendo il corpo dalla mente, la razionalità dall’aspetto emotivo o dall’aspetto sensoriale. È sempre più necessario riportare il corpo all’interno delle relazioni. E, nello stesso tempo, è necessario sperimentare strade inedite tra intercultura, transdisciplinarietà e antirazzismo. Per farlo c’è bisogno di uno sforzo continuo di decentramento culturale. Del resto, ricordava Paulo Freire, l’educazione non può non avere una visione del mondo, della società da costruire ogni giorno. Un percorso di “pedagogia del confine” ha utilizzato i linguaggi artistici, in particolare la danza-movimento-terapia, per mostrare in un liceo della periferia romana – coinvolgendo università, migranti del territorio, studenti e studentesse – come è possibile cominciare a superare le narrazioni prevalenti
1. Educare alla società
Paulo Freire (1983) diceva che l’educazione non può non essere ideologica, non può non avere una visione del mondo, della società da costruire. Ma a che tipo di società si sta pensando? E quale scuola si ha in mente? Un’idea di scuola, nel modo in cui suggeriva Lamberto Borghi (2008), come una comunità di liberi dubitanti dove le relazioni dovrebbero essere improntate su un dialogo libero e democratico, rifuggendo da linee gerarchiche e relazioni di potere. Costruire una comunità educante dove ritrovare un impegno a progettare creativamente il mondo, a inventarlo, direbbe Heinz von Foerster (2001). Ciò permetterebbe di generare nuove idee attraverso l’esercizio costante di un pensare che consenta di formare ad uno spirito critico e democratico, strumenti di trasformazione della comunità. Risulta quindi indispensabile investire nella cultura, nella pedagogia e nell’educazione. A tal proposito, funzionale alla trasformazione del contesto, è importante stabilire una relazione con gli alunni e le alunne, autentica e adeguata al progetto educativo, che rimetta al centro la persona, al di là di ogni contenuto disciplinare. La transdisciplinarietà, nel senso in cui la indica Edgard Morin (1994), infatti, è diversa dall’interdisciplinarietà o dalla multidisciplinarietà perché, in modo analogo all’intercultura, non è insegnamento a sé, non si sostituisce alle singole discipline ma va oltre la visione delle singole materie, creando spazi d’incontro e confronto tra le stesse. Insegnare non significa trasmettere delle informazioni, ma come saper trasformare le informazioni in conoscenza (Gamelli, 2011). Qualsiasi contenuto, quindi, prende forma dalla relazione pedagogica stabilita. La scuola, ancora per gran parte, si rifà ad una trasmissione di saperi frammentaria e riduttiva, dividendo il corpo dalla mente, la razionalità dall’aspetto emotivo o dall’aspetto sensoriale, e lo stesso Morin scrive a tale proposito:
Ci insegnano a partire dalle scuole elementari, ad isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a distinguere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare, a separare ciò che è legato, a eliminare tutto ciò che apporta disordini o contraddizioni nel nostro intelletto (Morin, 2000, p.7).
È l’incontro con l’altro attraverso un dialogo fatto non solo di parole che permette la costruzione di uno spirito critico e democratico, che non può continuare a essere nutrito soltanto da una conoscenza legata a un pensiero astratto, all’aspetto cognitivo che si pone al vertice della gerarchia dei saperi, a scapito di aspetti altrettanto importanti quali quello emotivo e corporeo. Una prospettiva culturale che ancora concepisce progetti didattici legati ad un paradigma di separazione tra corpo e mente, retaggio di concezioni che “possono essere rintracciate nel dualismo platonico, nella tradizione giudaico cristiana e nel pensiero scientifico di matrice cartesiana” (Mignosi, 2015, p.2). È necessario riportare il corpo all’interno di un essere in relazione che riconosca l’altro e l’altrui come presenza non indifferente alla propria esistenza e al processo di apprendimento, e che contribuisca ad un processo di riconoscimento di sé e dell’altro verso un’autentica comprensione del mondo esterno e del proprio senso di identità stabile (Senge, Scharmer, Jaworski, Flowers, 2004). In termini interculturali ciò significa entrare in una relazione pedagogica con “uno sguardo meno scontato sulla propria pratica educativa e una più concreta capacità di ascolto e intervento nei confronti di tutti gli allievi stranieri e non” (Zoletto, 2007, p.11). Scopo del dialogo comunicativo è comprendere intellettualmente ed empaticamente la cornice di riferimento dell’altro e individuare poi un terreno comune di incontro. Ciò implica una visione globale, non un’epistemologia del controllo. Le matrici dei processi mentali non risiedono in ogni singolo individuo, ma negli scambi comunicativi che connettono individui e sistemi, quei consigli sensati della coscienza che danno “consapevolezza che la creatura globale è sistemica” (Bateson, 1977, p. 474). Perché si possano piantare semi di trasformazione è necessario che ci siano azioni educative in grado di misurarsi con le complessità, per una relazione che si nutra della valorizzazione delle diversità.
2. Arte e intercultura
Questa visione delle relazioni tra persone di culture diverse è elemento necessario per trasformare la struttura dell’organizzazione scolastica, una nuova prospettiva di saperi, discipline e strategie che promuovano il dialogo e la reciproca trasformazione per una possibile convivenza. La migrazione è un fenomeno dinamico multidimensionale allo stesso tempo intimo, culturale e collettivo di cui è necessario recuperare la densità storica e antropologica. In accordo con Abdelmalek Sayad (2002), la migrazione è un fatto politico e sociale totale e l’intercultura, pertanto, ne risulta inevitabilmente connessa assumendone le stesse caratteristiche. Diventa necessaria quindi un’azione pedagogica collegata a un progetto politico che possa ritrovare un nuovo umanesimo nelle relazioni, nei contesti sociali, economici e culturali. Ci troviamo pertanto in perfetto accordo con Massimiliano Fiorucci (2020) quando scrive che, senza retorica, fare intercultura significa esercitare un compito essenzialmente politico, significa favorire situazioni di scambio e conoscenza tra culture diverse attraverso il dialogo per rispettare e valorizzare le diversità.
Fare intercultura a scuola significa, quindi, avviare una riflessione che sia una riforma di pensiero tale da operare un vero e proprio decentramento cognitivo attenuando il grado di etnocentrismo (Fiorucci, 2017). Secondo Mezirow (2016), l’etnocentrismo è un esempio di abitudine mentale, e la relazione che passa attraverso l’empatia fa compiere, in maniera non cognitiva, quello sforzo di decentramento culturale che porta a far sentire in maniera diversa colui o coloro che sono altro da me, favorendo una pratica di autoriflessione. Questo modo di educare permette di crescere, senza pensare di essere al centro del mondo, con un senso di uguaglianza dove collocare la propria esistenza.
In questo senso, educare all’intercultura attraverso l’arte vuol dire porsi rispetto alla comunicazione artistica come uno strumento che favorisce e promuove la transculturalità nella eterogeneità delle cittadinanze, nella convinzione che ciascuno possa essere portatore di valori e ricchezze. Come suggerisce Mignolo (2011), l’interculturalità è la celebrazione dell’essere insieme dentro e oltre il confine da parte di chi già abita il confine. È un’opportunità di esercitarsi al pensiero interculturale “appoggiato dalla volontà di accordarsi sulle differenze relative alle diverse visioni del mondo” (Bruner, 1992, p. 43), con lo scopo di promuovere un approccio olistico all’apprendimento per lo sviluppo della sensibilità, verso una formazione del pensiero critico e divergente che trasformi il contesto sociale.
L’uso dell’arte consente di immaginare una riforma del pensiero in grado di operare un decentramento dalle reti linguistiche e simboliche della cultura di appartenenza e ritrovare il senso di scuola-laboratorio interculturale di matrice deweyana. Si tratta quindi di pensare a creare concrete occasioni per fare esperienze tali da decostruire assetti cognitivi di rigidità identitaria e autocentrata per poter costruire un concetto ed un processo di educazione interculturale fondato su un’identità plurale. Utilizzare i linguaggi artistici significa spesso collocarsi al margine della didattica tradizionale, ma significa anche contribuire a produrre altre immagini o immaginari possibili, sollecitati da moti interiori in uno spazio di riconoscimento, che diventa, “spazio di resistenza […] un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi” (Hooks, 1998, p. 68).
3. Oltre la narrazione dominante
Secondo un report fornito dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), ottenuto combinando le segnalazioni Oscad (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) e i dati del Sistema di Indagine-Sdi, nel 2019, sul totale dei 1.119 reati di natura discriminatoria, 805 sono di matrice razzista o xenofoba (www.cronachediordinariorazzismo.org). La riflessione conseguente è sull’intolleranza nei confronti degli immigrati, dello straniero, dove una grande incidenza lo ricoprono i sistemi informativi, i mezzi di informazione e, in primo luogo, i social network che sono il mezzo privilegiato di raccolta di notizie da parte degli adolescenti tra i quali i social network più utilizzati risultano WhatsApp (98,9%), Facebook (61,9%) e Instagram (91,1%) (www.istitutoiard.org).
Come scrive Alessandro Dal Lago (2001), attraverso la consultazione di questo tipo d’informazione, si può cogliere una forma di etnicizzazione della delinquenza che porta ad un immaginario maggiormente condiviso dello straniero invasore, rinforzando quella contrapposizione che abita gli animi populisti e scatena la caccia all’untore. Le notizie viaggiano alla velocità della luce poiché la rete gode di fama di autenticità e di democraticità, la notizia sarà vera per definizione (Dal Lago, 2017). Di fatto la rete è la patria delle fake news, dei luoghi comuni, degli stereotipi che diventano indubitabili e che generano pregiudizi. Partendo da queste riflessioni nasce Pedagogia del Confine, una Art-Based Reseach, educativa e interculturale, come progetto politico pedagogico all’interno di un contesto scolastico.
La ricerca-intervento usa i linguaggi artistici, in particolare il corpo la Danzamovimentoterapia (da ora “Dmt”), e si sviluppa come ricerca dottorale nel Dipartimento di Scienze della Formazione presso l’Università di Roma Tre, cattedra di Pedagogia Interculturale, con la collaborazione del Liceo “E. Amaldi” situato nella zona di Roma Est, e di Intersos Italia.
La ricerca si propone di indagare questa realtà complessa e dinamica utilizzando strumenti artistici, in primo luogo il corpo e la danza, per verificare se possano essere strumenti di inclusione interculturale. La finalità generale della ricerca possiamo così riassumerla: riflettere e analizzare su come si possa contribuire a trasformare un paradigma informativo-mediatico distorto a uno emancipativo-evolutivo basato sulla conoscenza diretta; trasformazione del pregiudizio nel contesto e decostruzione di forme stereotipate; costruzione di un pensiero critico e rizomatico, al riparo da narrazioni tossiche.
I linguaggi artistici hanno caratteristiche che possono dare luogo a cambiamenti in tal senso. Lo sfondo ecologico delle relazioni è il riferimento epistemologico della ricerca che segue gli insegnamenti di Bateson e Morin, come descritto in precedenza. Tale sfondo è un riferimento fondamentale su cui si basa la metodologia operativa della Dmt ad indirizzo etno-antropologico dove, per usare le parole di Cynthia Jean Cohen (1997, p. 269), “l’atto di danza crea una sorta di significato culturale”. L’azione laboratoriale di ricerca-intervento si è svolta per sette incontri pomeridiani cui hanno preso parte gli studenti (15) della scuola e le persone migranti (15) provenienti dai centri di accoglienza con base sul territorio indagato. La ricerca ha seguito un mixed method i cui dispositivi hanno riguardato strumenti quantitativi quali un questionario sul pregiudizio somministrato a studenti e ai due insegnanti tutor in entrata in uscita, (Pettigrew, Meertens, 1995); e una check list, costruita ad hoc e compilata alla fine di ogni incontro dai docenti tutor e che ha permesso di rilevare la variazione nel tempo di parametri quali, l’uso del corpo, lo spazio e la relazione, seguendo i criteri dell’osservazione derivanti dalla Laban Analisys. Per quel che riguarda l’indagine qualitativa sono stati utilizzati dispositivi diversi: l’intervista semi strutturata di stampo fenomenologico, i focus group, l’osservazione partecipante e i diari di bordo.
Le linee guida e il metodo di lavoro sono stati:
- apprendere, educare, stabilire relazioni che connettono;
- azioni che facilitano il processo identitario dal singolo alla comunità e viceversa;
- arte e Dmt come elementi che favoriscono il confronto tra le diversità e le valorizza attraverso l’empatia;
- preservare una circolarità virtuosa tra narrare e narrarsi attraverso i linguaggi artistici in una prospettiva postcoloniale;
- esperienza-apprendimento tramite attività laboratoriale;
- il corpo, la Dmt, l’arte al servizio di un progetto politico-pedagogico.
4. Stato e trasformazioni dell’arte
Dall’analisi dei dati quali-quantitativi si sono rilevati sostanziali cambiamenti riguardanti atteggiamenti e preconcetti verso le persone migranti, in particolare rispetto ai pregiudizi latenti che, in partenza, caratterizzavano le interviste dei ragazzi. Stesso riscontro si è avuto dall’analisi dei dati riguardanti il questionario dove, in uscita, si è delineato un sostanziale scostamento dal pregiudizio iniziale verso il superamento di schemi di giudizio. In particolare, con riferimento a quanto emerso dalla categorizzazione relativa al processo di crescita emotiva ed identitaria, il gruppo è cresciuto, nel suo complesso, e si è trasformato. Ciò si è rilevato dalle interviste ma anche dal focus group finale.
A supporto di questa analisi riporto un grafico del questionario – sul pregiudizio appunto – riguardante, tra le altre, una domanda specifica. La domanda in questione poneva l’accento sull’occupazione di posti di lavoro spettanti agli italiani, uno dei maggiori preconcetti sulle persone migranti. Possiamo notare nelle barre scure, i risultati del questionario prima del laboratorio e, nelle barre chiare, i risultati al termine del percorso. Lo spostamento di un 20 per cento circa delle risposte che si poneva sull’essere d’accordo con la questione, definisce un risultato importante in questi termini.
Uno dei temi emersi dalle interviste riguarda la scoperta di poter osservare il mondo da un’altra prospettiva, una rivisitazione della propria identità in un processo di interazione in un contesto sociale dove si scrivono identità diverse (Bhabha, 1994). Ciò consente di poter modificare il nostro modo di scrivere la propria storia avendo maggiore consapevolezza di una visione altra, connessa ad una realtà che non proviene da fonti virtuali tossiche, ma da una esperienza di vita condivisa; di poter riformulare progetti e sogni, e guardare al futuro con occhi diversi.
Pubblicato (con il titolo completo Oltre le narrazioni dominanti. Il corpo e l’arte, al servizio di un progetto politico-pedagogico interculturale) su uno dei tre volumi Le responsabilità della pedagogia nelle trasformazioni delle relazioni sociali. Storia, linee di ricerca e prospettive, che raccolgono gli atti del congresso Siped (Società italiana di pedagogia) svolto nel gennaio 2021.
Formatore, esperto di educazione interculturale e danza-movimento-terapeuta, Fernando Battista, autore di questo articolo, è ricercatore presso l’Università degli Studi di Roma Tre
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