La scuola italiana, sembrerà strano a molti, non è sempre stata statalista e «unica». Alle origini del movimento operaio, era un concetto fondamentale quello dell’autonomia dell’educazione, e dunque della scuola dallo Stato, dalla confessione religiosa dominante, dai sindacati, dall’industria e dal grande capitale. Con il fascismo ma anche con l’antifascismo quel concetto ha perso rilevanza. Nel dopoguerra, tuttavia, fioriscono di nuovo esperienze forti per quanto marginali, più sperimentali» che in conflitto con quelle dello Stato, intorno, tra gli altri, a Margherita Zoebeli, Ernesto Codignola, Lamberto Borghi, Idana Pescioli, Bruno Ciari, Ida Sacchetti, Nora Giacobini, Grazia Fresco, don Lorenzo Milani, don Zeno Saltini, Aldo Capitini, Danilo Dolci, Maria Calogero. Nei primi anni Sessanta lo statalismo e centralismo della scuola italiana portano via via alla scomparsa di quelle iniziative. Lo ricorda Goffredo Fofi nella prefazione di La città e la scuola, un libro del 2000 che raccoglie testi di Lamberto Borghi e che elèuthera ha deciso di rieditare (il titolo è tratto dalla prestigiosa rivista Scuola e città diretta da Borghi dal 1965 al 1972). “È ora di riaprire la discussione, e se possibile la lotta, di ripensare a una scuola che sia parte di un progetto educativo di vasto raggio – scrive Fofi -, a figure di educatori che attraversino scuola e società, o anche estranei istituzionalmente al «mondo della scuola» ma dentro una rete di iniziative educative, e non a una scuola ma a tante scuole, libera ciascuna, nei limiti del rispetto di poche norme comuni, di reinventare i percorsi formativi… È un lungo e difficile lavoro quello che ci toccherà nei prossimi anni per ridefinire e sperimentare… Ad assisterci devono esserci molti testi di pedagogisti di ieri e, tra questi, di Lamberto Borghi…”
La scuola italiana degli anni di Berlinguer e De Mauro è una delle zone più confuse di una società senza luce e senza progetto. Essa appare divisa tra spinte e correnti contrapposte che esigono tutte la loro parte di potere e sono il frutto non di contrapposte tensioni politiche e ideali ma di interessi corporativi, di revanscismi curiali, di arroganze sindacali. E hanno a collante vaghi sogni di modernizzazione più tardo-fordiani che post-moderni, più «emiliani» che «americani» e «globali». Queste spinte, queste correnti, non sono destinate a ridurre la loro importanza ma ad aumentare il disordine e la provvisorietà di ogni scelta, subito ribaltata e condizionata da protervie e contrapposizioni di parte.
In questo quadro, si può pretendere che il dibattito pedagogico sia di alto profilo? La pedagogia si porta forse peggio di altre discipline o, in generale, della cultura italiana a cavallo di secolo e di millennio; però la sua storia è diversa e la sua decadenza ha ragioni più profonde, delle quali è possibile rifare la storia, determinare ragioni e responsabilità.
Dico pedagogia e non dico insegnanti. La bizzarria della nostra società (o di tutte, ormai) è la bizzarria stessa della democrazia: una maggioranza grande di ignavi, tali anche perché è interesse di chi comanda mantenerli tali, e che spesso diventano, qualora se ne presentino le occasioni, bruti; e una minoranza di senzienti che credono ancora nel «ben fare», anche quando non sono sorretti da speranze collettive, da fedi certe e, intorno a loro, da pensieri persuasi, da pensieri forti. Dalla parte del pensiero, la mediocrità nazionale è sotto gli occhi di tutti, e quella del pensiero pedagogico contemporaneo tocca il disastro. Raramente, credo, la cultura italiana si è portata complessivamente peggio di oggi per conformismo e pavidità, per manipolazione mediatica e declino universitario. Se qualcosa ancora si muove è ai margini e nell’ombra, e mai come oggi si avverte così grande l’assenza di quel tipo di intellettuali che, in dialogo costante con il proprio tempo, univano non a caso alla propria investigazione e alle domande sul futuro la capacità di un’alta produzione artistica, da personaggi di confine, da artisti che erano anche saggisti, commentatori, provocatori.
Penso a Pasolini, Calvino e Sciascia, i tre che più di tutti hanno intrattenuto questo dialogo, ma anche a Morante e Ortese, a Volponi e Fortini, a Cassola e Ginzburg, a Primo Levi e Turoldo e tanti altri, e prima di loro a Silone e Chiaromonte. Oggi, in Italia, siamo orfani di guide, quelle del cui sprone il nostro secolo è stato invece assai ricco, nel nostro paese. Se dunque, dagli anni della morte della pedagogia (dai Sessanta in avanti) abbiamo comunque avuto degli educatori (non dei pedagogisti) come Pasolini Calvino Sciascia, oggi siamo orfani anche di quelli, e le loro parodie, con tutto il buon senso di cui si pretendono portatori nell’insegnarci ad accettare il mondo così com’è, e con tutta la loro abilità a starci dentro godendone tutti i vantaggi, ci affliggono e distolgono invece che stimolarci e assisterci.
Ma perché dico che la pedagogia italiana è morta (o anche: si è suicidata) all’avvento del boom? Allora, anzi, molte delle sue istanze basilari venivano prese infine sul serio da ministeri e governi e portavano a radicali riforme, almeno nelle elementari da sempre il terreno più vivace dello scontro, e quello dove la «vocazione» distingueva ancora buona parte degli insegnanti, che erano (e tuttora sono), al contrario, meri impiegati statali nella classista statica autoritaria stupida scuola media e superiore.
La scuola italiana non è sempre stata statalista e «unica». In passato, alle origini del movimento operaio e delle associazioni di auto-difesa e riformatrici, era un concetto importante quello dell’autonomia dell’educazione, e dunque della scuola dallo Stato, dalla confessione religiosa dominante, dai sindacati, dall’industria e dal grande capitale. Lo statalismo fascista e poi le leggi concordatarie, che univano ai diktat del primo i diktat vaticani, erano visti, pur dall’interno di una dominante filosofia idealistica che attraversava destra e sinistra, come il nemico da battere. L’antifascismo si occupò però poco della scuola e dell’educazione e di come questi campi andassero in futuro riorganizzati, rispetto a quali principi e teorie, quando il fascismo sarebbe caduto (come pochi avevano per certo), e gli anni della riscossa e della nascita di una nuova Italia videro l’illusione, dentro la pur faticosa costruzione del cln e della sua eredità («l’arco costituzionale»), di un’unità attorno allo Stato, di una presa di possesso dello Stato cui delegare tutto o quasi il progetto pedagogico, diventato «per tutti» secondo una convinzione e un’eredità che erano, a ben vedere, più dello Stato fascista che dello Stato unitario.
Sullo statalismo italiano ha scritto pagine straordinarie proprio il nostro Borghi in Educazione e autorità nell’Italia moderna, davvero un «classico» della nostra storiografia nazionale. Una scuola per tutti, secondo regole comuni, ideata e diretta dal centro: questo andava bene per tutti, e l’unica discussione rimasta sull’autonomia della scuola fu quella che rispondeva a una concezione molto limitativa del «pubblico» e del «privato», la distinzione tra scuola di Stato e scuola dei preti…
Nel dopoguerra, tuttavia, erano fiorite nuovamente esperienze autonome o relativamente tali, più avanguardistiche che separate, più «sperimentali» che in conflitto con quelle dello Stato, che dunque si proponevano di portare a quelle dello Stato i succhi di novità intrinseche, di metodo, e non ne mettevano in discussione quasi mai la legittimità accentratrice nonostante gli avvertimenti di qualche pensatore alla Borghi o alla Capitini. Vi furono allora esperienze ricchissime di insegnamento, la cui storia qualcuno dovrebbe decidersi a ripercorrere.
Esse ebbero alcuni luoghi deputati alla costruzione giorno per giorno di una «teoria» nata dal contatto diretto con le «pratiche» pedagogiche di base. A Rimini attorno al Centro educativo italo-svizzero e alla sua fondatrice Margherita Zoebeli; a Firenze attorno alla rivista Scuola e città (diretta prima da Codignola e poi dallo stesso Borghi) e alla scuola elementare sperimentale dallo stesso nome; attorno al Movimento di cooperazione educativa che introdusse in Italia le «tecniche Freinet» (mce) o ai Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (cemea) che ne derivarono, fondati da Marcello Tamagni e da altri animosi e preparatissimi maestri elementari (e voglio ricordare alcuni nomi: Aldo Pettini, Marcello Trentanove, Idana Pescioli, Bruno Ciari, Ida Sacchetti, Nora Giacobini ecc.); attorno all’associazione montessoriana che preparava maestre d’asilo, e che ha avuto per anni il suo perno in Grazia Fresco; a Roma, attorno al Movimento di collaborazione civica (mcc) fondato tra gli altri da Calogero Silone Frassineti e animato da Cecrope Barilli ed Ebe Flamini (più interessato alla formazione civile e culturale dei giovani che non direttamente alla scuola); e poi ancora attorno a esperienze straordinarie di «eresia» dentro la Chiesa cattolica quali quelle di don Lorenzo Milani (prima che il Milani di Lettera a una professoressa, che ha a che fare con il Sessantotto piuttosto che con gli anni Cinquanta della massima fioritura di teorie e pratiche pedagogiche nuove, quello di Esperienze pastorali), di don Zeno Saltini (Nomadelfia), e attorno alla milanese Corsia dei servi dei Turoldo e De Piaz; e poi ancora attorno ad Aldo Capitini, tra Cagliari e Perugia; attorno a Danilo Dolci in Sicilia; attorno al Centro di educazione professionale per assistenti sociali di Roma (cepas) di Angela Zucconi e Maria Calogero; attorno alla Olivetti di Ivrea e alle iniziative da Olivetti sponsorizzate nel Sud, per esempio tra Abruzzi e Molise e nel Materano; e ancora attorno alla Unione nazionale di lotta contro l’analfabetismo (unla) di Anna Lorenzetto; ecc.
Un variegato mondo marginale di esperienze forti e motivate attinenti anzitutto al «metodo», che fu poi ciò che distinse questi educatori da quelli ufficiali della sinistra e della Chiesa. A sinistra la differenza fu grande ed evidente tra questi sperimentatori e i pedagogisti militanti del pci (quelli dei «contenuti») raccolti attorno alla rivista romana Riforma della scuola diretta da Dina Bertoni Jovine e da Lucio Lombardo Radice, portatore di un cognome illustre. Così come «quelli del metodo» si raccoglievano attorno a Scuola e città e a quel piccolo formidabile bollettino segnato dalla concretezza che fu Cooperazione educativa.
Dietro «quelli del metodo» c’era una visione del mondo anti-autoritaria e decentrata, poco o niente statalista e molto democratica, federalista e sperimentale, che aveva alle spalle una lunga storia e grandi maestri. La storia della pedagogia è stata infatti caratterizzata: a) dal conflitto delle nuove idee e anzi dei nuovi «metodi» con il potere e con lo Stato; b) dal legame assoluto tra pensiero e pratica, come solo è avvenuto in modi simili in un altro campo di sperimentazione, dove la sperimentazione è obbligata, quello della ricerca teatrale. Se solo chi fa teatro può teorizzare il teatro, solo chi insegna può diventare teorico dell’insegnamento, «pedagogista».
Attorno al 1960, negli anni del miracolo economico e del centro-sinistra, la scuola italiana si rinnova nel suo terreno prioritario che è quello delle elementari, e ci vorrà invece la scossa tardiva del Sessantotto per smuovere qualcosa nelle secondarie e nelle università, ma consegnandoci una generazione di insegnanti venuti dalla militanza politica che, con il fallimento dei loro troppo facili sogni di rivoluzione, sono poi tornati alla scuola con una visione burocratica e tecnica dell’insegnamento e una accentuata insistenza sui diritti degli insegnanti, e su una visione ancora più burocratica della democrazia, divisa tra poteri interni alla scuola (la direzione e i sindacati, i genitori e gli studenti) che ha finito per dimenticare e tradire ogni discorso di «metodo». Si è così sostituita via via alla ipertrofia dei «contenuti» quella delle «tecniche», non più parte del metodo e al servizio del metodo ma fini a se stesse, idolatria della «formazione» che sostituisce l’«educazione» dentro un’idea di società (occidentale) certo non classista come quella di ieri ma il cui efficientismo dei propositi corrisponde soltanto a un efficientismo dei nuovi sistemi di controllo, e dunque di disparità tra il potere e le sue gradazioni di servitù.
Attorno al 1960 lo statalismo e centralismo della scuola italiana raggiungono il loro apice, e portano via via alla scomparsa delle iniziative autonome e più vive. Don Milani viene confinato a Barbiana, e di lassù lancerà l’ultimo grido della richiesta di una scuola altra, che verrà ascoltato solo nella direzione di una scuola statale finalmente allargata ai figli dei proletari e dei poveri. Il progetto infiammerà le fantasie dei suoi lettori e influirà sul primo Sessantotto ma, rientrata la spinta libertaria del movimento giovanile negli alvei del gruppettismo tardo-leninista o maoista, verrà «recuperato» dentro una nuova logica statalista e «democratica», che ha stavolta come avanguardia i suoi stessi lettori, diventati insegnanti e presidi rudemente sindacalizzati… Una temibile corporazione che ben presto confonderà, come tutte le corporazioni, i propri interessi con i propri (passati) ideali.
Lo Stato continua a vincere, e quando si riaprirà, oggi, il discorso sull’autonomia, esso sarà logicamente all’opposto di quello auspicato e talvolta praticato dai nostri «classici», sarà un modo di riaffermare il potere del centro e il conformismo degli insegnanti da esso controllati. È ora, dunque, di riaprire la discussione, e se possibile la lotta, di ripensare a una scuola che sia parte di un progetto educativo di vasto raggio, a figure di educatori che attraversino scuola e società, o anche estranei istituzionalmente al «mondo della scuola» ma dentro una rete di iniziative educative, e non a una scuola ma a tante scuole, libera ciascuna, nei limiti del rispetto di poche norme comuni, di reinventare i percorsi formativi dei suoi «scolari», dal dentro di idealità anche disparate e parziali.
Non la scuola ma le scuole possibili: di gruppo, di comunità, di minoranza, fatti salvi gli obblighi per tutti di insegnare a leggere scrivere e far di conto, per la prima infanzia, e un minimo di programma comune ma con un massimo di aperture possibili per coloro che cercano qualcosa di più che la strada dell’integrazione della produzione dell’unificazione della conformazione.
Si sogna una scuola riformata e libera che si occupi assiduamente della prima infanzia (le elementari e qualcosa di più) e una scuola adulta che assista i giovani dopo aver loro permesso nella pubertà esperienze comunitarie le più vaste, itineranti e di pratica diretta della natura, del gruppo, delle essenziali capacità manuali e artigiane anche pre-professionali, di vera partecipazione e autogestione. Si sogna una scuola per i giovani nella prima maturità di scelte professionali decise sulla base di una verifica dei talenti che ciascuno possiede, delle vocazioni cui ciascuno crede di dover rispondere. Che possono essere anche «non produttive», «tardo-umanistiche», che arricchiscono la società non di imprese e di denari ma di fattiva creatività.
Utopia! Che Borghi, con alcuni dei suoi maestri (penso a Korczak continuamente da riscoprire; e penso anche a Nicola Chiaromonte, che non fu educatore «diretto» ma che resta una delle più lucide menti del nostro secolo italiano e che fu intimo di Borghi, entrambi direttamente legati al magistero socratico di Andrea Caffi) si affretterebbe a riportare a un ostinato «elogio» del presente: un presente che va vissuto nelle sue contraddizioni, anche in quelle più dure, un presente che è l’unico vero terreno della nostra possibilità di esperienza, di intervento e di incidenza. E solo se si lavora bene al presente, per esempio con i bambini, si può sperare in un futuro cui ciascuno possa essere in grado di dare la sua intelligente collaborazione.
Deliriamo! Ma se parliamo di progetti che sappiamo irrealizzabili è solo perché senza un’idea di «educazione» e di «scuola» che superi i balordi aggiustamenti ai confusi bisogni immediati dell’economia e delle grandi corporazioni (compresa quella degli insegnanti) e se non si ricomincia a discutere «alla grande» di educazione e di scuola come attività di trasmissione dei valori e di trasmissione delle conoscenze, non se ne uscirà. Non si troverà un bandolo serio, non si potrà intervenire efficacemente nel presente e, di conseguenza, aprirsi al futuro.
È un lungo e difficile lavoro quello che ci toccherà nei prossimi anni per ridefinire e sperimentare, e dovrà riguardare la parte migliore degli insegnanti così come quei pochi gruppi «di volontariato» che operano decentemente, preparandoli al nostro caotico e approssimato contesto, con i bambini o gli adulti immigrati, rom ed emarginati di vario tipo, la maggior parte dei quali vanno sollecitati a dare il loro contributo alla nostra disordinata comunità nazionale. Ad assisterci devono esserci molti testi di pedagogisti di ieri e, tra questi, di Lamberto Borghi, tuttora presente tra noi, verso il quale il debito di riconoscenza dei suoi allievi non è stato pagato, così come non è stato pagato il debito che ha con lui la nazione.
Quando si parla dei problemi che una pessima e opportunistica gestione degli spazi della scuola e dell’educazione ci ha lasciato in eredità, avendo abbandonato strada facendo le esperienze e riflessioni più utili, gli insegnamenti dei gruppi che abbiamo cercato di elencare, a vantaggio di uno statalismo e di un tecnicismo ostili a ogni autonomia e a ogni liberante processo formativo, e quando si rileggono gli scritti di Lamberto Borghi ci si rende ben conto di quanto grave sia stata la sconfitta dei pedagogisti del suo stampo e delle inventive sperimentazioni da essi proposte e analizzate. Il «metodo», che è anche il «ben fare» qui e ora nel rispetto dei tempi dei modi e dell’intelligenza dei bambini e degli allievi in generale, il «metodo» ha perduto e hanno vinto, negli anni Sessanta, i «contenuti». Ma oggi hanno finito per perdere anche quelli, per mano dei loro stessi propugnatori e propagandisti, sopravanzati da una generazione di pedagogisti-burocrati, di pedagogisti-cronometristi e di pedagogisti-da-quiz. Al metodo e ai contenuti si sono sostituite tecniche che non hanno nulla a che vedere con quelle artigianali di Freinet e dei maestri del mce, e hanno invece tutto a che vedere con i deliri, tardo-industriali più che post-industriali, dei sognatori di un antico e fallimentare progresso disumanante, hegelo-marxista ma anche hegelo-fascista…
So bene che Lamberto Borghi non apprezzerà questo mio modo di polemizzare e discutere, ma non ci si può esimere, nel rivendicare il suo magistero, dal ricorrere a questi toni. Proprio la sconfitta di intellettuali-militanti del suo stampo ce ne dà la spinta e l’autorizzazione… Eppure non tutti i giochi sono stati giocati, e se qualcosa rimane che possa ancora essere utile al nostro presente e alla nostra attività, per chi rivendica la qualità e non la qualifica di «educatore», è proprio l’opera di pensatori e studiosi come Borghi, e di coloro di cui egli così sensatamente e mirabilmente ha tracciato le biografie intellettuali, politiche e morali nei saggi raccolti in questo libro e in tanti altri.
Si avvertono nel pensiero di Borghi molte componenti: l’origine ebraica e le conseguenti persecuzioni e fughe, le simpatie anarchiche e l’amicizia di Caffi e Chiaromonte, il magistero teorico di Dewey pensatore della politica quanto della pedagogia e le due strettamente connesse, l’amicizia (e talora il conflitto) con il laico Salvemini, l’adesione piena all’amicizia con il nonviolento Capitini, il rapporto quotidiano e diretto con i maestri di base di Scuola e città o del ceis di Rimini o del mce, l’attività di insegnante universitario formatore di nuovi maestri e nuovi educatori nella temperie del dopoguerra, l’assoluta serietà dello storico che si fa forte del rispetto per le idee altrui studiate e presentate con il massimo di attenzione e dell’assenza altrettanto assoluta di enfasi propagandistica sulle proprie idee e per la propria parte.
Nel saggio storico come nella disamina teorica come nella ricostruzione di biografie in cui pensiero e azione si sono inesorabilmente intrecciate (affascinante sopra ogni altra quella di Capitini), Lamberto Borghi si rivela studioso di grande livello e insieme «persuaso» di coerente limpidezza. Forse, è il caso di dirlo, il silenzio e la disattenzione di cui la sua opera è oggi circondata sono dipesi tanto dal rigore della sua ricerca e della sua scrittura (nel rifiuto di farsi barone-divo intellettuale, del tipo che invece i grandi media prediligono) quanto dalla sconfitta delle idee che ha professato e difeso, che oggi ci sembrano invece indispensabili per la ricostruzione di ogni base teorica e storica solida nel lavoro degli educatori di oggi, dentro e fuori la scuola.
Questa sconfitta è stata transitoria ed è oggi sul punto di trasformarsi in vittoria, poiché coloro che vinsero (quelli dei «contenuti» e i loro successori tecnicisti e tecnocratici oggi malamente al potere o in un precario incrocio di bizantinismi e idiozie, naturalmente più-che-moderni) mi sembrano oggi i più perdenti di tutti: la scuola e la società che essi hanno voluto e di cui pretendono di reggere le fila da formatori di formatori o da consulenti di stolidi principi è in crisi profonda, e non sa più il come il cosa il dove il quando di alcun attendibile progetto che non sia di mero aggiustamento ai voleri delle maggiori forze in campo. Essi sono al punto di scontentare anche quelle, tanta è la loro insipienza, nonostante la tanta loro arroganza. Con Borghi e con i suoi scritti bisogna tornare a fare i conti e da essi bisogna ripartire, allargandosi e aprendosi agli stimoli di cui essi si sono nutriti e al pensiero di altri maestri ed educatori del suo stampo, quelli stessi da cui egli ha imparato o con i quali ha saputo incontrarsi.