In queste ore, nella terra che tre religioni monoteiste chiamano santa, bambine e bambini muoiono accanto allo stesso pallone, alla stessa bambola, allo stesso videogioco con cui si divertono e passano il tempo tante e tanti come loro in ogni parte del mondo. Spesso ci domandiamo cosa si può fare quando non c’è più niente da fare. Una delle risposte, suggerisce Mirco Pieralisi, maestro, può essere costruire tanti momenti comuni di sospensione, come quello che avvenne in quella incredibile ora in cui Paolo Rossi aveva fermato il tempo in una casa palestinese…
Chi con crescente imbarazzo continua ad amare il calcio (compreso chi scrive) non può ignorare quante volte gli stadi, l’ambiente e i sentimenti che il tifo veicola abbiano riflesso, accompagnato, amplificato e in qualche caso anticipato la violenza esplosiva che infuria nel mondo vicino e lontano da noi. In questo contesto la decisione di far osservare un minuto di silenzio all’inizio dell’incontro Inghilterra-Italia per onorare le vittime israeliane e svedesi ignorando quelle palestinesi è stata tragicamente e spudoratamente coerente con quell’insopportabile gerarchia del dolore che sa di razzismo, faziosità e di tutto ciò che ci allontana non solo dalla comprensione del reale, ma soprattutto da quello che dovrebbe essere umana pietà. Lo so, “un minuto sbagliato” a migliaia di chilometri dalla strage è ben poca cosa di fronte all’immensità della tragedia vissuta in terra di Palestina, di fronte all’uccisione, alla mutilazione e al ferimento di migliaia di bambine e bambini. E qualcuno potrebbe persino farmi la classica domanda (una delle peggiori possibili sempre) che si fa in questi casi: “di che ti stupisci?”, come se la prevedibilità di un evento non suscitasse egualmente amarezza, sgomento e disgusto.
Mi sono chiesto anch’io perché questo “minuto sbagliato” mi abbia colpito così a fondo e ho provato a darmi una risposta seguendo dei ricordi che attraversavano i decenni della mia vita da maestro. Mi venivano in mente bambini, e non di rado bambine, che arrivavano a scuola con la maglietta di Paolo Rossi, di Baggio, di Zico e poi via via di Totti, di Gullit, di Ronaldo, di Messi, magliette con questi ed altri nomi che violavano i confini perché erano i campioni di tutti, erano le stesse magliette con gli stessi nomi che hanno indossato i loro coetanei serbi, croati e bosniaci, i ragazzi di strada di Rio e quelli arrivati con i barconi fino alle nostre scuole, i bambini di Gaza e quelli di Tel Aviv. Mi è tornato in mente un articolo che lessi più di quarant’anni fa, la cronaca di un arresto in una casa palestinese mentre tutta la famiglia stava guardando una partita di calcio. Per quanto possa sembrare incredibile i soldati israeliani aspettarono la fine della partita e in una tregua quasi “omerica” i nemici assistevano insieme allo stesso rito, tifavano per la stessa squadra, l’Italia, e ammiravano lo stesso giocatore, Paolo Rossi.
In queste ore, nella terra che tre religioni monoteiste chiamano santa, bambine e bambini muoiono accanto allo stesso pallone, alla stessa bambola, allo stesso videogioco con cui si divertono e passano il tempo tante e tanti come loro in ogni parte del mondo.
Oggi la salvezza delle bambine e dei bambini che vivono in quella terra certamente sta nell’immediato cessate il fuoco sul campo, passaggio ineludibile che solo l’irresponsabile inerzia, cinismo e partigianeria internazionale non intende imporre, ma non è solo questo. I bambini e le bambine, che in altre parti del mondo, anche nelle nostre case, nutrono la loro educazione sentimentale in un percorso che attraversa contrasti, passioni, miti, speranze e delusioni continue, in quella terra non sembrano avere altra speranza che vivere nell’odio, nella conta dei missili buoni o cattivi, nell’accumulazione di torti subiti e di paure infinite. Sono cresciuti in un mondo dove ciò che unisce ogni essere umano negli anni della sua crescita, il desiderio di essere felice come il dolore, la paura come la curiosità, come ogni sentimento, pensiero o parola appresa, tutto ciò che ci rende straordinariamente simili viene corrotto, frustrato, deviato verso una traiettoria di morte e di disperazione. Pensare che la tragedia di una bambina o di un bambino palestinese, come è avvenuto nel “minuto sbagliato” di Wembley, abbiamo un peso diverso da quello delle vittime israeliane è un’altra prova del baratro in cui sta precipitando una parte dell’umanità, un’umanità in cui chi non accetta di annegare nell’indifferenza sembra aver perduto ogni speranza.
Ma mentre il fuoco e le fiamme dell’invasione bruciano il presente e il futuro di migliaia di vite, nelle stese ore, lontano da Gaza, milioni di alunne e alunni entrano nelle nostre aule e insieme a loro ci sono migliaia di insegnanti che non possono permettersi di arrendersi all’inevitabile inerzia di una spirale di guerra e di odio sempre più universale anche quando una guerra non è dichiarata, ma si manifesta con attentati e violenze armate dal fanatismo, con l’intolleranza e il razzismo, quello istituzionale come quello quotidiano.
Nelle nostre classi entrano bambine e bambini, ragazze e ragazzi, provenienti da ogni parte del mondo o nati in Italia da genitori italiani o di altri paesi. Ognuna e ognuno di loro viene da famiglie diverse, portatrici di diverse lingue, idee, pregiudizi, ricordi, generosità e rancori. Nel momento in cui sono a scuola però esiste la possibilità di esercitare quella sorta di “sospensione del prima e del poi” che magicamente in una classe può avvenire, perché quella classe, in quel momento, se tutelata da una buona miscela di sapienza e curiosità adulta, diventa la terra dove ogni incontro è possibile, dove piano piano le storie di ognuna e di ognuno e le grandi storie collettive si possono raccontare, perché in quell’aula si è al sicuro, perché a scuola è possibile fermare il tempo per guardarci negli occhi e sapere chi siamo.
Spesso ci domandiamo cosa si può fare quando non c’è più niente da fare. Una delle risposte può essere proprio quella di costruire tanti momenti comuni di sospensione, come quello che avvenne in quella incredibile ora in cui Paolo Rossi aveva fermato il tempo in una casa palestinese.