Come includere tutti gli studenti e le famiglie in una comunità unita e legata al territorio senza lasciare nessuno indietro? Sì, anche le famiglie, perché senza una vera relazione e un mutuo sostegno con le famiglie, qualsiasi progetto di educazione in comunità diventa molto più difficile. Quando poi, come nell’Istituto Comprensivo Benci-Borsi, c’è una forte pluralità delle culture di provenienza e le famiglie delle bambine e dei bambini vengono da una decina di Paesi differenti – questo è ormai un tratto consolidato del tessuto urbano del centro di Livorno – magari ci vuole un po’ di fatica e immaginazione in più, ma la ricchezza della buona convivenza tra diversità, l’intercultura, diventa valore aggiunto. Anche per questo è tanto utile l’outdoor learning. E per questo, racconta la Dirigente Simona Michel, è nato il progetto “La scuola che cammina”, che unisce trenta soggetti cittadini e fornisce un sostegno alle problematiche causate dal disagio che può emergere da varie situazioni derivanti dall’incontro di mondi diversi che vogliono star bene insieme
Questo articolo fa parte dell’inchiesta
Apprendere dall’esperienza. A Livorno
Simona Michel è la dirigente dell’Istituto Comprensivo Benci-Borsi che include due scuole dell’infanzia e due scuole primarie comprese nelle strutture Antonio Benci e Massimo D’Azeglio e una scuola secondaria di primo grado compresa nella struttura Giosuè Borsi. Ci ha accolto nel suo ufficio e ci ha raccontato l’impegno della sua scuola nel fronteggiare le difficoltà di una realtà multiculturale come quella di Livorno, caratterizzata da intrecci di storie e culture diverse tra loro.
L’intento prioritario dell’istituto è quello di includere tutti gli studenti e le famiglie in una comunità unita e legata al territorio e non lasciare nessuno indietro. In questa intervista ci spiega come sono affrontati i problemi per raggiungere i migliori risultati possibili e quali sono le attività e gli obiettivi dell’Istituto.
Ci racconta qualcosa della sua scuola?
I nostri istituti si trovano in pieno centro e hanno tutte le caratteristiche delle scuole che si trovano in centri italiani di Comuni medio-grandi. Livorno si sta evolvendo e anche il quartiere rispecchia le caratteristiche di questo sviluppo: qui in centro città ci sono moltissimi stranieri, la nostra scuola accoglie un’alta percentuale di bambini appartenenti a circa dieci etnie diverse, per questo l’aspetto interculturale è un aspetto caratterizzante di questa scuola.
A questo proposito, sappiamo che avete un progetto per offrire opportunità e una didattica alternativa agli studenti: “La Scuola Che Cammina”. Ce ne può parlare?
“La Scuola Che Cammina” è un progetto che mira a creare un legame tra la scuola e i vari Enti di Livorno, abbiamo una rete che comprende circa trenta Enti, tra i quali il Comune, i Carabinieri e diverse associazioni. L’intento è quello di creare una struttura di supporto ai bambini, fornire occasioni didattiche, ma anche di sostegno alle problematiche causate dal disagio che può emergere da varie situazioni derivanti dall’incontro di mondi diversi. Infatti questo progetto è connesso anche con l’aspetto delle varie culture. Livorno è storicamente una città interculturale quindi viene abbastanza spontaneo voler creare un legame tra l’alunno e la città, è fondamentale che gli studenti sviluppino un senso di appartenenza verso l’ambiente in cui vivono. Quindi l’attività è proprio portare fuori i bambini, creare una didattica al di fuori della scuola e fare attività all’aria aperta. Il precetto fondamentale è proprio l’outdoor learning. Quindi la scuola che cammina è questo: una scuola legata al suo territorio.

Per lei cos’è la scuola aperta? Pensa che sia opportuno che la scuola offra spazi e tempi ulteriori a quelli della didattica mattutina alla propria comunità?
La scuola aperta è una scuola che offre una serie di opportunità agli alunni. Tuttavia la scuola, da sola, non ce la può fare a soddisfare tutti i bisogni degli studenti, quindi si deve legare attraverso convenzioni con gli altri Enti per supportare le attività che altrimenti non potrebbe sostenere. Si deve riuscire a tenerla aperta, ma anche ideare e sostenere delle iniziative.
La nostra scuola si lega al territorio e alle comunità, ad esempio, nella scuola primaria abbiamo attivato una scuola di italiano per gli stranieri, non solo per i bambini, ma anche per tutte le famiglie straniere, anche quelle che non sono legate al nostro comprensivo.
Che ruolo ha la scuola nel quartiere? Riesce a essere un punto di riferimento?
Penso che la scuola debba essere un punto di riferimento. Parlare di scuola nei comprensivi significa parlare anche di genitorialità perché i bambini sono piccoli. Per lavorare bene sui bambini si deve lavorare e aiutare anche le famiglie. In questo senso la scuola deve essere un centro di accoglienza delle varie famiglie, delle varie etnie e deve offrire delle opportunità. Ad esempio noi, oltre ai corsi di italiano, organizziamo nelle biblioteche degli incontri, delle conferenze e delle attività che siano di coinvolgimento per tutti.
Quali sono le principali difficoltà che ha incontrato nella sua esperienza da Dirigente all’interno della scuola?
Questa è una domanda difficile. Entrare in una scuola come questa significa dapprima scontrarsi con tante realtà diverse che sono difficili da comprendere appieno. Le varie problematiche vanno analizzate nella prospettiva delle varie culture, tentando di distaccarsi dalla quella italiana, altrimenti risulta impossibile trovare una soluzione. Questa è stata la principale difficoltà professionale.
Invece la principale difficoltà personale è stata che ho vissuto tutta la mia precedente carriera in scuole superiori e trovarmi in una scuola dell’infanzia e primaria è stato scioccante e impegnativo dato che ci sono delle dinamiche completamente diverse.
Quale futuro si immagina per questa scuola?
Vorrei una scuola che va alla ricerca di soluzioni didattiche innovative per rispondere esattamente a tutte le necessità di alunni diversi tra loro, quindi una scuola fortemente centrata sull’individualità di ogni alunno.
(intervista a cura di Margherita Bani)