Qual è la differenza fra conoscere e sapere? Sapere deriva da sale, si conosce con l’intelletto ma si sa attraverso i sensi. La scuola oggi sembra puntare troppo sull’accumulo delle conoscenze con una scissione dal mondo così com’è
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Tutti a tavola
Qual è la differenza fra conoscere e sapere? Dopo parola e termine(1), siamo di nuovo davanti a una coppia di parole che sembrano parzialmente sovrapponibili e, se usate con poca attenzione, quasi intercambiabili. Ma per distinguerle con chiarezza è sufficiente osservare come sono composte e, nella loro composizione, a cosa si riferiscono.
Conoscere deriva dal latino cognòscere, composto dal prefisso cum, che indica unione (come il greco syn e l’italiano con), e spesso con valore intensivo enfatizza il significato della parola successiva, e gnòscere, che deriva da una radice solidamente attestata tra le lingue indoeuropee, che ritroviamo, tra le forme cui dà vita, nel greco nous, che vuole dire mente, intelletto: conoscere è apprendere con l’intelletto.
Sapere invece viene dal latino sàpere, che deriva da sale e significa avere il sapore, perché il sale conferisce sapore alle cose e ne esalta il gusto, mentre, senza sale, il cibo è insipido.
Si può dire che il sapere e il sapore, nel profondo, sono la stessa parola e che attraverso il gusto passa il loro riconoscimento. Occorre farne esperienza diretta, sensoriale; sapere qualcosa implica che va assaggiato, toccato, esperito, provato, sentito. Da sapere non vengono solo parole come assaggiare e sapidità, ma anche sapienza e saggezza.
Si conosce con l’intelletto, ma si sa attraverso i sensi e l’esperienza dei sensi.
Si conosce attraverso lo studio, la lettura, l’ascolto di lezioni o conferenze, o per sentito dire. Chi passa molti anni a scuola, se studia, può arrivare a conoscere molte nozioni, come chi legge molti libri, ma pur conoscendo molto può anche sapere quasi nulla, se accanto allo studio, all’ascolto e alla lettura non passa attraverso l’esperienza diretta. Si può anche passare la vita sui libri e conoscere la vita per ciò che se ne è letto, e della vita sapere poco. E può succedere il contrario, se lo riferiamo a chi ha frequentato poca scuola, ha letto pochi libri, ma attraverso l’esperienza diretta ha assaggiato la vita, ne ha sentito il gusto, si è messo alla prova, le è passato attraverso, ha visto le cose di cui si è occupato, le ha toccate, le ha annusate. Sarebbe preferibile coltivare conoscenza e sapienza insieme, in realtà non è affatto raro incontrare chi conosce tanto e sa veramente poco, uomini di grande dottrina ma con le mani piccole, con cervelli iperallenati, ma i sensi anestetizzati, se non atrofizzati, e il cuore quasi inerte.
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Se la conoscenza chiede di apprendere con l’intelletto, la sapienza chiede di esperire con i sensi, senza i quali non apprende il sapore delle cose, il sale: chiede esperienza. Ed esperienza, fidandoci dell’origine della parola, è l’atto dell’uscire, dai confini dell’io, dalle mura della pelle, passando attraverso qualcosa. Non è semplicemente ex-ire (andare fuori, uscire) ma ex-per-ire, cioè andare fuori passando attraverso. Non è parlare dell’acqua, ma entrare nell’acqua e bagnarsi.
Chi non passa attraverso le cose non ne fa esperienza, non le assaggia, dunque non le sa. Sa la vita chi ci passa attraverso, non chi la pensa. Sa il matrimonio chi si sposa, non chi legge libri che ne parlano. Sa la reclusione chi è stato in carcere, in ospedale, in convento, in caserma, in una famiglia senza finestre. E il fare esperienza, il passare attraverso le cose, è proprio la condizione senza la quale non c’è trasformazione, è ciò che porta a mutare nella continuità e a raffinarsi: come il macinato che se non passa attraverso il vaglio non diventa farina, o come la luce che se non passa attraverso la pioggia non rivela i suoi colori nell’arcobaleno.
C’è da chiedersi quanto pesino la conoscenza e la sapienza in questo tempo denso di troppe informazioni, denso fino al marasma, di troppi libri letti (e qualche volta ancora di più sono quelli non letti, che fanno tappezzeria e arredamento o deposito di sicurezze e specchio identitario), e poca vita vissuta, messa in gioco, di odori neutralizzati, di corpi che fanno fatica a toccarsi. Cento libri sulla vita non hanno il potere di restituire il gusto di un bacio, né una biblioteca di teologia di fare avanzare la fede di un centimetro.
Pare evidente che la scuola, così come è diventata e sembra votata sempre più a divenire, stia scommettendo sulla conoscenza, sull’accumulo di informazioni, sulla moltiplicazione delle materie, dei programmi, delle ore di distrazione dalla vita vissuta – complici le famiglie o quel che ne resta, e comunque un modo di vivere del quale si è un po’ tutti conniventi – tanto da rendere necessarie le agende anche per i bambini; pare evidente, dicevo, che stia scommettendo su un apprendimento senza sale, disincarnato, che ritarda, e in qualche misura scoraggia, il contatto con la vita, con cosa non è protetto, garantito, asettico. In questo la scuola, ma non solo la scuola, è innanzitutto scuola di virtualità e astrazione, forse con tinte forti si potrebbe anche dire scuola di distacco, di lontananza, di separazione, di scissione dal mondo così com’è – che non è come lo si architetta a tavolino o nella fantasia –, dagli altri, da sé.
A un ritorno alla parola – intesa come altro dal termine – come antidoto e prassi di resistenza, si potrà aggiungere anche un ritorno all’esperienza? […]
(1) Questo paragrafo è tratto da Ecologia della parola (Pentàgora), un viaggio nella forma e nella storia di alcune parole comuni (tra cui cultura, persona, bellezza, grazie…) con il quale tentare di dire qualcosa di più su questo tempo.
Massimo Angelini è autore di ricerche e scritti dedicati alla storia della cultura delle comunità locali, vive a Minceto, frazione di Ronco Scrivia (Genova). Coordinatore nazionale della Rete Semi Rurali e direttore editoriale della casa editrice Pentàgora. Tra i suoi ultimi libri Minima ruralia: Semi, agricoltura contadina, ritorno alla terra.