Ritratto appassionato d’una città un po’ indolente che, come direbbe un luogo comune irritante ma quantomai radicato nella scuola, ha straordinarie potenzialità ma non si applica. A non prendersi troppo sul serio, contribuisce certo quel proverbiale gusto tutto livornese per il motteggio, una tendenza quasi innata, estrema alla battuta fulminea e dissacrante che poi è molto spesso sana, sanissima auto-ironia. “Ner mi’ palazzo uno ha buttato un cappotto bagnato nell’umido perché era ‘fradicio’ e per lui quello era ir su’ posto; fosse stato asciutto probabilmente l’avrebbe buttato ner secco”, scrive in un post recente Claudio Marmugi. Lui è insegnante e genitore di una studentessa del liceo Cecioni, ma è anche autore, attore, regista di teatro e cabaret, uno che, tra le altre cose, esprime al meglio la cifra inimitabile della comicità livornese. In questo suo bel ritratto di una città che per troppo tempo molti hanno scambiato per una “banchina dove attraccano le navi” con niente intorno, c’è al centro il mare. E come potrebbe essere altrimenti? Ma proprio per quella difficoltà a credere in se stessa, Marmugi indica una cura: “Ogni livornese sa e dovrebbe sapere che, guardando il mare, fissando l’orizzonte, c’è il mondo intero dall’altra parte e, a noi, da qui, non resta che salpare per conquistarlo”. Livorno, spiega, sa essere metafora della vita e anche il solo vivere è, a suo modo, scuola
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Apprendere dall’esperienza. A Livorno

Livorno è una bella città, c’è il mare e un buon fermento culturale. E’ una belle ville da centosessantamila abitanti che a volte gioca a fare il paesone di provincia (dove tutti si conoscono e sanno tutto di tutti). Livorno, eletta al rango di “città” nel 1606, per buona parte del Novecento ha avuto una vocazione industriale, ma la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’Armistizio, si è accanita contro di lei (oltre 100 bombardamenti hanno raso al suolo la città, 1000 gli allarmi aerei). Da alcuni anni, come al tempo della Belle Epoque quando era denominata “la Montecatini del mare”, Livorno sta cercando di riscoprire la sua anima turistica e ce la sta mettendo tutta per intercettare i crocieristi e per attirare i passeggeri all’imbarco e sbarco per le grandi isole (Sardegna e Corsica), milioni di persone l’anno, che per troppo tempo hanno scambiato Livorno per una “banchina dove attraccano le navi” con niente intorno.
Eppure Livorno ha una sua forza e una serie di particolarità tutte da scoprire. Da un secolo e mezzo ha un suo quotidiano (“Il Tirreno”, prima era “Il Telegrafo”, anno di fondazione: 1877) e dal 1961 il più longevo mensile di satira in Italia (“Il Vernacoliere” di Mario Cardinali, detto anche “Livornocronaca”). Per i giovani, in città, sulla carta, ci sono (e sarebbero) tanti stimoli – a volerli cogliere. A Livorno si son formati ottimi registi (Paolo Virzì, Francesco Bruni), che sono anche grandi sceneggiatori, che sanno parlare ai ragazzi (un esempio, la serie Netflix “Tutto chiede salvezza” scritta e diretta da Francesco Bruni, dal libro omonimo di Daniele Mencarelli, è risultata essere la miglior serie italiana del 2023 secondo la rivista “Ciak”), ci sono cantautori “maledetti” che sembrano usciti da un altro tempo e un’altra dimensione (Bobo Rondelli), scrittori di fama internazionale (Carlo A. Martigli), direttori d’orchestra anche romanzieri e che dipingono (Federico Maria Sardelli), disegnatori, illustratori, autori di fumetti, attori, ci sono decine di scuole di teatro, comici di Zelig, cantanti di talent televisivi, gruppi musicali di successo, registi di videoclip. Per imparare, basterebbe mettersi in scia ad osservare e captare i segnali che la città manda. Non ho idea se questo “mood” oggi venga praticato. Trent’anni fa, quand’ero giovane io, si faceva. Si studiava. Si provava. Si praticava.

Livorno è una città che avrebbe delle potenzialità altissime – il motto caro ai professori, “è brava ma non si applica”, le calza a pennello – ma ogni tanto si ha la sensazione che non sfrutti in toto (e non creda a pieno a) tutte le sue possibilità.
Livorno ha una sua geografia, condizionata dal mare. In linea di massima, i quartieri nord sono i più poveri, mentre, mano a mano che ci si sposta verso sud, aumenta il censo (questo non è un assioma, ma al 90% ci si prende). La città si estende per 9 chilometri in parallelo al mar Tirreno (che, in realtà, qui, è mar Ligure). In qualsiasi punto della città (o quasi) il mare è balneabile e quindi ci si può tuffare (non abbiamo spiagge, solo rocce o cemento) dove capita. Il mare, dal centro cittadino, dista meno di un chilometro, dalla costa alla periferia più estrema (spostandosi verso est) non ci sono più di tre chilometri, poi la città finisce. Quindi, Livorno è una lingua, stretta e lunga, e nessuno deve fare troppa strada per arrivare al mare. Per questo il mare è percepito come bene collettivo, “di tutti”, una parte integrante del nostro spirito, del nostro modo di essere, è come un parente stretto, un elemento fondante (e non scontato) della città – che è sorta intorno all’acqua (il nucleo originario corrisponde a quello dove oggi si erge la Fortezza Vecchia di età medicea, che si trova in porto) e per l’acqua (i traffici, di umani e merci, che da essa avevano origine).
E proprio il porto è un pilastro economico, un luogo fisico che nei secoli ha dato e dà molto lavoro, e ha alimentato uno stuolo di attività satelliti (commerciali, finanziarie) connesse sempre alla nostra vicinanza col mare e alla nostra vita sul mare.

In città ci sono buone scuole secondarie di secondo grado (tra cui un Istituto Tecnico Nautico), che formano e plasmano migliaia di studenti, che saranno gli adulti di domani. In questi istituti, ci sono insegnanti e dirigenti scolastici capaci, che stanno facendo un ottimo lavoro perché ci mettono passione. Una passione che si può toccare con mano. Questo può sembrare un dettaglio scritto a così, per compiacere la committenza, per dare un senso a questa introduzione, ma dopo aver avuto esperienze lavorative parallele nel mondo dello spettacolo, del cinema, della televisione, del fumetto e del giornalismo, son tornato a Livorno per insegnare e ho trovato una scuola potente – a volte sì rallentata dalle maglie della burocrazia, come in tutta Italia – ma fatta con amore ed energia da donne e uomini determinati ad illuminare, ai ragazzi, con chiarezza (a giorno, direi), il percorso di formazione da seguire, una missione che è oro in questo mondo caotico e confuso, carico di messaggi spesso inutili dovuti al sovraccarico d’informazioni e stimoli che circolano.
Livorno è una città di provincia, spesso snobbata dalle sorelle della regione Toscana, che hanno tutte una storia più nobile e millenaria che ha riempito i manuali; Livorno stessa ha creduto poco nelle sue capacità acuendo, sotto pelle, un istinto masochistico ad (auto)dissacrarsi, (auto)impantanarsi, (auto)sminuirsi e anche (auto)tarparsi, che è radicato nei cittadini e che spesso ha nociuto allo spirito collettivo globale gravando sulle menti e sull’intraprendenza dei singoli; eppure ogni livornese sa e dovrebbe sapere che, guardando il mare, fissando l’orizzonte, c’è il mondo intero dall’altra parte e, a noi, da qui, non resta che salpare per conquistarlo. E non c’è tempesta che non passi e vento che, prima o poi, non cali o non diventi a favore: chiunque è nato qui ne è a conoscenza. Ce l’ha insegnato la città. Perché Livorno, a volte, sa essere metafora della vita e anche il solo vivere è, a suo modo, scuola.