Dopo le occupazioni, le manifestazioni e le assemblee di molte scuole romane la protesta degli studenti e delle studentesse tra febbraio e aprile ha agitato soprattutto Torino e Milano. È tempo di ascolto e di riscoperta del conflitto e del suo straordinario potenziale creativo. C’è bisogno di fidarsi di loro, raccogliere la loro rabbia, le loro voci, dare loro spazio
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Aspettavamo qualche domanda
Foto di Acmos
Per chi è abituato a ragionare in termini generazionali non era difficile prevedere che, prima o poi, qualcosa sulla scena pubblica si sarebbe mosso. D’altronde è un normale e sano processo fisiologico di mutamento, anche i corpi sociali sono organi dinamici e in continua evoluzione. I primi segnali si stanno manifestando, a dispetto di ogni “transizione” che richiede tempi a volte lunghissimi, in alcuni casi anche insuperabili. Si sa, noi adulti siamo abituati a pensare in termini razionali, a volte eccessivamente prudenti, manchiamo spesso di quel coraggio e di quella incoscienza che caratterizza il potenziale delle giovani generazioni. E sì, proprio loro, i tanto bistratti giovani italiani: dapprima i “ritardatari”, rispetto ai propri padri e ai propri coetanei europei, poi i choosy, i bamboccioni, gli untori. Proprio loro, che da circa un ventennio si vedono affibbiare ogni forma di aggettivo per descrivere uno stato che forse sfugge allo sguardo adulto. Uno sguardo che ci è fatto troppo statico, fino a pietrificarsi al punto di interrompere l’ascolto e la relazione e farsi duro e autoritario in alcune piazze del nostro paese.
Proprio loro, che hanno manifestato il loro diritto di esistere quando hanno deciso di prendere parola per il dolore e l’indignazione verso la morte di un loro coetaneo, Lorenzo Parelli, colpito da una trave a T di 150 kg in provincia di Udine durante un’alternanza scuola-lavoro. Proprio loro, i teneri e simpatici giovani, troppo vicini da essere guardati come perenni bambini, troppo lontani per essere presi sul serio. Tra noi e loro c’è un abisso, un vuoto, che non si può colmare a suon di repressione per rispondere alla paura che agita e spaventa noi adulti. C’è bisogno di fidarsi di loro, ora più che mai, raccogliere la loro rabbia, le loro voci, dare loro spazio, posto, autorevolezza.
Alimentare il muro contro muro servirà solo ad accendere un conflitto che può farsi pericoloso, perché tanto noi siamo “già passato” e loro sono il nuovo respiro della terra, che non può essere soffocato. Tanto vale sedersi insieme intorno a un tavolo e lasciarsi sedurre, farli ballare nelle piazze, permettere loro di esprimersi, porsi in un atteggiamento umile, abbracciarli, imparare da loro. Noi, che siamo nati o cresciuti in tempi nei quali il conflitto si è espresso o tramandato in forme contrapposte e spesso violente, potremmo scoprire che esso non è altro che potenziale creativo, e che può essere portato in posti sicuri, audaci, che generano bellezza e sviluppo, per tutti. Questo possibile apprendimento merita uno sforzo.
Forse sarà possibile ripristinare un dialogo intergenerazionale solo a partire dall’ascolto, più che dalle maniere forti, dalla dolcezza e dalla tenerezza più che dal pugno di ferro. Questo può essere disarmante per chi si è socializzato in un mondo nel quale l’ascolto profondo e creativo di sé è stato superato dal fragore del consumo esasperato e compulsivo di cose, in tempi nei quali l’ “io” è diventato ipertrofico, egoico, sordo ai bisogni e alle esigenze della comunità, dell’altro, dunque del proprio “altro interiore”. Quarant’anni di “la società non esiste” sono diventati un mantra e, ahimè, una realtà che ha impoverito, materialmente e spiritualmente, le nostre vite, rendendoci solo più soli e più persi, senza legami sociali e incapaci di guardare negli occhi il nostro vicino, oltre che noi stessi.
Forse questi segnali, queste tracce di vita, di esistenza, che dalle piazze italiane fanno sentire il loro disappunto contro un sistema di sfruttamento che ha permeato e fatto il suo ingresso anche nella scuola, luogo per eccellenza deputato alla crescita e alla formazione umana, sono l’unico grido di speranza e salvezza per la nostra specie, una finestra che si spalanca e che fa entrare luce e aria in un ambiente senza ossigeno. Dovremmo ringraziarli.
Mi sono già occupata in passato di quanto, quelle che io chiamo “le generazioni di mezzo”, cioè nate tra il 1975 e il 1985, stessero cambiando forme del loro stare nel mondo, anche rispetto alla relazione con il mondo del lavoro. La ricerca che ho condotto ha fatto emergere un patrimonio aspirazionale diffuso ed espresso attraverso la creazione di “nuovi lavori”, legati al mondo delle arti, della comunicazione, della valorizzazione ambientale e dei territori, del turismo sostenibile, delle tecnologie digitali, etc, che mischiano soggettività e bisogni materiali, spinte ideali ed esigenze concrete. Ma cercano di farlo non opponendo mente e spirito, fame e sogni, bensì provando a integrare queste due componenti che hanno bisogno di stare insieme per produrre frutti, individuali e collettivi, per generare sviluppo economico e sociale. Non sempre, o meglio quasi mai, questo processo è stato possibile.
Stiamo parlando dei quarantenni odierni, la generazione a cavallo tra due mondi. Poi ci sono loro, i ventenni delle piazze, quelli che ci stanno prendendo per mano e ci stanno facendo nuovamente tornare a credere che desiderare si può, e che non può essere una colpa, che ogni giovane ha diritto a un futuro di gioia che corrisponda ai propri bi-sogni, che non ci si può arrendere al cinismo spacciato per realismo e che bisogna ripartire proprio da qui, da queste tracce di futuro che riaccendono speranze.
Non sapremo se saranno uno tsumani o una carezza, possiamo solo pensare di aiutarli a tradurre i loro sogni in realtà. La gioventù non è una colpa, smettiamo di considerarla una malattia in questo paese e facciamoci contagiare.
Futura, sociologa
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